Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 19388 del 26/02/2018


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 19388 Anno 2018
Presidente: BRUNO PAOLO ANTONIO
Relatore: SCORDAMAGLIA IRENE

SENTENZA
sui ricorsi proposti da:
MONAGHEDDU DOMENICO nato il 28/01/1970 a CARBONIA
DI TRIA NICOLA nato il 02/06/1965 a MILANO

avverso la sentenza del 27/06/2016 della CORTE APPELLO di TRIESTE
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere IRENE SCORDAMAGLIA
Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore FELICETTA
MARINELLI
che ha concluso per

Il Proc. Gen. conclude per l’annullamento senza rinvio per prescrizione dei reati
ascritti al Monagheddu ai capi d) m) u);l’annullamento con rinvio in punto di
rideterminazione della pena e rigetto nel resto. Conclude per il rigetto del ricorso
di Di Tria.
Udito il difensore
L’avv. Luzzato Guerrini chiede il rigetto dei ricorsi e deposita conclusioni scritte e
nota spese delle quali chiede la liquidazione
L’avv. Morrone illustra alla Corte i motivi di gravame e insiste per l’accoglimento

Data Udienza: 26/02/2018

del ricorso.
L’avv. Bruno evidenzia i vizi che affliggono la sentenza impugnata e insiste per

l’accoglimento del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Monagheddu Domenico e Di Tria Nicola sono stati raggiunti dalle condanne
loro inflitte nei gradi di merito per i delitti: Monagheddu: a) di falsità ideologica
commessa dal pubblico ufficiale in atti fidefacenti (capi F, K, R, W); b) di calunnia
commessa con abuso dei poteri e violazione dei doveri inerenti alla pubblica
funzione esercitata (capi A, B, G, S, X); c) di falsa testimonianza (capo U); d) di
violenza e minaccia per costringere a commettere un reato con abuso dei poteri e

acquisto e detenzione di sostanze stupefacenti commessi con abuso dei poteri e
violazione dei doveri inerenti alla pubblica funzione esercitata (capi H, 3, M, T, Y),
fatti tutti realizzati in Monfalcone tra il settembre 2008 e il 14 marzo 2009; Di Tria:
a) di falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti fidefacenti (capo F);
b) di calunnia commessa con abuso dei poteri e violazione dei doveri inerenti alla
pubblica funzione esercitata (capo G); c) di acquisto e detenzione di sostanze
stupefacenti commessi con abuso dei poteri e violazione dei doveri inerenti alla
pubblica funzione esercitata (capi H), fatti tutti realizzati in Monfalcone tra l’ottobre
2008 e il 16 gennaio 2009.
2. I fatti contestati si riferiscono a cinque operazioni di contrasto al commercio
di sostanze stupefacenti [d’ora innanzi denominate con il nome dei soggetti attinti
dall’attività di investigazione: 1) Conte – Esposito (settembre 2008 – gennaio
2009) ; 2) Felice – Boscarol (settembre 2008); 3) Bottino – Esposito (ottobre
2008); 4) Vidonis – Zambon (settembre 2008); 5) Khribech – Zambon (dicembre
2008)), poste in essere, nella qualità di sottufficiali dell’Arma dei Carabinieri in
servizio presso il Nucleo operativo e radiomobile della Compagnia dei Carabinieri
di Monfalcone, agendo sotto copertura ma al di fuori delle ipotesi disciplinate
dall’art. 97 d.P.R. n. 309 del 1990, inducendo alcune persone – sorprese a
commettere attività illecite o utilizzate come ‘confidenti’ -, sotto la minaccia di
cagionare loro situazioni di pregiudizio, in relazione a questioni giudiziarie o della
vita personale, o con la profferta di piccole regalie o favori, a procurarsi quantitativi
di sostanza stupefacente istigando i detentori a cederli loro, attestando poi il falso
in annotazioni di servizio, atti di perquisizione, verbali di sommarie informazioni,
comunicazioni di notizia di reato e verbali di arresto, in ordine alle modalità di
acquisizione della notizia di reato e di assicurazione delle fonti di prova e del corpo
di reato nonché in ordine al contenuto delle dichiarazioni rese dalle persone
informate dei fatti, e accusando, quindi, falsamente i cedenti del delitto di offerta
di sostanza stupefacente e uno di essi, Conte Roberto, di delitti di minaccia e di
ingiuria, al fine di screditarne l’attendibilità delle dichiarazioni rese al personale del
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violazione dei doveri inerenti alla pubblica funzione esercitata (capi D, I ); e) di

Nucleo investigativo del Reparto Operativo del Comando Provinciale dei Carabinieri
di Gorizia.
3. I predetti imputati, con il ministero dei loro difensori di fiducia, propongono
ricorso per vedere cassata la sentenza della Corte di appello di Trieste, resa in
data 27 giugno 2016, che, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di
Gorizia del 22 luglio 2014, dichiarato il loro proscioglimento per estinzione per
prescrizione di alcuni dei reati loro ascritti e, nel merito, per insussistenza del fatto
o per non averlo commesso, in relazione ad altri, ha rideterminato la pena loro

