Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 19394 del 13/12/2016


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Penale Sent. Sez. 1 Num. 19394 Anno 2017
Presidente: VECCHIO MASSIMO
Relatore: SIANI VINCENZO

Data Udienza: 13/12/2016

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
FONTANA ANTONINO N. IL 10/09/1971
FONTANA FRANCESCO CARMELO N. IL 19/04/1969
FONTANA GIUSEPPE CARMELO N. IL 11/09/1977
FONTANA GIANDOMENICO N. IL 17/01/1974
avverso l’ordinanza n. 3/2016 TRIB. LIBERTA’ di REGGIO
CALABRIA, del 09/03/2016
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. VINCENZO SIANI,
legeisentite le conclusioni del PG Dott.
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SC:71i< i i Lin 4( RITENUTO IN FATTO 1. Con l'ordinanza in epigrafe, emessa in data 9 - 14 marzo 2016, il Tribunale di Reggio Calabria - adìto in sede di appello, ai sensi dell'art. 310 cod. proc. pen., proposto da Antonino, Francesco Carmelo e Giuseppe Carmelo Giandomenico Fontana avverso l'ordinanza con cui il Tribunale di Reggio Calabria in composizione collegiale, in data 22 dicembre 2015, aveva respinto l'istanza di dichiarazione di avvenuta cessazione (dell'efficacia) della misura della custodia del processo che vedeva imputati i quattro istanti del delitto p. e p. dall'art. 416 bis, commi 1, 2, 3, 4, 5, 6 ed 8, cod. pen., il primo quale vertice apicale e gli altri tre quali partecipi del sodalizio, fatto avvenuto in Reggio Calabria, dal 2001 al 31 maggio 2012 - ha rigettato l'appello. 2. Hanno proposto ricorso in questa sede i Difensori di Antonino, Francesco Carmelo e Giuseppe Carmelo Giandomenico Fontana chiedendo l'annullamento dell'ordinanza impugnata. Le impugnazioni unitariamente articolate - dopo lo svolgimento di una premessa volta a ricostruire le ragioni dell'avvenuta formulazione dell'istanza di scarcerazione previa elisione, ai fini del computo dei termini ex art. 303 cod. proc. pen delle contestazioni di cui ai commi 2, per Antonino Fontana, e 4 e 6, per tutti i ricorrenti, dell'art. 416 bis cod. pen., in quanto strumentali ed arbitrarie, nonché delle doglianza formulata in sede di appello addotti avverso il rigetto esitato dal Giudice dibattimentale procedente ed, infine, della risposta negativa resa dal Giudice del gravame - vengono affidate a due motivi. 2.1. Con il primo motivo si denuncia la violazione e la falsa applicazione degli artt. 416 bis cod. pen. e 303 cod. proc. pen., nonché l'omissione, insufficienza ed illogicità della motivazione per contraddittorietà intratestuale ed extratestuale, in relazione all'art. 606, lett. b) ed e), c.p.p., in quest'ultimo senso con riferimento alla sentenza Olimpia 1 ed alle deposizioni di Lo Giudice, Moio, Silipo, Sorrentino, Mannucchi ed al verbale del 9 novembre 2015, quanto alla rinuncia all'escussione di Zavattieri. I ricorrenti hanno evidenziato che non era stato accolto, ma nemmeno confutato, dal Tribunale l'argomento secondo cui l'asserto relativo alla continuità fra la vecchia consorteria Saraceno - Fontana e l'attuale associazione mafiosa Fontana non si fondava su evidenze processuali, ma sull'inaccettabile postulato del "semel mafioso semper mafioso" e della trasmissione per familiarità della natura mafiosa: eppure ad istruttoria conclusa poteva affermarsi che nessuno dei dichiaranti - in particolare, quelli sopra citati - era stato in grado di riferire chi 2 cautelare per decorrenza del termine relativo alla fase dibattimentale nell'ambito avrebbe fatto parte della nuova associazione Fontana. Quanto, poi, alla contestata aggravante dell'associazione armata, i testi Sorrentino e Silipo avevano espressamente escluso l'evenienza di armi: e far risalire la disponibilità di armi alla continuità fra le associazioni mafiose implicava l'obliterazione del dato che gli attuali imputati erano solo adolescenti quando era maturato il giudicato sull'originaria associazione, temporalmente definita al settembre 1991. In ogni caso, segnalano i ricorrenti, la continuità fra la cosca Fontana - ermeneutici costantemente forniti dalla giurisprudenza di legittimità, era smentita dalla diversità delle componenti soggettive, dalla diversità delle ragioni sociali e dalla diversità del tempus commissi delicti, l'una dal 1986 al 1991, l'altra dal 2001 al 2012, con uno iato temporale di ben dieci anni, elemento tranciante circa l'eterogeneità fra i due supposti sodalizi. Da tale approdo derivava il carattere inconferente del rinvio al giudicato Olimpia 1, a tacere del fatto che neanche questa sentenza aveva riconosciuto a carico di Giovanni Fontana l'aggravante di cui all'art. 416 bis, comma 4, cod. pen.: corollario di tali rilievi era che l'accusa per dimostrare l'esistenza, reviviscente o meno, della nuova cosca Fontana, avrebbe dovuto provare che il relativo gruppo si era avvalso della forza di intimidazione, praticata in concreto, non in via potenziale, dunque con il ricorso effettivo al metodo mafioso; il ché valeva parimenti con riferimento alla contestata utilizzazione di armi. Il Tribunale del riesame, in questa prospettiva, aveva omesso di prendere in considerazione le informazioni processuali che negavano la disponibilità di armi in mano agli imputati, così come non aveva valutato