Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 19439 del 08/03/2018


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Penale Sent. Sez. 1 Num. 19439 Anno 2018
Presidente: TARDIO ANGELA
Relatore: SANTALUCIA GIUSEPPE

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
RUSSELLO MIRKO nato il 28/09/1989 a GELA

avverso la sentenza del 19/01/2017 della CORTE APPELLO di CALTANISSETTA
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere GIUSEPPE SANTALUCIA
Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore FRANCESCO
MAURO IACOVIELLO
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Il Procuratore Generale conclude per il rigetto del ricorso
Udito il difensore
Il difensore presente conclude chiedendo l’annullamento con rinvio della
sentenza.

Data Udienza: 08/03/2018

Ritenuto in fatto

La Corte di appello di Caltanissetta ha parzialmente riformato la sentenza con cui il giudice
dell’udienza preliminare del Tribunale di Gela aveva condannato Mirko Russello per il reato di
tentato omicidio in danno di Giovanni D’Amico con lesioni causate al contempo, per un errore
nell’uso dei mezzi di esecuzione, a Emanuele Termini, occasionalmente presente sui luoghi
dell’aggressione; ha così ridotto la pena ad anni sette e mesi sei di reclusione.
La Corte di appello ha ricostruito le modalità del fatto, precisando che l’imputato, giunto

motocicletta, sceso dal veicolo, puntò contro questi una pistola e fece fuoco, esplodendo un colpo
che raggiunse la marmitta della motocicletta del D’Amico. Questi allora reagì, aggredì il Russello
e riuscì ad allontanarsi. Poco dopo, però, fu raggiunto in altro luogo dal Russello che, sceso dal

veicolo, fece fuoco nuovamente contro di lui. In questo secondo episodio dell’aggressione armata
fu occasionalmente ferito ad una coscia un passante, Emanuele Termini, ma il D’Amico riuscì a
fuggire. Solo dai risultati delle intercettazioni ambientali disposte sull’autovettura del D’Amico si
è potuto ricostruire l’accaduto,

identificare l’autore dell’aggressione e anche il movente,

ricondotto al fatto che il D’Amico aveva avuto una relazione sentimentale con la fidanzata del
Russello nel periodo in cui questi si trovava detenuto in carcere.
La Corte di appello ha ritenuto provato il dolo di omicidio, desumendone la sussistenza
dall’aver cercato e raggiunto la vittima portando con sé un’arma, dall’averla inseguita dopo un
primo agguato, dalla pluralità di colpi esplosi in direzione della stessa, idonei a cagionarne la
morte. Ha poi escluso la sussistenza dell’attenuante della provocazione, negando che possa

individuarsi il fatto ingiusto, produttivo dello stato d’ira, nella relazione sentimentale intercorsa
tra la vittima e la fidanzata del Russello mentre questi era detenuto. Del pari ha negato la
concessione delle attenuanti generiche in ragione del comportamento processuale ed ha
applicato un aumento di pena, di metà invece dei due terzi della pena base applicato dal giudice
di prime cure, per la recidiva reiterata

e specifica, precisando che essa non è anche

infraquinquennale, dato che il precedente era invero stato commesso a distanza di più di cinque
anni rispetto all’ultima sentenza di
comportamento

condanna per delitto non colposo. Ha aggiunto che il

oggetto del presente giudizio si salda ai precedenti penali, mostrandosi

espressione della pericolosità dell’imputato.
Avverso la sentenza ha proposto ricorso il difensore dell’imputato, che ha articolato più
motivi.

Col primo motivo ha dedotto violazione di legge e difetto di motivazione. La Corte
territoriale ha errato nel ritenere configurabile il tentativo e il dolo d’omicidio, dal momento che
non ha adeguatamente valorizzato la direzione del primo colpo di arma da fuoco, dalla traiettoria
bassa e decentrata, trascurando di considerare che i successivi furono esplosi dopo la reazione
inaspettata del D’Amico. Non ha del pari considerato che il Termini fu ferito in parti non vitali.