superiori a quelli ritenuti dal Tribunale>> – dopo avere considerato più grave il
delitto di cui al capo F, qualificato, al pari di quelli contestati ai capi K, R, W,
aggravato a norma dell’art. 476, comma 2, cod. pen., in relazione alla natura
fidefaciente degli atti pubblici attinti dalla riconosciuta falsità delle attestazioni in
essi incorporate.
4. L’impugnativa di Monagheddu è affidata ad undici motivi che denunciano:
4.1. la violazione degli artt. 157 e 161 cod. pen., in relazione all’omessa
dichiarazione di estinzione per prescrizione dei reati di cui ai capi D ed M della
rubrica, da considerarsi maturata anteriormente alla pronuncia di secondo grado
– rispettivamente in data 21 giugno 2016 e 20 ottobre 2015 -, posto che, ove vi
sia incertezza assoluta circa il “tempus commissi delicti” – come nel caso all’esame
in cui la contestazione ha avuto luogo con il generico riferimento al mese
(settembre 2008) o agli anni (tra il 2007 e il 2008) – deve trovare applicazione la
regola secondo cui il termine va computato secondo il maggior favore per
l’imputato;
4.2. la violazione degli artt. 517, 521, 522 e 598 cod. proc. pen., in relazione
all’avvenuta riqualificazione, nella sentenza di secondo grado, dei fatti di falsità
ideologica contestati nei capi F, K, R e W come aggravati ai sensi dell’art. 476,
comma 2, cod. pen. in ragione della natura fidefaciente degli atti pubblici in cui
erano trasfuse le false attestazioni del pubblico ufficiale, il potere di cui all’art. 521,
comma 1, cod. proc. pen. essendo stato esercitato dalla Corte triestina in assenza
di una specifica devoluzione della questione da parte del Pubblico Ministero e,
comunque, nell’inosservanza della

regula iuris derivante dall’interpretazione

convenzionalmente orientata della norma evocata (alla luce dei principi di cui
all’art. 6, par 3, lett. a) e b) CEDU, come interpretati dalle sentenze della Corte di
Strasburgo Grande Camera Pellisier e Sassi c. Francia del 1999 e Drassich c. Italia
del 2007), che consente la riqualificazione del fatto all’esito del giudizio di appello
o di cassazione solo nell’ipotesi in cui la nuova contestazione sia sufficientemente
prevedibile – così da consentire il contraddittorio su di essa -, che si realizza con
3

rispettivamente inflitta – specificando di «fissare la pena base in termini non

la possibilità accordata alla difesa di interloquire preventivamente ed in concreto
su di essa, derivandone, altrimenti – come nel caso di specie -, effetti negativi per
l’imputato, da cogliersi sul piano della prescrizione, della dosimetria della pena e
della scelta di riti alternativi;
4.3. la violazione dell’art. 267 cod. proc. pen. ed il vizio di motivazione della
sentenza impugnata, in riferimento alla questione dell’inutilizzabilità degli elementi
di prova tratti dalla captazione delle conversazioni telefoniche del Monagheddu,
l’invalidità delle intercettazioni telefoniche da assenza di motivazione del relativo

diversamente opinare attesa la grave ricaduta sul piano della riservatezza delle
comunicazioni derivante da una giustificazione sostanzialmente inesistente circa i
gravi indizi di reato o il collegamento di esso con l’imputato: situazione, questa,
verificatasi nel caso di specie, atteso che il Giudice delle indagini preliminari aveva
autorizzato la captazione delle conversazioni sull’utenza telefonica dell’imputato
adagiandosi sulle argomentazioni del Pubblico Ministero quanto alla consistenza
della gravità indiziaria, senza spendere parola alcuna sul coinvolgimento del
Maresciallo Monadagheddu nei fatti di calunnia ascritti ad Esposito Bruno e Rossitto
Corrada e sull’assoluta indispensabilità dell’intercettazioni, consentendo per tale
via l’attivazione di un incombente esplorativo;
4.4. la violazione degli artt. 192, comma 3, e 210 cod. proc. pen. e il vizio di
motivazione, in relazione alla questione della valutazione delle dichiarazioni
accusatorie rese da Esposito Bruno con riferimento ai fatti di cui ai capi A, B, E, F,
G, H, I, deducendosi al riguardo che la Corte triestina era incorsa in plurime
omissioni ed in veri e propri salti logici nella valutazione della credibilità soggettiva
del propalante e della attendibilità oggettiva del suo racconto ed aveva nondimeno
utilizzato in funzione di corroborazione della tenuta intrinseca del narrato
accusatorio elementi di prova inidonei ad assurgere al rango di riscontri – ancorché
non ve ne fosse necessità in considerazione del giudizio negativo da esprimersi in
punto di credibilità del dichiarante e di attendibilità del dichiarato -, tali non
potendosi considerare la ripetizione dello schema ideato dal sottufficiale dei
Carabinieri per commettere i reati nelle cinque operazioni investigative ritenute
irregolarmente compiute (approccio con il potenziale provocatore dell’altrui attività
illecita; minaccia o profferta di utilità per indurlo a commettere il reato di acquisto
di sostanza stupefacente; falsa attestazione negli atti di polizia giudiziaria dello
sviluppo dell’attività investigativa secondo cadenze diverse da quelle verificatesi;
falsa incolpazione del cedente del reato di offerta in vendita di sostanza
stupefacente), trattandosi di riscontro non individualizzante, e le dichiarazioni
accusatorie rese da Rossitto Corrada, moglie dell’Esposito, essendo questa a sua
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decreto autorizzativo essendo eccepibile senza limitazioni, non potendosi

volta coimputata di reato collegato e chiamante de relato, senza contare, peraltro,
la preterizione di altre circostanze di sicuro rilievo euristico, quali la paura nutrita
dall’Esposito nei confronti del Conte, la debolezza della causale che avrebbe spinto
i coniugi Esposito e Rossitto a rendere dichiarazioni accusatorie nei confronti di
Monagheddu, la pressione mediatica esercitata sui dichiaranti a seguito della
divulgazione delle notizie sulla vicenda;
4.5. la violazione degli artt. 17, 73 e 75 d.P.R. 309/1990 e il vizio di
motivazione in relazione al fatto di cui al capo T della rubrica, posto che la