l'argomento della mancata attribuzione dell'aggravante allo stesso Giovanni Fontana nella sentenza Olimpia 1 e nemmeno aveva preso atto della sottolineata frattura temporale esistente fra la vecchia associazione e la - contestata come riaffiorante nel 2001 - cosca oggetto di processo. Ancora, viene lamentato, era stato immotivatamente disatteso il rilievo secondo cui la circostanza aggravante di cui al comma 6 dell'art. 416 bis cod. pen. non era prospettabile dal punto di vista logico-giuridico e, comunque, non era dimostrata. Invero, affinché fosse integrata tale circostanza, occorreva che si realizzasse da parte del gruppo l'intervento, mediante il reinvestimento di utilità procurate dalle azioni criminali, in strutture produttive dirette a prevalere nel territorio di insediamento sulle altre strutture che fornivano gli stessi beni o servizi. Inoltre, la previsione normativa si riferiva esclusivamente alle ipotesi di reimpiego delle risorse illecitamente conseguite nelle attività economiche, non invece nel perseguimento di altre finalità programmatiche dell'associazione; e 3 Saraceno e la contestata attuale associazione Fontana, considerati gli indirizzi nemmeno poteva farsi rientrare nella situazione considerata dalla fattispecie aggravata di cui al citato comma il reinvestimento in ulteriori attività economiche degli utili provenienti dalle attività imprenditoriali a loro volta costituenti l'espressione della seconda finalità descritta dal terzo comma dell'art. 416 bis cod. pen. (cd. finalità di monopolio). Secondo tale prospettazione, il Tribunale aveva errato a non escludere già in via assiomatica l'aggravante in parola, peraltro contestata in modo non intellegibile e generico, oltre che, comunque, estranea al perimetro normativo. reinvestimento degli utili nella SE.MAC., infatti, non tenevano conto della mancanza di prova del reimpiego mafioso di risorse prodotte dalla consorteria e, prima ancora, dell'eccentricità dell'addebito rispetto alla configurazione della relativa fattispecie. Pure il ruolo apicale del ricorrente Antonino Fontana era restato sfornito di dimostrazione alcuna, giacché nessuno - sempre tenendo conto delle risultanze dibattimentali - aveva inquadrato questa persona con veste di "eccellenza". Quanto alla vicenda inerente all'accettazione della cessione dei crediti SE.MAC. verso la Leonia SPA eseguita dal Mannucchi per conto della stessa Leonia SPA, ritenuta come indotta dal suddetto Antonino Ferrara e dal germano Giuseppe, per i ricorrenti tale versione non poteva dirsi avallata dalla deposizione resa dal Mannucchi in dibattimento il 30 marzo 2016. Il Tribunale aveva eluso la questione assumendo che non gli competeva in concreto la correttezza della qualificazione giuridica ed il Giudice del riesame si era basato sulle dichiarazioni del teste Zavattieri, senza che questi avesse reso la deposizione in dibattimento. In definitiva, alla stregua della direttrice impugnatoria coltivata dalla prima doglianza, tutte le indicate circostanze aggravanti erano state contestate in modo arbitrario e strumentale, come dimostrava anche la modifica della contestazione avvenuta all'udienza del 30 maggio 2016, ed avrebbero dovuto essere elise a fini del computo dei termini di custodia cautelare, non avendo il Tribunale del riesame osservato il monito ribadito dalla giurisprudenza di legittimità in base a cui il giudice della cautela doveva costantemente vigilare sulla pertinenza giuridica dell'addebito posto a base del provvedimento restrittivo. 2.2. Con il secondo motivo è dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 63, comma quarto, cod. pen. e 303 cod. proc. pen., nonché omessa motivazione, in rapporto all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. I ricorrenti avevano evidenziato in sede di riesame che, pur tenendo conto dell'interpretazione giurisprudenziale più rigorosa, il computo per individuare il limite di pena da prendere in esame per la fissazione dei termini di durata 4 I riferimenti operati all'attività della Leonia SPA e al successivo massima della custodia cautelare, con particolare riferimento alla fase del giudizio antecedente alla sentenza di primo grado, doveva basarsi sulla pena edittale limite prevista per il reato perseguito, aumentata del segmento di pena comminato dalla circostanza aggravante ad effetto speciale più grave, ulteriormente implementata per non oltre un terzo in ragione dell'incidenza impressa dalle altre circostanze aggravanti ad effetto speciale. Essi avevano preso atto dell'interpretazione ostativa discendente dalla posizione assunta dalla più recente giurisprudenza di legittimità sulla indipendenti, senza applicazione del criterio moderatore di cui all'art. 63, comma quarto, cod. pen., ma avevano sollecitato al Tribunale dibattimentale un'interpretazione costituzionalmente orientata e rispettosa del principio di parità di trattamento desumibile anche dall'art. 14 C.E.D.U., operando l'assimilazione della fattispecie aggravata disegnata, ad esempio, dall'art. 628, comma 3, n. 3 bis, cod. pen., aggravato dal'art. 7 d.l. n. 152 del 1991, al caso della contestazione dell'art. 416 bis, commi 4 e 6, cod. pen. Il Tribunale aveva preso atto, definendola originale, della