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a bordo di una motocicletta nel luogo in cui si trovava il D’Amico, a sua volta a bordo di altra

Ha quindi dato rilievo ad altri indici di una certa equivocità e non ha adeguatamente tenuto conto
della confessione dell’imputato.
Col secondo motivo ha dedotto violazione di legge e difetto di motivazione per il mancato
riconoscimento dell’attenuante della provocazione nonostante risulti che l’imputato aveva, poco
prima del fatto in imputazione, appreso della relazione sentimentale intercorsa, durante il
periodo in cui era stato detenuto, tra la sua fidanzata e il D’Amico.
Col terzo motivo ha dedotto violazione di legge e difetto di motivazione in relazione al

natura e l’epoca di commissione dei precedenti e di verificare se il nuovo episodio criminoso sia
significativo di un’accentuata colpevolezza e di maggiore pericolosità.
Col quarto motivo ha dedotto violazione di legge, perché l’aumento per la recidiva, ex
articolo 99, comma 1, c.p., è stato computato nella metà invece che in un terzo della pena.
Col quinto motivo ha dedotto violazione di legge e difetto di motivazione in ordine alla
mancata concessione delle attenuanti generiche nonostante l’ammissione del fatto, sol perché
l’imputato ha ribadito di aver inteso soltanto intimidire la vittima e di aver puntato, nello sparare
i colpi, verso il basso, e quindi verso parti non vitali del corpo.
Successivamente il difensore ricorrente ha depositato memoria, con cui ha insistito per
l’accoglimento dei motivi di ricorso.
Considerato in diritto
Il ricorso è infondato per le ragioni di seguito esposte.
La Corte territoriale ha dato motivazione adeguata circa l’affermazione del dolo
d’omicidio, valorizzando, secondo criteri logici condivisibili, alcuni essenziali aspetti oggettivi
della vicenda. Ha fatto buon governo dei principi posti dalla giurisprudenza di questa Corte, che
ha stabilito il principio di diritto secondo cui “in tema di omicidio tentato, la prova del dolo, in
assenza di esplicite ammissioni da parte dell’imputato, ha natura indiretta, dovendo essere
desunta da elementi esterni e, in particolare, da quei dati della condotta che, per la loro non
equivoca potenzialità offensiva, siano i più idonei ad esprimere il fine perseguito dall’agente. Ne
consegue che, ai fini dell’accertamento della sussistenza dell’animus necandi, assume valore
determinante l’idoneità dell’azione, che va apprezzata in concreto, con una prognosi formulata
ex post,

con riferimento alla situazione che si presentava all’imputato al momento del

compimento degli atti, in base alle condizioni umanamente prevedibili del caso. – Sez. 1, 18
aprile 2013, n. 35006, Polisi, C.E.D. Cass., n. 257208

.

Ha così preso in esame il comportamento dell’autore del fatto, valorizzando alcuni tratti
qualificanti nella prospettiva di rivelarne l’elemento soggettivo. Questi cercò e raggiunse la
vittima dopo un primo episodio di aggressione, la inseguì dopo aver esploso un colpo d’arma da
fuoco e aver cercato di reiterare i colpi senza riuscirvi a cagione del fatto che il D’Amico, mancato
dal primo colpo, gli si avventò contro e nella colluttazione il caricatore si sganciò dall’arma,
consentendo quindi la fuga del D’Amico. La Corte territoriale, sì come aveva fatto il giudice di
prime cure, ha letto questo comportamento come indicativo di una determinazione aggressiva
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riconoscimento della recidiva cd. facoltativa. La Corte territoriale ha omesso di considerare la

che va ben oltre la finalità meramente intimidatoria, dichiarata dall’imputato. Non ha quindi
trascurato l’apporto confessorio di quest’ultimo ma lo ha doverosamente confrontato con

le

risultanze oggettive. Ancora, altro elemento di fatto che, nella motivazione della sentenza
impugnata, converge verso la conclusione del dolo d’omicidio è quello della pluralità dei colpi
esplosi in direzione della vittima. Il colpo d’arma da fuoco esploso nel corso del primo episodio
finì col colpire la marmitta della motocicletta a bordo della quale si trovava la vittima, e quindi
ebbe una traiettoria dall’alto verso il basso, come si legge nella sentenza di primo grado (fl. 25).
Ciò però, al di là delle