di determinazione efficiente ed efficace della cessione di sostanza stupefacente
operata dalla Vidonis nei confronti della Zambon scontava il mancato confronto
con la regula iuris enunciata da affermata giurisprudenza di legittimità a mente
della quale, ove il soggetto sollecitato alla cessione già detenga sostanza
stupefacente in quantità rilevante, l’intervento sollecitatorio posto in essere dalla
polizia giudiziaria deve ritenersi del tutto lecito essendo leggibile come l’occasione
per disvelare un’intenzione criminale esistente ma latente e non come un
contributo eziologicamente efficiente rispetto alla perpetrazione del reato: donde
a tale paradigma doveva essere ricondotta la fattispecie concreta devoluta allo
scrutinio posto che la Vidonis era autonomamente in possesso di oltre 900 grammi
di hashish;
4.6. la violazione degli artt. 192, comma 3, e 210 cod. proc. pen. e il vizio di
motivazione, in relazione al tema della valutazione delle dichiarazioni accusatorie
rese da Mara Zambon con riferimento ai fatti di cui ai capi S, T, U, W, X, Y,
evidenziandosi in maniera analitica le smagliature argomentative in cui era incorsa
la Corte territoriale, sottacendo o sbrigativamente superando le plurime riserve
avanzabili in ordine alla credibilità soggettiva della propalante (quale persona
coinvolta in vicende di stupefacenti e condizionata dall’amore non corrisposto per
Monagheddu) ed in ordine alla attendibilità oggettiva del suo racconto (
contrassegnato da vuoti di memoria e da confusioni), e utilizzando in funzione di
corroborazione della tenuta intrinseca del narrato accusatorio della predetta
Zambon elementi di prova inidonei ad assurgere al rango di riscontri – ancorché
non ve ne fosse necessità in considerazione del giudizio negativo da esprimersi in
punto di credibilità del dichiarante e di attendibilità del dichiarato -: tra questi
quelli offerti dalle dichiarazioni de relato dell’Avvocato Tofful, difensore della
Vidonis; dalle dichiarazioni della stessa Vidonis, quale persona inserita in un
contesto esistenziale e familiare connotato da un intreccio di interessi, anche
economici, non indifferenti rispetto alla causale delle propalazioni rese; dalle
dichiarazioni rese da Khribech Nadia.
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ricostruzione operata in grado di appello della condotta del Monagheddu in termini

4.7. la violazione dì legge e il vizio di motivazione da travisamento della prova,
in relazione al fatto di cui al capo D) della rubrica – minaccia rivolta al Boscarol,
sorpreso a commettere un delitto di furto, che ove non avesse collaborato
nell’operazione diretta ad arrestare Felice Manuel per il delitto di cessione dì
sostanze stupefacenti non sarebbe stato deferito all’autorità giudiziaria per essere
giudicato nelle forme del rito direttissimo, ma in quelle del rito ordinario -, sul
duplice rilievo che il Boscarol non avrebbe percepito alcun contenuto intimidatorio
nelle espressioni rivoltegli dal Monagheddu ma ad esse avrebbe attribuito il

dibattimento doveva essere depurato dei contenuti riferiti a seguito di
contestazione del Pubblico Ministero, tale strumento processuale non essendo
veicolo di prova ma meccanismo per far emergere l’attendibilità del dichiarante;
4.8. la violazione dell’art. 191 cod. proc. pen. in relazione ai fatti di cui ai capi
I, 3, K, per essere state utilizzate per le contestazioni, nel corso della rinnovata
assunzione in appello, ai sensi dell’art. 197-bis cod. proc. pen., delle dichiarazioni
di Bottino Giovanni quelle dichiarate inutilizzabili perché assunte in primo grado
senza l’assistenza del difensore;
4.9. la violazione degli artt. 192, comma 4, e 197-bis cod. proc. peri., nella
quale la Corte di appello sarebbe incorsa nella valutazione delle dichiarazioni rese
da Bottino Giovanni, imputato di reato collegato coperto da giudicato, con
riferimento ai fatti di cui ai capi I, J e K, rilevandosi come fosse stata pretermesso
l’apprezzamento della credibilità soggettiva del propalante (quale persona già
dedita allo spaccio di sostanze stupefacenti) e dell’attendibilità oggettiva del suo
racconto (contrassegnato da significativi cambi di versione corrispondenti al tenore
delle contestazioni mossegli) nonché come fossero stati utilizzati elementi di
riscontro privi di una effettiva valenza corroborante;
4.10. la violazione degli artt. 17, 73 e 75 d.P.R. 309/1990 in relazione ai fatti
di cui ai capi I e 3 della rubrica, iscrivendosi la condotta del Monagheddu in
un’articolazione del tutto lecita dell’attività di polizia giudiziaria, posto che, in
ragione della pregressa detenzione di sostanza stupefacente da parte del Bottino
e della manifestata disponibilità ad effettuarne la vendita, l’intervento sollecitatorio
dell’imputato, realizzato per il tramite di Esposito Bruno, doveva considerarsi del
tutto marginale nel contesto di un rapporto consolidato tra cedente e cessionario,
e quindi coperto dalle scríminanti di cui all’art. 51 cod. pen. e 97 d.P.R. 309 del
1990 in relazione all’art. 9 I. n. 146 del 2006;
4.11. la violazione dell’art. 479 cod. pen. e il vizio di motivazione in relazione
al fatto di cui al capo K), contestandosi la riconduzione degli atti pubblici
ideologicamente falsi menzionati nella imputazione – il verbale di perquisizione e
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significato di un consiglio e che, in ogni caso, quanto dichiarato dal Boscarol al

di arresto del Bottino – nella categoria degli atti pubblici fidefacienti in relazione al
contenuto dell’attestazione in essi trasfusa, posto che la circostanza del controllo
occasionale cui il Bottino era stato sottoposto non rientrava tra quelle attività
documentate, con validità probatoria, dai verbali indicati, questi attribuendo valore
probatorio privilegiato esclusivamente all’attività svolta dalla polizia giudiziaria in
occasione dell’atto di ricerca della prova o coercitivo, ma non anche alle attività di
indagine antecedenti pur se richiamate e riassunte nella parte giustificativa del
verbale medesimo.