questione interpretativa posta, ma l'aveva rigettata non ritenendo la pena prevista dalla contestazione dell'art. 416 bis, con riferimento anche ai commi 4 e 6, cod. pen., un'ipotesi in cui fosse previsto di far luogo ad aumenti proporzionali per essere entrambe le aggravanti configurate in modo tale da interrompere il collegamento con la pena stabilita per il reato a cui accedevano, mantenendo così fermo il computo della pena a cui ragguagliare il termine di fase in quella di anni ventidue e mesi sei di reclusione, con correlativa valutazione della non evenienza della sua consunzione. Essi avevano, allora, riproposto la questione al Tribunale del riesame dolendosi della mancata risposta circa la verifica della ragionevolezza della ritenuta soluzione, anche in rapporto al favor libertatis. Si era anche sollecitata la prospettazione della non manifesta infondatezza della questione di costituzionalità dell'art. 416 bis, commi 4 e 6, cod. pen., ove da applicare in forma congiunta, in relazione al disposto degli artt. 63, comma 4, 629, 628, comma 3, cod. pen., nonché dell'art. 7 di. n. 152 del 1991, dell'art. 14 C.E.D.U., nonché degli artt. 3, 24 e 13 Cost., in ipotesi di applicazione congiunta delle aggravanti ad effetto speciale e ad ogni altra ipotesi di contestuale applicazione di una aggravante ad effetto speciale con aumento di pena fissato in modo autonomo o rigido e di una aggravante o più aggravanti ad effetto speciale con aumento di pena prefissato in modo proporzionale. Epperò a questa doglianza il Tribunale del riesame non aveva per nulla risposto, così integrando una doppia violazione di legge. 3. Con memoria depositata il 25 novembre 2016 è stato articolato un nuovo 5 cumulabilità degli aumenti portati dalle circostanze aggravanti ad effetto speciale motivo con cui si evidenzia violazione e falsa applicazione degli artt. 416 bis, commi 2, 4 e 6, cod. pen. e 303 cod. proc. pen., nonché omissione, insufficienza, illogicità manifesta e contraddittorietà della motivazione, in relazione all'art. 606, lett. b) ed e), cod. proc. pen., in relazione all'art. 606, lett. b) ed e), cod. proc. pen. Si è dedotto che Antonino, Giandomenico e Francesco Fontana avevano proposto, nel corso dell'udienza preliminare del 23 settembre 2013, istanza di giudizio abbreviato condizionato, ingiustamente respinta per assunta giurisprudenza delle Sezioni unite - del limite di formulazione della richiesta: dovrebbe discenderne che anche in tal senso i termini massimi di custodia cautelare erano stati ritenersi ampiamente superati, se rapportati a quelli, di più circoscritta durata, previsti per il rito abbreviato. 4. Con ulteriore memoria depositata il 2 dicembre 2016 i ricorrenti hanno ribadito le doglianze formulate aggiungendo peraltro la seguente ulteriore questione. Secondo insegnamento consolidato, quando, con la sentenza di condanna non definitiva veniva esclusa un'aggravante ad effetto speciale computata nell'addebito cautelare e quando tale statuizione non era gravata dal P.m., la situazione si cristallizzava e da quel momento si riverberava nella contestazione cautelare, comportando, se del caso, l'inserimento del reato in una fascia di minor durata della custodia cautelare: posto ciò, era da rilevare sull'argomento che il Tribunale di Reggio Calabria, quale giudice del merito, aveva disconosciuto la circostanza aggravante di cui all'art. 416 bis, comma 6, cod. pen. dimenticando che qualche settimana prima quale giudice della cautela aveva rigettato l'istanza di scarcerazione per decorrenza termini. E tale situazione non poteva rimanere priva di sanzione, poiché vigeva pur sempre l'indicato principio relativo all'obbligo gravante il giudice della cautela di accertare se la fattispecie concreta fosse sussunnibile nel modello contestato, con possibilità di riqualificarla, sia pure con effetti limitati alla fase incidentale, ove fosse chiara il carattere pretestuoso e/o strumentale dell'imputazione, senza che potesse opporsi il giudicato cautelare, atteso che il problema della circostanza aggravante di cui al comma 6 dell'art. 416 bis cod. pen. non era stato mai affrontata in epoca antecedente. 5. Il Procuratore generale, nel corso della camera di consiglio, ha sostenuto che l'ordinanza impugnata era osservante dei principi normativi dettati in tema di computo dei termini di custodia cautelare, come inverati dall'interpretazione 6 intempestività dal G.u.p., contro l'interpretazione - poi accolta dalle consolidata, e adeguatamente motivata, per cui ha concluso per il rigetto del ricorso tutte le conseguenze di legge. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. La Corte ritiene le impugnazioni dei quattro ricorrenti, unitariamente formulate, non fondate nella loro complessiva articolazione e, dunque, da 2. Va preliminarmente segnalato che l'introduzione con la memoria depositata il 25 novembre 2016 della questione inerente all'esigenza di computo dei termini di durata massima della custodia cautelare, non con riferimento a quelli previsti per il rito ordinario per la fase susseguente al provvedimento che ha disposto il giudizio, bensì a quelli, più circoscritti, contemplati dall'art. 303, comma 1, lett. b-bis), cod. proc. pen. per il caso in cui si procede con il rito abbreviato, nella specie dedotto come indebitamente negato agli imputati in virtù di una scelta errata del giudice dell'udienza preliminare in data 23 settembre 2013, si caratterizza per essere nuovo e del tutto disconnesso dalle tematiche oggetto delle impugnazioni, veicolate dai Fontana con l'atto introduttivo della presente fase, per cui esso non può reputarsi ammissibilmente delibabile. Per vero, in nessun modo nel ricorso per cassazione essi hanno elevato la doglianza inerente alla mancata considerazione del rito abbreviato - in thesi illegittimamente negato dal giudice dell'udienza preliminare - come elemento costitutivo del titolo per gli imputati assoggettati alla misura cautelare custodiale a vedersi computati i termini secondo la più breve scansione propria del giudizio a prova contratta, in ragione della virtuale attrazione del rito a cognizione piena in atto verso l'altro rito, quanto al trattamento sanzionatorio mitigato ex art. 442, comma 2, cod. proc. pen. in ragione del (sempre per come dedotto) diniego non legittimo dell'accesso ad esso. Si osserva che il principio generale operante nella materia delle impugnazioni, ossia quello concernente la necessaria connessione che occorre verificare tra i motivi originariamente proposti e i motivi nuovi, non è derogato nell'ambito del ricorso per cassazione contro provvedimenti de libertate. Al riguardo l'unica diversità rispetto all'ordinaria disciplina attiene al termine per la proposizione dei motivi nuovi, che non è quello di quindici giorni prima dell'udienza (contemplato dall'art. 611 cod. proc. pen.) ma è spostato all'inizio della discussione, ex art. 311, comma 4, cod. proc. pen. (v. Sez. U, n. 4683 del 25/02/1998, Bono, Rv. 210259; Sez 4, n. 12995 del 05/02/2016, Uda, Rv. 266295). 7 rigettarsi. In questo caso, la questione dell'applicazione dei diversi termini di fase relativi al giudizio abbreviato è stato introdotta ex novo nei motivi ulteriori e, pertanto, non si connette in modo plausibile con le questioni dedotte con l'originario ricorso. Tale argomento assorbe ogni altro rilievo, restando quindi in disparte la stessa persistita carenza di allegazione e prova del fatto che i Fontana, dopo aver patito il diniego pronunciato dal Giudice dell'udienza preliminare quanto all'accesso al rito abbreviato, abbiano poi tempestivamente sollevato, celebrare il processo con rito abbreviato, così da perpetuare nel prosieguo processuale (o l'immediato accesso al rito divisato, oppure) il loro titolo ad ottenere dal giudice della decisione, in ipotesi di condanna, la riduzione stabilita per colui che accede al rito a prova contratta. 3. Depurato il thema decidendum dalla questione ora indicata, il compiuto scrutinio delle due doglianze connotanti il ricorso - alle quali finisce con l'agganciarsi, in rapporto alla sopravvenienza dedotta con la memoria depositata il 2 dicembre 2016, la questione relativa agli effetti dell'emissione della sentenza all'esito del dibattimento di primo grado con l'esclusione della circostanza aggravante di cui al comma 6 dell'art. 416 bis cod. pen. - deve muovere dall'inquadramento disegnato dal Tribunale circa la situazione concreta. Il Tribunale, nell'analisi delle doglianze svolte negli appelli (doglianze afferenti, al rilievo che il primo Giudice aveva errato nel computare ai fini della verifica dei termini di custodia cautelare per tutti la circostanza aggravante speciale di cui ai commi 4 e 6 dell'art. 416 bis cod. pen. e, per Antonino Fontana, anche quella di cui al comma 2 della medesima norma incriminatrice, trincerandosi dietro il giudicato cautelare, laddove la questione della ricorrenza delle suddette aggravanti non era stata mai posta in ambito cautelare; alla susseguente deduzione che, circa l'aggravante di cui al comma 4, nessun elemento confermativo della sua evenienza era emerso nel dibattimento e nemmeno era stata dimostrata la commissione di alcun reato fine con l'uso di armi, essendo per il resto improponibile l'utilizzazione nell'attuale processo del dato relativo a precedente vicenda processuale, con contestazione chiusa al lontano 1991; alla segnalazione che nemmeno l'aggravante di cui al comma 6 della citata norma, vale a dire quella del riciclaggio, risultava provata, in considerazione della sua struttura giuridica ed in assenza di dimostrazione del controllo da parte dei Fontana della Leonia SPA, nonché della susseguente argomentazione secondo cui, quand'anche quella prova fosse stata acquisita, essa avrebbe integrato la sola dimostrazione della esteriorizzazione di condotte 8 nell'esordio del giudizio di primo grado, la questione inerente al loro diritto a operative del sodalizio, di per sé non inquadrabili nella fattispecie costitutiva della succitata aggravante; all'ulteriore deduzione che, con riguardo alla posizione di Antonio Fontana, l'istruttoria dibattimentale neanche aveva fatto emergere la prova del ruolo di capo promotore a lui contestato), innanzi tutto ha analizzato il contesto storico ed ambientale nel quale si era sviluppata la cosca Fontana in Reggio Calabria, come era emerso anche a seguito dell'originaria contestazione in sede cautelare e della vicenda impugnatoria dei relativi