Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 19409 del 09/03/2017


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Penale Sent. Sez. 1 Num. 19409 Anno 2017
Presidente: DI TOMASSI MARIASTEFANIA
Relatore: CAIRO ANTONIO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
PROCURATORE DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE
DI MILANO
nei confronti di:
TAFANI DAVIDE N. IL 12/04/1970
avverso l’ordinanza n. 4986/2012 GIP TRIBUNALE di MILANO, del
08/03/2013
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. ANTONIO CAIRO;
lette/sentite le conclusioni del PG Dott.

Uditi difensor Avv.;

Data Udienza: 09/03/2017

Letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del dott. Stefano
Tocci, Sostituto Procuratore generale della Repubblica presso questa Corte, il quale
ha concluso per l’annullamento con rinvio dell’ordinanza impugnata.

RITENUTO IN FATTO

1. Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano con ordinanza

sospensione condizionale della pena concesso al Tafani Davide con la sentenza del
Tribunale ordinario di Monza, in data 30/05/2008, irrevocabile l’1/02/2009 con cui
era stata inflitta la pena di anni uno mesi quattro di reclusione ed applicava la
disciplina del reato continuato limitatamente alle sentenze del Tribunale ordinario di
Milano in data 17/6/2009 – irrevocabile il 27/11/2010 – e in data 9/2/2010
(irrevocabile 12/4/2011) rideterminando, in parte qua, la pena in quella di mesi
quattro di reclusione.
2. Ricorre per cassazione il Pubblico Ministero presso il Tribunale di Milano e
lamenta la violazione dell’art. 187 d. att. cod. proc. pen.
In particolare, lamenta il ricorrente che il Tribunale aveva applicato il regime
della continuazione ex art. 671 cod. proc. pen., ritenendo più grave la pena inflitta
di mesi due giorni venti di reclusione, rispetto a quella di mesi cinque di arresto
parimenti inflitta con l’altro titolo ed era così giunto a determinare una pena
detentiva complessiva in contrasto con il criterio di cui all’art. 187 d. att. cod. proc.
pen..

CONSIDERATO IN DIRITTO
1.

Il ricorso è fondato per quanto si passa ad esporre.

1.1. Si pone la dibattuta questione concernente l’individuazione del criterio
per la determinazione della “violazione più grave” e delle regole da applicare per
l’aumento della pena base, in ipotesi di reati avvinti dal vincolo della continuazione
in fase di esecuzione.
Il tema è stato oggetto di diverse interpretazioni giurisprudenziali anche da
parte delle Sezioni Unite di questa Corte a far data dalla modifica della disciplina
originaria dell’art. 81 cod. pen. da parte dell’art. 8 d.l. 11 aprile 1974, n.99 conv.
con modif. nella I. 7 giugno 1974, n. 220.
La novella di riforma ha adottato per il concorso formale di reati il criterio del
cumulo giuridico, estendendone la disciplina al reato continuato, la cui area di
operatività, limitata alle violazioni della stessa disposizione di legge, è stata prevista
anche per le violazioni di diverse disposizioni di legge.

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in data 8/3/2013, in funzione di giudice dell’esecuzione, revocava il beneficio della

Con la generalizzazione del criterio del cumulo giuridico, nel sistema vigente,
l’ambito di rilevanza del cumulo materiale è confinato all’ipotesi di concorso
materiale di reati non legati dal vincolo di continuazione.
Su premesse siffatte, tra le

questioni maggiormente dibattute nella

giurisprudenza di questa Corte si è enucleata quella relativa alla individuazione del
criterio per la determinazione della violazione più grave. Si è, cioè, trattato di
specificare se esso fosse definibile “in astratto” (con riguardo alla mera previsione