5.1. il vizio di motivazione che affliggerebbe la sentenza impugnata nei
passaggi relativi ai fatti di cui ai capi E – rispetto al quale non vi è stata, comunque,
rinuncia alla prescrizione -, F, G e H, sul duplice rilievo: 1) che l’assoluzione
pronunciata nei confronti dell’imputato per i delitti di cui ai capi A e B della rubrica
per non avere commesso i fatti (relativi alle false incolpazioni di Conte Roberto,
per i delitti di minaccia e ingiuria commessi nei confronti dei coniugi Esposito e
Rossitto, ‘confezionate’ per screditarlo) priverebbe di fondamento logico le
statuizioni di condanna per i fatti di cui ai capi E, F, G e H (relativi alle condotte
illecite asseritamente perpetrate dal Monagheddu e dal Di Tria per giungere
all’arresto di Conte Roberto), posto che le calunnie nei confronti di Conte, secondo
l’accusa, erano destinate a non far emergere lo sviluppo effettivo dell”operazione
Conte’; 2) che l’iniziativa del Di Tria di far registrare l’incontro avvenuto in data
12/1/2009 tra l’Esposito e il Conte, di fare ‘tradurre’ dal vernacolo partenopeo la
conversazione captata e di metterla a disposizione del Comando provinciale dei
Carabinieri di Gorizia sarebbe circostanza in contrasto con il ruolo di compartecipe
– peraltro neppure delineato nella sua effettiva manifestazione concreta – del
brigadiere nelle condotte di irregolare conduzione dell’operazione sotto copertura
conclusasi con l’arresto di Conte;
5.2. la violazione degli artt. 192, comma 3, e 210 cod. proc. pen. e il vizio di
motivazione, in relazione alla questione della valutazione delle dichiarazioni
accusatorie rese da Esposito Bruno con riferimento ai fatti di cui ai capi E, F, G, H,
I, deducendosi, al riguardo, che nella motivazione della sentenza impugnata
plurime erano le omissioni e i travisamenti in cui il giudice censurato era incorso
nella valutazione della credibilità soggettiva del propalante e della attendibilità
oggettiva del suo racconto – da ritenersi assolutamente priva di spontaneità
perché frutto di una strategia difensiva mirata ad ottenere il proscioglimento dal
delitto di calunnia ai sensi dell’art. 54 cod. pen. -, rispetto al quale si erano
utilizzati in funzione di corroborazione elementi di prova inidonei ad assurgere al
rango di riscontri – ancorché non ve ne fosse necessità in considerazione del
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5. L’impugnativa di Di Tria è affidata a cinque motivi, che denunciano:

giudizio negativo da esprimersi in punto di credibilità del dichiarante e di
attendibilità del dichiarato -, tali non potendosi considerare quelli ritraibili dalle
dichiarazioni accusatorie rese da Rossitto Corrada, moglie dell’Esposito, essendo
questa a sua volta coimputata di reato collegato e chiamante de relato;
5.3. la violazione degli artt. 197-bis cod. proc. pen. e 431, comma 2, cod.
proc. pen. in relazione al fatto di cui al capo E della rubrica, evidenziandosi la
limitata e parziale valutazione delle dichiarazioni del coindagato Carota – prosciolto
dall’accusa di concorso nel delitto di minaccia posta in essere nei confronti

inserito nel fascicolo per il dibattimento, le quali avrebbero lumeggiato
l’inattendibilità delle propalazioni rese dall’Esposito in ordine all’episodio
contestato;
5.4. la violazione dell’art. 125, comma 3, cod. proc. pen. e il vizio di
motivazione in ordine alla condotta di concorso morale del Brigadiere di Tria, la
sua iniziativa di far registrare l’incontro avvenuto in data 12/1/2009 tra l’Esposito
e il Conte, di fare ‘tradurre’ la conversazione captata e di metterla a disposizione
della Procura della Repubblica di Gorizia per il tramite del locale Comando
provinciale dei Carabinieri essendo circostanza vulnerante la tenuta logica delle
conclusioni raggiunte sul punto dalla Corte triestina;
5.5. la violazione degli artt. 517, 521, 522 e 598 cod. proc. pen., in relazione
all’avvenuta riqualificazione, nella sentenza di secondo grado, del fatto di falsità
ideologica contestatogli al capo F, come aggravato ai sensi dell’art. 476, comma
2, cod. pen. in ragione della natura fidefaciente degli atti pubblici nei quali erano
trasfuse le false attestazioni del pubblico ufficiale.

CONSIDERATO IN DIRITTO

La sentenza impugnata va annullata senza rinvio, quanto alla posizione di
Monagheddu Domenico, limitatamente ai capi D e M della rubrica, per essere i
reati in essi contestati estinti per prescrizione; nel resto, invece, i ricorsi devono
essere dichiarati inammissibili.
1. Le Sezioni Unite di questa Corte, infatti, con la sentenza n. 6903 del
27/05/2016 – dep. 14/02/2017, Aiello e altro, Rv. 268965, hanno affermato che
la sentenza di condanna che riguardi più reati ascritti allo stesso imputato è
idealmente scindibile, in ragione di ogni capo di imputazione, in altrettante
autonome statuizioni di condanna, con la conseguenza che, sebbene i diversi capi
siano contenuti in un unico documento-sentenza, ognuno di essi conserva la
propria individualità ad ogni effetto giuridico. Da tale principio di diritto discende
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dell’Esposito per indurlo a istigare Conte a cedergli sostanze stupefacenti -,

che, in caso di ricorso avverso una sentenza di condanna che riguardi più reati
ascritti allo stesso imputato (sentenza oggettivamente cumulativa), l’autonomia
dell’azione penale e dei rapporti processuali inerenti ai singoli capi di imputazione
impedisce che l’inammissibilità dell’impugnazione per uno o più dei reati giudicati
possa precludere l’instaurazione di un valido rapporto processuale per i reati in
relazione ai quali l’impugnazione sia ammissibile e il rilievo della prescrizione
maturata prima della sentenza di appello.
In effetti, in tema di prescrizione del reato, vige la regula iuris secondo la