provvedimenti, verificando in qual modo si comportavano i quattro imputati, figli associazione mafiosa, nonché rivisitando il legame di carattere economico ed operativo allacciato con il coindagato Bruno Maria De Caria, legame coltivato nel corso della latitanza del suddetto Giovanni Fontana, anche nella gestione della Leonia SPA e, prima, della Ecotherm, con assoggettamento del De Caria alle esigenze del gruppo mafioso, ed ha ricordato a conforto il contributo conoscitivo fornito dai collaboratori di giustizia, in particolare da Antonino Zavattieri, nonché da Roberto Moio e poi da Nino Lo Giudice e Consolato Villani. Secondo i giudici del gravame, meritava evidenziarsi la perdurante influenza nel coordinamento dell'attività del gruppo criminale di Giovanni Fontana, data l'emersione di elementi, quali la conversazione tra Maria D'Agostino ed Antonino Fontana del 20 maggio 2011 e poi la conversazione captata il 10 novembre 2011, in cui i conversanti Antonino e Giuseppe Carmelo Fontana, valutavano l'esigenza di avvertire il padre dell'avvenuto danneggiamento di una colonnina di un distributore. Inoltre, il Tribunale ha osservato che, dall'analisi del quadro indiziario relativo alla posizione di Antonino Fontana, scaturiva che, contrariamente alla valutazione espressa nell'impugnazione, era giustificata la contestazione nei suoi riguardi della qualità di organizzatore del sodalizio, per gli effetti di cui al comma 2 dell'art. 416 bis cod. pen., dato il suo ruolo preminente, come tratteggiato dalle dichiarazioni dei collaboratori e corroborato dal patrimonio captativo, anche con riferimento alla sua funzione di collegamento con il De Caria ed alla sua figura di continuatore della gestione del gruppo nei binari tracciati dal padre Giovanni, da lui frequentemente contattato nel corso della sua latitanza (si ricordava in particolare la sua condotta, oltre a quella di Giuseppe Carmelo Fontana, nella vicenda relativa alla visita ad Angelo Mannucchi nel settembre 2011). Ancora, verificati i presupposti inerenti alla contestazione della circostanza aggravante dell'associazione armata, di cui al comma 4 della norma incriminatrice, pure si riteneva fondata la sua inserzione nell'imputazione, al riguardo essendo da richiamare le molteplici sentenze che avevano connesso 9 di Giovanni Fontana, capostipite più volte condannato per il delitto di all'azione dei gruppi di 'ndrangheta operanti nella città reggina e nelle zone limitrofe l'utilizzazione delle armi, anche con specifico riferimento alla cosca Fontana - Saraceno, dovendo particolarmente evidenziarsi le indicazioni fornite nell'ordinanza genetica - il riferimento era anche al procedimento n. 46/93, denominato Olimpia - ed obiettarsi al rilievo degli appellanti che, in effetti, l'attuale gruppo era un'evoluzione di quella cosca, tesa al controllo mafioso del rilevante settore della gestione dei rifiuti ed inserita in un contesto criminale più ampio della stessa 'ndrangheta (come aveva dimostrato il procedimento definito fatto notorio non ignorabile l'impiego di armi da parte della cosca, tenuto conto che per essere armata l'associazione non doveva farne un uso concreto, ma averne la disponibilità, pure se tale disponibilità fosse provata con riferimento a singoli suoi appartenenti, essendo l'aggravante in parola di natura oggettiva. Ed i Fontana, oltre a far parte della cosca Fontana - Saraceno, storicamente armata, intrattenevano relazioni privilegiate con gli altri locali di 'ndrangheta operanti nel territorio reggino, con i quali dividevano l'illecita locupletazione ottenuta dalle attività illecite, per cui la loro appartenenza alla 'ndrangheta unitariamente considerata comportava, quanto meno a livello indiziario, la sussistenza dell'aggravante in esame. Anche con riguardo alla circostanza aggravante di cui al comma 6 dell'art. 416 cod. pen. le emergenze investigative fornivano, per il Tribunale, indizi adeguati a sorreggerne la contestazione, dato che la cosca Fontana era riuscita, sulla base di un accordo spartitorio mafioso ed implementando la relazione con il De Caria, a controllare nell'interesse di tutta la 'ndrangheta la gestione dei rifiuti sul territorio di Reggio Calabria penetrando nelle scelte gestionali ed operative della Leonia SPA, ricavandone un'illecita locupletazione che aveva reinvestito nelle attività economiche gestite dai Fontana, in primis in quelle della SE.MAC., per le quali sussisteva la contestazione in ordine ad intestazioni fittizie a loro carico, con l'insorgenza di una loro posizione di predominio rispetto alle altre strutture che offrivano gli stessi beni e servizi. Le contestazioni relative ai falsi per iperfatturazioni o fatturazioni per operazioni inesistenti, con le quali era stata costituita principalmente la ricchezza accumulata e reinvestita, ed alla turbativa d'asta relativa alla commessa esclusiva della manutenzione degli automezzi della Leonia SPA confermavano questo inquadramento. Posto l'ancoraggio così ribadito alla contestazione primigenia, il Tribunale ha concluso per l'insussistenza della prospettata consumazione dei termini di fase. Secondo la Corte, l'analisi svolta dai Giudici dell'appello cautelare è ruotata intorno alla verifica di permanenza, allo stato degli atti, della gravità indiziaria inerente alla fattispecie contestata agli imputati, verifica conclusasi in modo 10 Crimine, peraltro ancora non esitato in sentenza definitiva). In tale contesto era positivo all'esito di un percorso giustificativo che si profila congruo e non illogico. 