prospettazioni di ricorso, non è indice della volontà soltanto di

i due episodi dell’unica vicenda aggressiva, a far propendere per la sussistenza del dolo
d’omicidio. L’affermazione della sentenza di appello è logica e persuasiva, nonostante il dato
oggettivo della traiettoria del primo colpo esploso, che potrebbe far ritenere che l’autore volesse
evitare di colpire la vittima, specie in organi vitali. Se però si pone attenzione a quanto emerge
dalla sentenza di primo grado, anche questo elemento della traiettoria finisce col perdere una
seria significazione difensiva.
Occorre a tal proposito rammentare che “le sentenze di primo e di secondo grado si
saldano tra loro e formano un unico complesso motivazionale, qualora i giudici di appello abbiano
esaminato le censure proposte dall’appellante con criteri omogenei a quelli usati dal primo
giudice e con frequenti riferimenti alle determinazioni ivi prese ed ai fondamentali passaggi
logico giuridici della decisione e, a maggior ragione, quando i motivi di gravame non abbiano

riguardato elementi nuovi, ma si siano limitati a prospettare circostanze già esaminate ed
ampiamente chiarite nella decisione impugnata” – Sez. III, 1 dicembre 2011, n. 13926/12,
Valerio, C.E.D. Cass., n. 252615

.

Nel ricostruire le modalità del primo episodio, la sentenza di primo grado prende in esame
le dichiarazioni della vittima, il D’Amico: questi ha riferito che l’imputato “sceso dal proprio
veicolo si era messo di fronte a lui ad una distanza di circa due metri, aveva estratto una pistola
puntandogliela contro ed esploso un colpo che lo aveva mancato andando a conficcarsi nella
marmitta della sua moto” (fl. 4). Ma su quella moto il D’Amico, come appena prima chiarito, era
a bordo ai momento dell’esplosione del colpo. E allora la traiettoria dall’alto verso il basso si
spiega alla luce della posizione che l’imputato e la vittima avevano al momento dell’esplosione
del colpo: il primo, sceso dalla motocicletta, in piedi e quindi collocato più in alto rispetto alla
vittima che, a bordo della sua motocicletta, si trovava in posizione più bassa. Il colpo fu dunque
esploso in direzione della vittima e non deliberatamente verso la marmitta della motocicletta di
quest’ultima, che alla fine fu colpita.
Anche durante il secondo episodio i più colpi esplosi furono indirizzati verso il D’Amico,
mentre questi fuggiva con la sua motocicletta: uno dei colpi ferì alla coscia destra un passante,

Emanuele Termini, e ciò è prova che la direzione dei colpi non era certo quella propria degli atti
intimidatori, con colpi sparati in aria e ben lontano dallo spettro interessato dalla presenza di
corpi umani. Del tutto plausibile è poi il giudizio che il giudice d’appello ha tratto dalla relazione

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intimidazione, perché, afferma il giudice di appello, è la direzione dei colpi, senza distinzione tra

balistica prodotta dalla difesa, sulla premessa della ricostruzione meramente deduttiva delle
traiettorie che non collima con le altre risultanze processuali circa la dinamica dell’aggressione
armata.
Nessun vizio, pertanto, si rileva nella sentenza impugnata circa l’affermazione del
tentativo di omicidio e del relativo dolo diretto, quanto meno nelle forme del dolo alternativo.
Sul punto è appena il caso di richiamare Sez. un., 6 dicembre 1991, n. 3428/92, Casu e altri,
C.E.D. Cass., n. 189405, secondo cui “il dolo eventuale e il dolo alternativo sono due distinte