con il riferimento al solo mese o al solo anno, per il principio del ‘favor rei’il relativo
termine comincia a decorrere dal primo giorno utile dell’anno o del mese indicati
(Sez. 1, n. 49086 del 24/05/2012, Acanfora e altri, Rv. 253958; Sez. 3, n. 8787
del 15/06/1998, Parrella, Rv. 211962). Donde è da riconoscere che, nel caso
scrutinato, poiché con riferimento ai reati di cui ai capi D e M la contestazione ha
avuto luogo con il generico riferimento al mese di ‘settembre 2008’ e agli anni ‘tra
il 2007 e il 2008′, la loro prescrizione deve considerarsi maturata, rispettivamente,
in data 21 giugno 2016 e 20 ottobre 2015 e, quindi, anteriormente alla pronuncia
di secondo grado.
2. Ciò chiarito, ragioni di ordine logico impongono la prioritaria trattazione
delle eccezioni in rito.
2.1. Le questioni relative alla utilizzabilità delle intercettazioni telefoniche,
sollevate con il terzo motivo del ricorso di Monagheddu, sono destituite di
fondamento.
Da parte di questa Corte regolatrice si è, infatti, costantemente affermato
che, in tema di presupposti per l’autorizzazione a disporre intercettazioni
telefoniche, i gravi indizi richiesti dall’art. 267, comma 1, cod.proc.pen., non
attengono alla colpevolezza di un determinato soggetto ma alla esistenza di un
reato, con la conseguenza che, per sottoporre l’utenza di una persona ad
intercettazione non è necessario che gli stessi riguardino anche la riferibilità a
questa del reato (Sez. 2, n. 42763 del 20/10/2015, Rv. 265127; Sez. 6, n. 9428
del 18/06/1999, Patricelli, Rv. 214127). Nondimeno si è puntualizzato che nel
decreto autorizzativo occorre necessariamente dar conto delle ragioni che
impongono l’intercettazione di una determinata utenza telefonica, facente capo ad
una specifica persona, indicando il collegamento tra l’indagine in corso e la
medesima persona, affinché possa essere verificata, alla luce del complessivo
contenuto informativo e argomentativo del provvedimento, la sua adeguatezza
rispetto alla funzione di garanzia prescritta dall’art. 15, comma 2, Cost. (Sez. 5,

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quale, ove il momento di consumazione del reato venga indicato in imputazione

n. 1407 del 17/11/2016 – dep. 12/01/2017, Nascetti, Rv. 268900; Sez. 6, n.
12722 del 12/02/2009, P.M. in proc. Lombardi Stronati e altri, Rv. 243241).
D’altro canto, pur dopo essersi chiarito che l’inutilizzabilità degli esiti delle
operazioni captative derivante dalla mancanza di motivazione dei decreti di
autorizzazione e di proroga può essere dedotta dalle parti, per la prima volta, nel
giudizio di cassazione e rilevata d’ufficio anche dal giudice di legittimità ai sensi
dell’art. 609, comma 2, cod. proc. pen., poiché l’inosservanza dell’obbligo di
motivazione dei decreti autorizzativi integra una inutilizzabilità del risultato delle

fondamentali della persona tutelati dalla Costituzione (Sez. 3, n. 15828 del
26/11/2014 – dep. 16/04/2015, Solano Abreu e altri, Rv. 263342), non è stato
giammai posto in discussione il principio di diritto secondo il quale, in tema di
intercettazioni di conversazioni o comunicazioni, è legittima la motivazione “per
relationem” dei decreti autorizzativi quando in essi il giudice faccia richiamo alle
richieste del pubblico ministero ed alle relazioni di servizio della polizia giudiziaria,
ponendo così in evidenza, per il fatto d’averle prese in esame e fatte proprie, riter’
cognitivo e valutativo seguito per giustificare l’adozione del particolare mezzo di
ricerca della prova (Sez. U, n. 919 del 26/11/2003 – dep. 19/01/2004, Gatto, Rv.
226485; Sez. 5, n. 36913 del 05/06/2017, P.M. in proc. Tipa e altri, Rv. 270758;
Sez. 5, n. 24661 del 11/12/2013 – dep. 11/06/2014, Adelfio e altri, Rv. 259867;
Sez. 6, n. 46056 del 14/11/2008, Montella, Rv. 242233).
Peraltro, non si è mancato di sottolineare che è inammissibile il motivo di
ricorso per cassazione con il quale si lamenti l’inesistenza della gravità indiziaria
ritenuta dal giudice che ha emesso i decreti di autorizzazione delle intercettazioni
telefoniche (Sez. 4, n. 47891 del 28/09/2004, Mauro ed altri, Rv. 230568), posto
che il sindacato del giudice di legittimità nell’esame delle questioni processuali
comprende il potere di esaminare gli atti per verificare la integrazione della
violazione denunziata, ma non anche quello di interpretare in modo diverso,
rispetto alla valutazione del giudice di merito, i fatti storici posti a base della
questione, se non nei limiti del rilievo della mancanza o manifesta illogicità della
motivazione.
Donde, alla stregua delle enunciate massime di orientamento, deve escludersi
che il decreto di autorizzazione al compimento delle operazioni di intercettazione
telefonica sull’utenza di Monagheddu Domenico adottato dal Giudice delle indagini
preliminari in data 26 marzo 2009 sia carente di motivazione, perché esso è
corredato da sintetica ma esaustiva indicazione delle ragioni della ritenuta
sussistenza di gravi indizi del reato di calunnia aggravata dalla violazione dei
doveri funzionali ascritto al Monagheddu in concorso con Esposito Bruno e Rossitto
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intercettazioni di carattere assoluto, perchè derivante dalla violazione dei diritti