5. Ciò posto, con riferimento al primo motivo, il Collegio rileva che con la sua deduzione i ricorrenti intendono sostanzialmente devitalizzare l'accusa sulla scorta dei risultati istruttori dedotti come acquisiti nelle more prospettando una lettura operata dall'esame di stralci di quegli esiti. Epperò, a fronte di una motivazione adeguata e coerente nei sensi già richiamati, nonché esclusa la prospettiva di una reinterpretazione in fatto delle carattere pretestuoso dell'imputazione addotta dai Fontana, per i riflessi che essi si propongono di trarre in punto di mutamento dei parametri operanti per il computo dei termini di fase. Non viene, pertanto, in questione la sussistenza dell'autonomia valutativa in capo al giudice della verifica del provvedimento cautelare in sede di riesame o di appello, dovendo ribadirsi che il giudice della cautela non è vincolato alla valutazione espressa nella fase genetica e può, quindi, autonomamente attribuire al fatto descritto nella contestazione una diversa qualificazione o definizione giuridica rispetto a quella formulata al momento in cui è stata adottata la misura (per la trattazione del punto cfr. Sez. U, n. 16 del 19/06/1996, Di Francesco, Rv. 205617; Sez. 2, n. 40265 del 08/07/2014, Mare, Rv. 260852); ciò, peraltro, fermo restando che, ai fini del computo del termine massimo di custodia cautelare nella fase del giudizio, non può tenersi conto delle nuove contestazioni effettuate nel dibattimento dal pubblico ministero, dovendosi fare riferimento esclusivamente all'imputazione formulata nell'originario provvedimento coercitivo, a meno che non sia intervenuta un'ulteriore ordinanza cautelare comprensiva della contestazione suppletiva, per cui, se il giudice nel corso del dibattimento si sia limitato a dare al medesimo fatto per cui si procede una diversa qualificazione giuridica, al titolo di reato così ritenuto deve aversi riguardo ai fini predetti (v. Sez. U, n. 24 del 05/07/2000, Monforte, Rv. 216706; Sez. 1, n. 24123 del 19/02/2016, Trovato, Rv. 266879). Qui rileva, tuttavia, la considerazione che l'autonomia di cui disponeva è stata esercitata dal Tribunale il quale ha concluso in modo congruamente motivato e con argomenti non illogici, dunque incensurabili in questa sede, per la persistenza del quadro indiziario idoneo a sorreggere la qualificazione giuridica oggetto di contestazione, anche per ogni valutazione richiesta al fine del perseguimento, nei limiti consentiti dalla fattispecie oggetto di concreta contestazione, del principio di costante adeguamento della misura cautelare somministrata alle condizioni della sua applicabilità fissato dall'art. 299 cod. proc. pen. 11 risultanze istruttorie in questa sede, non si profila possibile condividere la tesi del L'esito dell'analisi non cambia, ove nelle more sia stata emessa (come si è dedotto da parte dei ricorrenti nella memoria del 2 dicembre 2016) la sentenza di primo grado, con l'effetto elidente di una delle aggravanti. E' assodato, sull'argomento, che, una volta intervenuta la sentenza di condanna anche non definitiva, la valutazione degli elementi rilevanti ai fini del giudizio incidentale - anche in sede di riesame o di appello - debba mantenersi nell'ambito della ricostruzione operata dalla pronuncia di merito, non solo per quel che attiene all'affermazione di colpevolezza e alla qualificazione giuridica, apprezzate in modo diverso dal giudice della cautela (fra le altre, v. Sez. 3, n. 45913 del 15/10/2015, Shopov, Rv. 265544). Fermo tale principio, il Collegio, senza necessità di svolgere ulteriori approfondimenti sulla portata del dedotto novum processuale, non può però seguire il ragionamento svolto dai ricorrenti in punto di rivalutazione retrospettiva del termini massimi della custodia cautelare che i medesimi intendono inferire dalla indicata sopravvenienza. Sul punto è da ribadirsi che la condanna per un reato meno grave per effetto dell'esclusione di alcune aggravanti e/o del contestuale proscioglimento per il reato più grave, rispetto al quale sono computati i termini di fase della custodia cautelare sino alla pronuncia della sentenza di primo grado, non comporta la rideternninazione retroattiva dei termini di durata massima per la fase del giudizio, in ragione dell'autonomia delle singole fasi del procedimento (v. in tale prospettiva Sez. 2, n. 34635 del 22/06/2005, Cavallo, Rv. 232668). Del pari, il cambiamento della qualificazione giuridica del fatto per effetto della decisione non influisce sui termini di custodia cautelare delle fasi esaurite, con la conseguenza che - se, per effetto di tale mutamento, la sentenza di primo grado escluda l'esistenza di un'aggravante - i termini di custodia cautelare per la fase di primo grado vanno commisurati in relazione alla qualificazione giuridica del fatto contenuta nel provvedimento che dispone il giudizio. Ovviamente il contenuto del dispositivo della sentenza di primo grado rileva