pena inflitta attraverso la valutazione giudiziale).
La seconda soluzione era stata inizialmente preferita. Tra le prime decisioni
si era, appunto, affermato che si dovesse avere riguardo, per la determinazione
della pena base, a quella più grave da infliggere in concreto (Sez. Un. 19 giugno
1982, n. 9559, Alunni, nr. 155673).
Le oscillazioni derivanti dalle applicazioni concrete avevano, tuttavia, indotto
la giurisprudenza successiva a riferirsi alle valutazioni astratte compiute dal
legislatore. Nel concorso tra delitti e contravvenzioni si soleva affermare che
dovesse essere ritenuta più grave la violazione costituente delitto, anche se la
contravvenzione risultava punita con una pena che, riguardata sotto il profilo della
conversione, risultava maggiore quantitativamente, rispetto a quella prevista per il
delitto (Sez. Un. 27 marzo 1992, n.4901, Cardarilli, nr.191128; S.U. 12 ottobre
1993, n. 748, Cassata, 195805).
Il diverso orientamento, secondo cui avrebbe avuto prevalenza il criterio
della gravità “in concreto” si riteneva trovasse fondamento nell’art.187 d. att. cod.
proc. pen. norma che non sarebbe stata limitata alla fase dell’esecuzione
(Cass.Sez.VI, 25 giugno 1993, n.2019, Abrami, 194926).
1.2. La disposizione indicata, dettata quale criterio operativo ex art. 671 cod.
proc. pen., prevede che “si considera violazione più grave quella per la quale è
stata inflitta la pena più grave”.
Le sezioni Unite di questa Corte hanno, tuttavia, avuto modo di ribadire che
la norma risulta applicabile solo in fase di esecuzione. Ciò perché in quella
congiuntura procedimentale si deve solo prendere atto della valutazione compiuta
dal giudice della cognizione, riferendosi alle pene più gravi che siano state
concretamente già inflitte (Sez. U, sentenza n. 15 del 26/11/1997 Cc. (dep.
03/02/1998) P.M. in proc. Varnelli, Rv.209486).
La giurisprudenza

successiva risulta essersi, in definitiva, conformata

all’arresto indicato, ribadendo che la pena destinata a costituire la base sulla quale
operare gli aumenti fino al triplo per i reati satelliti – qualunque sia il genere o la
specie della loro sanzione edittale – è esclusivamente quella prevista per la

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legale) ovvero se dovesse essere delimitato “in concreto” (all’esito, dunque, della

violazione più grave (Sez. U, sentenza n. 15 del 26/11/1997 Cc. (dep. 03/02/1998)
P.M. in proc. Varnelli, Rv.209486; Sez.1, Sentenza n. 345 del 05/11/2001 Cc. (dep.
08/01/2002); Sez. 5, sentenza n. 35999 del 17/03/2015 Ud. (dep. 04/09/2015),
Rv. 265002; in senso contrario sembra porsi, recentemente, solo, Sez. 5, sentenza
n. 46695 del 03/10/2016 Ud. (dep. 08/11/2016), Rv.268638, secondo cui la
conversione delle pene per i reati satellite in pene più gravi per genere o specie,
opererebbe in violazione del principio del “favor rei” che ispira la disciplina del reato

2.

Ciò posto ritiene il Collegio di ribadire l’orientamento già espresso

dalla giurisprudenza di questa Corte secondo cui il giudice dell’esecuzione,
nell’applicazione della disciplina della continuazione in ordine a reati separatamente
giudicati con sentenze irrevocabili, è tenuto ad individuare la violazione di maggiore
gravità con riferimento alla pena più elevata, determinata in concreto dal giudice
della cognizione, ai sensi dell’art. 187 disp. att. cod. proc. pen. (Sez. 1, sentenza n.
31640 del 09/05/2014 Cc. (dep. 17/07/2014), Radu, Rv. 261088).
2.1. Il giudice

a quo, nel caso di specie, ha contrariamente applicato il

regime della continuazione non tenendo conto dell’interpretazione segnalata e che
la giurisprudenza di questa Corte risulta aver oramai consolidato in relazione
all’art. 187 d. att. cod. proc. pen. La norma, si è visto, fissa un criterio di
valutazione legale della gravità del fatto in funzione dell’applicazione del regime
della continuazione e del concorso formale in sede di esecuzione.
Violazione più grave “si considera”, nello stesso profilo testuale della
disposizione, quella per la quale sia stata inflitta la pena di maggiore gravità in
concreto. Si tratta, pertanto, di un giudizio /formale, da esprimere secondo il
criterio della commisurazione in concreto della sanzione e che si risolve in una
presa d’atto, da parte del giudice dell’esecuzione, all’esito del confronto sul
quantum, tra le diverse pene inflitte in sede di cognizione.
Non rilevano, in operazione siffatta, dunque, giudizi di valore, criteri legali di
lesività astratta delle fattispecie, secondo la diversa natura delle incriminazioni nei
distinti paradigmi normativi (delitti o contravvenzioni). Ciò che regolamenta
l’applicazione del regime della continuazione o del concorso formale, in sede di
esecuzione è, piuttosto, la pena in concreto inflitta dal giudice della cognizione.
Del resto, a fronte di fatti puniti con pene eterogenee (in particolare di
specie diversa – arresto e reclusione -) non può mutare il criterio risolutore.
Sia l’arresto che la reclusione, appartengono, invero, alla categoria delle
pene detentive che, pur con le precipue peculiarità – che ne caratterizzano i relativi
statuti sostanziali ed effettuali – mantengono un humus