Corrada, siccome emergenti dalle indagini compiutamente illustrate dal Pubblico
Ministero nella sua richiesta del 26 marzo 2009, nella quale veniva tracciato il
quadro analitico degli elementi indiziari posti a fondamento dell’addebito formulato
al Monagheddu quale ‘regista’ delle calunnie di cui si erano resi responsabili
l’Esposito e la Rossitto ai danni di Conte Roberto ed era data spiegazione del
perché l’intercettazione delle conversazioni e delle comunicazioni telefoniche
costituisse strumento indispensabile per la prosecuzione delle indagini: le quali, in
effetti, avevano preso l’abbrivio dalla costatazione del numero significativo di

Giudice delle indagini preliminari, in un difficile contesto ambientale di riferimento.
Dal complesso di tali argomentazioni deriva la stigmatizzazione in termini di
inconsistenza del rilievo censorio mosso alla motivazione resa nella sentenza
impugnata a corredo del diniego di accoglimento della stessa eccezione.
2.2. Priva di pregio è l’eccezione di inutilizzabilità delle dichiarazioni di Bottino
Giovanni, rese, ai sensi dell’art.

197-bis cod. proc. pen., nel corso della

rinnovazione in appello dell’istruttoria dibattimentale, sollevata da Monagheddu con l’ottavo motivo della sua impugnativa in relazione ai fatti di cui ai capi I, J, K
– per la ritenuta violazione dell’art. 191 cod. proc. pen. determinata
dall’utilizzazione per le contestazioni, da parte del Procuratore Generale, delle
dichiarazioni rese in primo grado senza l’assistenza del difensore, poiché, per
affermata giurisprudenza di questa Corte, in tema di inutilizzabilità non opera il
principio della propagazione previsto, invece, per la materia delle nullità, con la
conseguenza che la sanzione processuale della inutilizzabilità rimane circoscritta
alle prove illegittimamente acquisite e non incide sulle altre risultanze probatorie,
pur se ad esse collegate (Sez. 1, n. 45550 del 29/09/2015, El Gharbi, Rv. 265285;
Sez. 5, n. 12697 del 20/11/2014 – dep. 25/03/2015, Strazimiri e altri, Rv. 263031;
Sez. 2, n. 44877 del 29/11/2011, Berardinetti, Rv. 251361).
3. Le questioni che attingono il merito della regiudicanda sono inammissibili o
manifestamente infondate.
3.1. In limine è d’uopo evidenziare che le censure sviluppate da Di Tria – con
il terzo motivo di ricorso – che si appuntano sul reato di cui al capo E della rubrica
(di cui agli artt. 110, 611, commi 1 e 2, e 61 n. 9 cod. pen., commesso in
Monfalcone nel settembre 2008), in relazione al quale la Corte territoriale ha
dichiarato non doversi procedere per essere lo stesso estinto ai sensi degli artt.
157 e segg. cod. pen., sono inammissibili, per essere divenuta irrevocabile la
relativa statuizione pronunciata all’esito del giudizio di appello, in assenza di
impugnazione del pubblico ministero e di rinuncia alla prescrizione da parte
dell’imputato.
1
11

contatti telefonici tra gli indagati e cadevano, peraltro, come sottolineato dal

3.2. Le questioni relative alla valutazione delle chiamate in correità effettuate
da Esposito Bruno, da Zambon Mara e da Bottino Giovanni, sviluppate con il
quarto, il sesto e il nono motivo del ricorso di Monagheddu e con il secondo motivo
del ricorso di Di Tria, sono, in parte manifestamente infondate e, in parte,
inammissibili.
3.2.1. Assumono i difensori degli imputati che, alla stregua dei criteri di
applicazione dell’art. 192, comma 3, cod. proc. pen., la Corte territoriale sarebbe
dovuta pervenire alla conclusione che, valutate le propalazioni accusatorie come

oggettivamente inattendibili, le segnalate intrinseche carenze di persuasività
avrebbero esonerato il giudice dalla necessità di esaminare e valutare gli elementi
di prova fungenti da loro riscontro esterno.
L’affermazione in questione si pone, però, in contrasto con il principio di diritto
enunciato da questa Corte, nella sentenza a Sezioni Unite n. 20804 del 29/11/2012
– dep. 14/05/2013, Aquilina e altri, Rv. 255145, a mente del quale, se è vero che
nella valutazione della chiamata in correità o in reità il giudice, ancora prima di
accertare l’esistenza di riscontri esterni, deve verificare la credibilità soggettiva del
dichiarante e l’attendibilità oggettiva delle sue dichiarazioni, tuttavia tale percorso
valutativo non deve muoversi attraverso passaggi rigidamente separati, in quanto
la credibilità soggettiva del dichiarante e l’attendibilità oggettiva del suo racconto
sono da vagliare unitariamente, non indicando l’art. 192, comma 3, cod. proc.
pen., alcuna specifica tassativa sequenza logico-temporale. Nella parte motiva del
citato autorevole arresto, si è, poi, precisato che, pur indiscutibile che, ai fini della
corretta valutazione del mezzo di prova di cui si discute, la metodologia a cui il
giudice di merito deve conformarsi non può che essere quella «a tre tempi»,
indicata dalla sentenza a Sezioni Unite n. 1653 del 21/10/1992 – dep.22/02/1993,
Marino, Rv. 192465 – che si articola attraverso la verifica della credibilità del
dichiarante, desunta dalla sua personalità, dalle sue condizioni socio-economiche
e familiari, dal suo passato, dai rapporti col chiamato, dalla genesi remota e
prossima delle ragioni che lo hanno indotto all’accusa nei confronti del chiamato;
della attendibilità intrinseca della chiamata, in base ai criteri della precisione, della
coerenza, della costanza, della spontaneità; e, infine, della verifica esterna
dell’attendibilità della dichiarazione, attraverso l’esame di elementi estrinseci di
riscontro alla stessa -, nondimeno il percorso valutativo dei vari passaggi deve
svolgersi secondo un’ottica multifocale, atteso che eventuali riserve circa
l’attendibilità del narrato devono essere superate vagliandone la valenza
probatoria anche alla luce di tutti gli altri elementi di informazione legittimamente
acquisiti.
12