ai fini della commisurazione della custodia cautelare per quel che attiene alla fase successiva (cfr. nel senso qui indicato Sez. 6, n. 35681 del 14/05/2015, Bruzzise, Rv. 264268, in fattispecie in cui la decisione di primo grado aveva eliso la circostanza aggravante di cui al secondo comma dell'art. 416 bis cod. pen.). Specularmente, la sentenza di condanna in appello che, in parziale riforma di quella di primo grado, riconosca un'attenuante ad effetto speciale non comporta la rideterminazione retroattiva dei termini di durata massima per le precedenti fasi del procedimento, attesa l'autonomia di ciascuna di esse (Sez. 6, n. 7199 del 08/02/2013, Lusha, Rv. 254504, in fattispecie in cui si è ritenuta 12 ma anche per tutte le circostanze del fatto, non potendo essere queste corretta la decisione del Tribunale del riesame che aveva giudicato irrilevante il riconoscimento, da parte della Corte di appello, dell'attenuante di cui all'art. 73, comma quinto, d.P.R. n. 309 del 1990, ai fini della determinazione del termine di durata per la fase antecedente all'emissione del decreto che dispone il giudizio). Il corollario di queste puntualizzazioni è che per quanto concerne il giudizio di primo grado non possono operarsi computi virtuali dei termini in relazione all'evoluzione in senso meno gravoso per gli imputati della fattispecie delittuoso 6. Passando all'esame del secondo motivo, volto a patrocinare un'interpretazione del computo della pena, ai fini della fissazione dei termini di durata massima della custodia cautelare, tale fa fondarsi sulla pena edittale limite prevista per il reato perseguito, aumentata del segmento di pena comminato dalla circostanza aggravante ad effetto speciale più grave, ma poi ulteriormente implementata per non oltre un terzo in ragione dell'incidenza impressa dalle altre circostanze aggravanti ad effetto speciale, indipendentemente dalla natura di tali ulteriori aggravanti ad effetto speciale, esso si basa su un articolato inquadramento della natura delle circostanze di cui si tratta che, tuttavia, il Collegio non può recepire, in quanto esso mette in discussione, senza argomenti nuovi e dirimenti, un orientamento consolidato, il cui approdo è stato condensato nei principi affermati in epoca non lontana dalle Sezioni unite della Corte, il cui convincente ed esaustivo filo logico-giuridico concorre ad escludere la concreta possibilità di sollevare in modo non manifestamente infondato la questione di legittimità costituzionale prospettata dai ricorrenti. Si è sul punto ribadito che per la determinazione della pena agli effetti dell'applicazione di una misura cautelare personale e, segnatamente, della individuazione dei corrispondenti termini di durata massima delle fasi processuali precedenti la sentenza di merito di primo grado, deve tenersi conto, nel caso di concorso di più circostanze aggravanti ad effetto speciale, oltre che della pena stabilita per la circostanza più grave, anche dell'ulteriore aumento complessivo di un terzo, ai sensi dell'art. 63 comma quarto, cod. pen., per le ulteriori omologhe aggravanti meno gravi. Si è però fatta anche la rilevante specificazione che il criterio di calcolo di cui all'art. 63, comma quarto, cod. pen. non opera nella diversa ipotesi di concorso di più aggravanti ad effetto speciale per le quali l'incremento sanzionatorio è autonomamente indicato ex lege, poiché in tal caso trova applicazione il criterio cumulativo di calcolo a fini cautelari, previsto dall'art. 278, comma primo, cod. proc. pen. (v. Sez. U, n. 38518 del 27/11/2014, dep. 2015, Ventrici, Rv. 13 loro rispettivamente contestata. 264674). Infatti, rispetto al regime del cumulo giuridico fissato dall'art. 63, comma quarto, cod. pen., rileva in quest'ultima ipotesi la variante ermeneutica inerente ai casi in cui la questione dell'entità della pena derivante da concorso di circostanze aggravanti ad effetto speciale sia autonomamente risolta dallo stesso legislatore mediante la tipizzazione della fattispecie criminosa caratterizzata dall'evenienza di una o più di tali circostanze aggravanti, per le quali gli aumenti di pena applicabili siano predeterminati dalla norma in modo autonomo, sia per Il primo caso ricordato dalla citata pronuncia attiene proprio alla fattispecie associativa mafiosa, per la quale l'art. 416-bis cod. pen. prevede, con le aggravanti ad effetto speciale di cui ai commi 2, 4 e 6, "puntuali e definite soglie sanzionatorie (nel minimo e nel massimo edittali: commi secondo e quarto) ovvero specifiche misure dell'aumento di pena applicabile (comma sesto)". Si ritiene, per questo peculiare ambito, assodato che la portata generale pur riconoscibile al principio inerente al computo della pena a fini cautelari in presenza di più aggravanti speciali alla stregua del cumulo giuridico obbligatorio di cui all'art. 63, quarto comma, cod. pen. non assuma carattere assoluto, per il semplice motivo che - nelle ipotesi assimilabili a quelle delle aggravanti speciali contemplate dall'art. 416-bis cod. pen. - le aggravanti stesse non interrompono il collegamento con la pena stabilita per il reato base cui accedono, indicando esse stesse ex lege la cornice degli incrementi sanzionatori. Di conseguenza, gli