l’evento delittuoso, ma si rappresenta la probabilità, od anche la semplice possibilità, che esso
si verifichi e ne accetta il rischio. Il secondo è contraddistinto dal fatto che il soggetto attivo
prevede e vuole alternativamente, con scelta sostanzialmente equipollente, l’uno o l’altro evento
e risponde per quello effettivamente realizzato”.
Il secondo motivo è parimenti infondato. La circostanza attenuante della provocazione
può essere riconosciuta, a condizione che ricorrano: “a) lo stato d’ira, costituito da una situazione
psicologica caratterizzata da un impulso emotivo incontenibile, che determina la perdita dei
poteri di autocontrollo, generando un forte turbamento connotato da impulsi aggressivi; b) il
fatto ingiusto altrui, costituito non solo da un comportamento antigiuridico in senso stretto ma
anche dall’inosservanza di norme sociali o di costume regolanti l’ordinaria, civile convivenza, per
cui possono rientrarvi, oltre ai comportamenti sprezzanti o costituenti manifestazione di iattanza,
anche quelli sconvenienti o, nelle particolari circostanze, inappropriati; c) un rapporto di causalità
psicologica tra l’offesa e la reazione, indipendentemente dalla proporzionalità tra esse”. -Sez.
I, 8 novembre 2011, n. 5056/12, Ndoj, C.E.D. Cass., n. 251833 -. Nel caso in esame, al di là
del fatto della breve relazione sentimentale intercorsa, nel 2009, tra la fidanzata dell’imputato,
che a quel tempo era detenuto, e il D’Amico, non emergono dalla lettura della sentenza
impugnata elementi che possano far ritenere la manifesta illogicità o comunque una significativa
carenza nella motivazione della sentenza impugnata. È infatti persuasiva ed adeguata
l’argomentazione secondo cui il fatto ingiusto non possa essere ravvisato nella relazione
sentimentale di circa cinque anni addietro tra la fidanzata dell’imputato e il D’Amico e che, pur
considerando che di tale fatto l’imputato abbia avuto soltanto dopo tempo conoscenza, manca il
necessario requisito dell’immediatezza tra l’apprensione dell’ingiustizia e la reazione, che deve
connotarsi in termini di forte impulso emotivo. A tal proposito si è detto che “non è necessario
che la reazione venga attuata nello stesso momento in cui sia ricevuta l’offesa, essendo
sufficiente che essa abbia luogo finché duri lo stato d’ira suscitato dal fatto provocatorio – Sez.
I, 7 ottobre 2015, n. 48859, Pisano, C.E.D. Cass., n. 265220 -; ma di uno stato d’ira che sia
rimasto persistente per mesi, dalla scarcerazione del gennaio 2014 al giorno dell’aggressione,
non v’è alcun indice.
Il terzo motivo è manifestamente infondato, dal momento che la Corte di appello ha
adeguatamente motivato circa la rilevanza in concreto della recidiva, affermando che i precedenti
penali esprimono la propensione alla violenza e all’aggressione, la scarsa attitudine al controllo
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forme di dolo: il primo è caratterizzato dal fatto che chi agisce non ha il proposito di cagionare

degli impulsi violenti, per poi concludere che il comportamento accertato nei termini di cui
all’imputazione “si salda ai precedenti penali mostrandosi espressione della sua

(id est:

dell’imputato) pericolosità” (fl. 6).
Il quarto motivo è manifestamente infondato, perché è palese che il riferimento al comma
l dell’articolo 99 c.p. sia frutto di un mero errore materiale. La recidiva è stata infatti qualificata
come recidiva reiterata dalla stessa sentenza impugnata (fl. 6).
Il quinto motivo è manifestamente infondato. La Corte di appello ha dato adeguatamente

precisando che l’apporto confessorio, per i contenuti e i tempi dell’intervento, non è fatto che
possa giustificare l’attenuazione di pena. Si tratta di un giudizio, adeguatamente motivato, di
mero fatto, che pertanto non è di per sé censurabile in sede di legittimità.
Il ricorso deve dunque essere rigettato, con conseguente condanna del ricorrente al
pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, 8 marzo 2018.

conto delle ragioni per le quali ha ritenuto di non concedere le circostanze attenuanti generiche,

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