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concettuale unitario, che

continuato).

le accomuna in un nucleo costitutivo di base comune, recuperandole alla privazione
della libertà personale.
D’altro canto, in questa logica, l’arresto, nella sua consistenza ontologica,
non risulta una sanzione di minore afflittività rispetto alla reclusione. Esso, di
converso, consta in termini identici della privazione della libertà personale del
soggetto e si differenzia dalla reclusione medesima, in punto sostanziale, per un
criterio distintivo formale che, da un lato, afferisce la sua durata e il tipo di illecito

possibili vicende modificativo-estintive.
Né le diverse modalità d’esecuzione, in astratto previste per la reclusione e
l’arresto stesso, potrebbero fondare distinzioni sul terreno in esame, richiamando,
appunto, quanto previsto dall’art. 61 L. 26 luglio 1975, n. 354. Le differenze sul
piano esecutivo-trattamentale tra le due sanzioni tendono, invero, a sfumare e la
stessa suddivisione tra case di arresto e case di reclusione è rimasta norma
sostanzialmente inattuata, essendosi, in definitiva, uniformata la prassi ad
equiparare le condizioni di restrizione, sia pur in esecuzione delle due distinte
categorie di sanzioni.
Anche in una prospettiva de iure condendo l’art 1 comma 1 lett. a) I. 28
aprile 2014, n. 67 ha conferito delega al governo in materia di pene detentive e di
riforma del sistema sanzionatorio, finalizzata ad indurre il superamento della pena
in esame da sostituire con una pena dell’arresto “domiciliare” di carattere non
carcerario.
Ciò posto si intende, allora, come non ricorrano fattori che, in punto logico e
giuridico, siano ostativi all’interpretazione già seguita da questa Corte, con la
precisazione che in fase di esecuzione, anche il regime unitario sanzionatorio che
caratterizza il reato continuato o il concorso formale è suscettibile di scioglimento
con relativa espansione del principio pluralistico della pena, che caratterizza
l’individualità delle singole fattispecie avvinte dalla continuazione. In questa logica,
dunque, le vicende estintive che possono caratterizzare le pene dei singoli reati,
unificati ex art 81 cod. pen., risultano sottratte al regolamento unitario, in guisa
tale da conservare la individualità genetica e da essere assoggettate all’indicato
principio pluralistico. Ciò vale indubbiamente per le pene accessorie e per ogni
altro effetto penale della condanna (art. 77 cod. pen. ), come pure per l’estinzione
della pena per decorso del tempo (art. 172 cod. pen.). Là dove, al contrario, la
legge sia silente, deve ritenersi che prevalga in applicazione del criterio del favor rei
il principio del trattamento unitario (come in materia di sospensione condizionale
della pena – art 163 cod. pen.– ovvero di non menzione – art 175 cod. pen. -).

5

che sanziona e che, dall’altro, investe i profili strettamente effettuali, inerenti le

2.3. Alla luce di quanto premesso l’ordinanza impugnata deve essere
annullata con rinvio al Giudice per le indagini preliminari (diversa composizione) del
Tribunale di Milano per nuovo esame. Il giudice del rinvio si adeguerà al principio di
diritto enunciato secondo cui in caso di applicazione del regime della continuazione
o del concorso formale in executívis va considerato reato più grave quello per il
quale sia stata inflitta in concreto la pena di maggiore gravità in sede di cognizione

P.Q.M.

Annulla l’ordinanza impugnata e rinvia per nuovo esame al G.i.p. del
Tribunale di Milano.
Così deciso in Roma il 9 marzo 2017.

IL CONSI LIERE ESTENSORE

IL PRESIDENTE

a prescindere dalla natura delle fattispecie giudicate (delitto o contravvenzione).

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