incrementi integralmente risultanti dalla loro contestazione sono applicabili a fini cautelari in modo cumulativo ai sensi dell'art. 278, comma 1, cod. proc. pen. (in quanto formanti della pena "stabilita dalla legge" per ciascun reato), essendo in questi casi da ritenersi individuata una base di pena sulla quale apportare gli aumenti successivi caratterizzata dall'autonomia e dalla peculiare autosufficienza sanzionatoria delle aggravanti ad effetto speciale normativamente tipizzate (cfr fra le diverse altre, al di là dell'arresto regolatore già ricordato, Sez. 1, n. 29770 del 24/03/2009, Vernengo, Rv. 244460; Sez. 1, n. 33438 del 02/04/2012, Mannino, n.m.; Sez. 5, n. 52094 del 30/09/2014, Spadaro Tracuzzi, Rv. 261333). Né la Corte reputa il descritto sistema sanzionatorio rilevante a fini cautelari fondatamente sospettabile di illegittimità costituzionale nei sensi ventilati dai ricorrenti. Sul punto appare ulteriormente congruo richiamare in modo convinto gli argomenti spesi dalle Sezioni unite (Sez. U, n. 38518 del 27/11/2014, dep. 2015, Ventrici, cit.) per ribadire la rispondenza ai principi costituzionali e convenzionali dell'assetto sanzionatorio interno riferito al sistema delle 14 finalità cautelari, sia per la dosimetria computabile nel giudizio di merito. aggravanti ad effetto speciale. Basti ricordare che in quella sede è stato ribadito che permangono la coerenza logica e la ragionevolezza della stessa divaricazione valutativa tra entità della pena per il reato contestato con una misura cautelare ed entità della pena applicabile all'esito del giudizio di merito, poiché anche l'apparente asimmetria valutativa della pena ai fini cautelari e di cognizione di merito trova la propria intrinseca logicità e giustificazione giuridica ove si ponga mente alle finalità ed alla dinamica del procedimento cautelare, in cui la ponderazione della cautelare e va operata valorizzando tutte le componenti costitutive e circostanziali del reato e, in modo particolare, delle circostanze aggravanti ad effetto speciale, connotate, da un coefficiente più pronunciato di offensività sociale. Del resto, al fine della complessiva valutazione a farsi in sede cautelare per addivenire alla concreta adozione della misura o della legittimità della sua persistenza, le connotazioni quantitative dell'imputazione cautelare - che d'altronde riguardano anche circostanze ad effetto comune reputate specificamente pregnanti a tale fine, quale quella di cui all'art. 61, comma primo, n. 5, cod. pen. - integrano soltanto il primo, sia pure non irrilevante, fattore che tuttavia va coniugato e, per ciò stesso, temperato con la necessaria osservanza dei complementari canoni normativi che presiedono all'applicazione di ogni misura restrittiva ed alla sua calibratura in relazione al caso specifico, secondo la prospettiva (pure segnalata dalle Sezioni unite) segnata dalla giurisprudenza costituzionale, nel segno della costante contemplazione del favor libertatis (il riferimento è a Corte cost., 22/07/2005, n. 299, e a Corte cost., 21/07/2010, n. 265), le cui garanzie, come scolpite dall'art. 13 Cost., non appaiono conculcate. Una volta collocato il momento dell'individuazione della pena nel quadro dei passaggi logici e delle garanzie connotanti il procedimento cautelare, occorre riconoscere che la più severa quantificazione della pena stessa a tal fine operante (stabilita dal legislatore nel modo ancora più penetrante che attiene alle circostanze aggravanti configurate in guisa tale da non interrompere il collegamento con la pena stabilita per il reato base cui accedono, avendo la legge fissato direttamente la cornice degli incrementi sanzionatori) costituisce l'esito di una discrezionalità legislativa - esercitata per ipotesi particolarmente gravi, e non per altre (quale quella indicata dai ricorrenti quale tertium comparationis) - non censurabile per irragionevolezza o compressione indebita del diritto di difesa (in relazione ai parametri costituzionali di cui agli artt. 3 e 24), né per contrarietà ai principi convenzionali: in tal senso anche la prefigurazione di una lesione del principio di non discriminazione fissato dall'art. 15 gravità e pericolosità del reato contestato rileva ai fini della formazione del titolo 14 C.E.D.U. costituisce prospettiva che, per le indicate ragioni, il Collegio non può condividere. Il Tribunale, dunque, non ha errato nel non dare seguito alla corrispondente prospettazione. 7. Per effetto delle considerazioni svolte i ricorsi devono essere rigettati. Alla reiezione consegue, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento. ricorrenti, segue altresì la disposizione di trasmissione, a cura della cancelleria, di copia del provvedimento al direttore dell'istituto penitenziario, ai sensi dell'art. Tras messa 94, comma 1-ter, disp. att. cod. proc. pen. P.Q.M. Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali. Dispone trasmettersi, a cura della cancelleria, copia del provvedimento al direttore dell'istituto penitenziario, ai sensi dell'art. 94, comma 1-ter, disp. att. cod. proc. pen. Così deciso il 13 dicembre 2016 Non comportando la presente decisione la rimessione in libertà dei

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