inaffidabili, per essere i chiamanti non credibili e le loro dichiarazioni

L’opzione ermeneutica accolta dalla sentenza Sez. Un. n. 20804/2013
Aquilina deriva, a ben vedere, dall’adesione alla concezione teorica secondo la
quale, in un sistema incentrato sul principio del libero convincimento del giudice,
non è ipotizzabile una catalogazione gerarchica, in senso piramidale, dei tipi di
prova secondo una loro asserita ed astratta idoneità dimostrativa, sganciata dalla
specifica realtà processuale, poiché l’efficacia di un mezzo di prova non può essere
affermata in astratto, ma è strettamente connessa alla dinamica operativa del
mezzo di prova all’interno del contesto processuale in cui viene acquisito. In

verifica dei mezzi di prova, è, in ogni caso, compito esclusivo del giudice stabilirne,
nel dispiegarsi in concreto della dinamica processuale e facendo uso dei suoi poteri
di libero apprezzamento, quale ne sia l’efficacia dimostrativa, dando atto nella
motivazione dei risultati della prova e dei criteri mediante i quali se ne è operata
la valutazione.
E di tale sentire costituisce espressione l’affermazione – pure contenuta nella
citata sentenza – secondo la quale il legislatore che, nel primo comma della norma
di cui all’art. 192 cod. pen., ha codificato l’evocato principio del libero
convincimento del giudice nella valutazione della prova, nei commi successivi ha
inteso formalizzare nient’altro che un “segnale didattico” per la valutazione di dati
probatori: «che, isolatamente considerati, si rivelano di minore efficacia
dimostrativa, quali – da un lato – gli indizi in genere e – dall’altro – quegli specifici
indizi costituiti dai contributi dichiarativi di coimputati del medesimo reato, di
imputati in procedimento connesso a norma dell’art. 12 cod. proc. pen. e di
imputati di un reato collegato ex art. 371, comma 2, lett. b), cod. proc. pen.: i
primi, infatti, per integrare la prova del fatto, devono essere gravi, precisi e
concordanti; la valutazione probatoria dei secondi è, invece, subordinata anche
alla simultanea presenza di altri elementi di prova che ne confermano
l’attendibilità>> (pag. 28 sent. S.U. n. 20804/2013).
La riscontrata conformità a tali criteri direttivi dell’iter

valutativo delle

chiamate in correità seguito dal giudice censurato vale a fare cadere, dunque, il
primo dei rilievi formulati sul punto.
3.2.2. Gli ulteriori rilievi, con i quali formalmente si contestano violazioni della
legge processuale in ordine alla valutazione delle prove o vizi di motivazione,
articolano, in realtà, questioni di mero fatto non consentite in questa sede,
essendo escluse dal novero delle doglianze proponibili al cospetto del giudice di
legittimità quelle tese ad attaccare la persuasività delle argomentazioni rese dai
giudici di merito o a prospettare un’interpretazione alternativa del materiale
probatorio.
13

sostanza, se spetta al legislatore indicare le metodologie di acquisizione e di

L’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha, in effetti,
un orizzonte circoscritto, dovendosi limitare – per espressa volontà del legislatore
– a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della
decisione impugnata, senza possibilità di verificare l’adeguatezza e la rispondenza
delle argomentazioni dì cui il giudice di merito si è avvalso rispetto alle acquisizioni
processuali. Sono, pertanto, precluse al giudice di legittimità la rilettura degli
elementi probatori posti a fondamento della decisione impugnata e l’autonoma
adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti,

capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (Sez. 6, n.
47204 del 07/10/2015, Musso, Rv. 265482; Sez. 1, n. 42369 del 16/11/2006, De
Vita, Rv. 235507).
Avuto riguardo alla ricorrente proposizione, nelle lagnanze in esame, di una
pretesa violazione della legge processuale che regola la valutazione delle prove ex
art. 192, comma 3, cod.proc.pen., vale rammentare che, secondo la incontrastata
linea ermeneutica di questa Corte, è inammissibile il motivo di ricorso per
cassazione che censura l’erronea applicazione dell’art. 192, comma 3, cod. proc.
pen. se é fondato su argomentazioni che si pongono in confronto diretto con il
materiale probatorio e non, invece, sulla denuncia di uno dei vizi logici,
tassativamente previsti dall’art. 606, comma primo, lett. e), cod. proc. pen.,
riguardanti la motivazione della sentenza di merito in ordine alla ricostruzione del
fatto (Sez. 6, n. 13442 del 08/03/2016, De Angelis e altro, Rv. 266924; Sez. 6,
n. 43963 del 30/09/2013, Basile e altri, Rv. 258153).
Nondimeno, la mancanza, l’illogicità e la contraddittorietà della motivazione,
come vizi denunciabili ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen.,
devono essere evidenti, cìoé dì spessore tale da risultare percepibili

ictu °culi,

dovendo il sindacato di legittimità arrestarsi a rilievi di macroscopica evidenza,
restando ininfluenti le minime incongruenze del discorso giustificativo della
decisione impugnata e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche
se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione
adottata, purché siano spiegate in modo logico e adeguato le ragioni del
convincimento (Sez. U, n. 47289 del 24/09/2003, Petrella, Rv. 226074; Sez. U, n.
12 del 31/05/2000, .Jakani, Rv. 216260; Sez. U, n. 24 del 24/11/1999, Spina, Rv.
214794). Sono, quindi, inammissibili tutte le doglianze che “attaccano” la
persuasività, l’inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualità della
motivazione, così come quelle che sollecitano una differente comparazione dei
significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto
per giungere a conclusioni differenti sui punti della credibilità, dell’attendibilità e
14

indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore

dello spessore della valenza probatoria di ogni singolo elemento (Sez. 6, n. 13809
del 17/03/2015, 0., Rv. 262965).
Al lume degli evocati canoni ermeneutici occorre concludere che le formulate
censure risultano espressive di critiche di merito alle valutazioni compiute dalla
Corte distrettuale in ordine alla ricostruzione dei fatti. Valutazioni che, laddove
riconoscono valenza probatoria alla chiamata in correità di Esposito Bruno e di
Rossitto Corrada – i quali, alla fine di marzo del 2009, resero le dichiarazioni
accusatorie nei confronti dei sottufficiali dei Carabinieri imputati perché posti al

nei confronti di Conte e non per odio del Monagheddu o in esecuzione di un
‘complotto’ ordito ai danni di quest’ ultimo in combutta con gli ufficiali dei
Carabinieri di Gorizia ostili a quelli di Monfalcone -; a quella di Zambon Mara – la
quale, lungi dall’assecondare il desiderio di ritorsione nei confronti del Maresciallo
Monagheddu, per non essere stata da questi corrisposta nei suoi sentimenti, o la
volontà di riprendere i rapporti con soggetti gravitanti nell’ambito dello spaccio
delle sostanze stupefacenti, rese propalazioni non solo coerenti, ma pienamente
corroborate da quelle della Vidonis e della Khribech -; a quella di Bottino – le cui
dichiarazioni, benché provenienti da un pregiudicato, sono del tutto convergenti
sul piano logico con quelle dell’Esposito – risultano adeguatamente delucidate e
sorrette da un percorso logico esente da vizi, insufficienze o contraddittorietà,
come tale in grado di superare indenne il vaglio demandato a questa Corte di
legittimità.
Giova, in ultimo, evidenziare che i rilievi difensivi, siccome illustrati nella
narrativa in fatto, propongono una lettura parcellizzata delle fonti di prova e per
nulla perspicua avuto riguardo all’imprescindibile relazione esistente tra la
funzione critica assegnata all’impugnazione e la funzione euristica propria della
motivazione dei provvedimenti giurisdizionali. Nondimeno, gli stessi si pongono in
frontale contrasto con le massime di orientamento da sempre enunciate da questa
Corte regolatrice sul tema, a mente delle quali: « Il sindacato di legittimità sulla
valutazione delle chiamate di correo non consente il controllo sul significato
concreto di ciascuna dichiarazione e di ciascun elemento di riscontro, perché un
tale esame invaderebbe inevitabilmente la competenza esclusiva del giudice di
merito, potendosi solo verificare la coerenza logica delle argomentazioni con le
quali sia stata dimostrata la valenza dei vari elementi di prova, in sé stessi e nel
loro reciproco collegamento>> (Sez. 6, n. 33875 del 12/05/2015, Beruschi e altri,
Rv. 264577; Sez. 5, n. 2086 del 17/09/2009 – dep. 18/01/2010, Lucchese e altri,
Rv. 245729; Sez. 4, n. 5821 del 10/12/2004 – dep. 16/02/2005, Alfieri e altri, Rv.
231302; Sez. 6, n. 1472 del 02/11/1998 – dep. 04/02/1999, Archesso e altri, Rv.
15

1

cospetto di prove inconfutabili in ordine alla calunniosità delle denunce presentate

213444) e secondo cui: «Non è sindacabile in sede di legittimità, salvo il
controllo sulla congruità e logicità della motivazione, la valutazione del giudice di
merito, cui spetta il giudizio sulla rilevanza e attendibilità delle fonti di prova, circa
contrasti testimoniali o la scelta tra divergenti versioni e interpretazioni dei fatti
(Sez. 5, n. 51604 del 19/09/2017, D’Ippedico e altro, Rv. 271623; Sez. 6, n.
47204 del 07/10/2015, Musso, Rv. 265482).
Le residue censure che si dirigono sulla ritenuta circolarità delle dichiarazioni
accusatorie de relato di Rossitto Corrada sono, oltretutto, generiche, perché

(l’Esposito) e al contenuto delle informazioni riferite – senza indicare con la dovuta
chiarezza e precisione – oltremodo necessaria in considerazione della impossibilità
per il giudice di legittimità di accedere agli atti del processo – quali fossero gli
specifici apporti dichiarativi suscettibili di essere colpiti dalla sanzione della
inutilizzabilità e quale ne fosse la decisiva valenza corroborante nel contesto della
valutazione complessiva della chiamata in correità effettuata da Esposito Bruno.
3.3. – Per quel che attiene al quarto motivo dell’impugnativa di Tria, occorre
riconoscere che la Corte territoriale ha svolto articolate considerazioni sulle
modalità della sua compartecipazione, invero non solo morale, ai delitti di falsità
ideologica di cui al capo F), di calunnia aggravata e di acquisto di sostanza
stupefacente dal Conte. Il giudice censurato, in effetti, ha evidenziato come dalle
condotte tenute dall’impugnante emergesse la sua consapevolezza – quantomeno
nelle linee generali, essendo egli un subordinato rispetto al Maresciallo
Monagheddu – delle modalità irregolari di conduzione dell’operazione di polizia
giudiziaria finalizzata all’arresto di Conte Roberto e al sequestro dello stupefacente
ceduto all’Esposito, non potendo egli ignorare che soltanto il Nucleo Investigativo
del Reparto operativo del Comando provinciale dei Carabinieri di Gorizia, diretto
dal Tenente Colonnello Di Bari, era investito per legge delle funzioni operative di
contrasto alle sostanze stupefacenti, valendosi di interposta persona per
«operazioni sotto copertura», e che, proprio in relazione a quell’unica
operazione organizzata di concerto con il RONI di Gorizia, il detto superiore
organismo investigativo era stato estromesso dall’arresto di Conte Roberto.
Di qui l’esclusione di ogni ragionevole dubbio in ordine al fatto che egli fosse
del tutto consapevole delle conseguenze del proprio agire e, perciò, avesse voluto
apportare il proprio contributo, finalisticamente orientato alla buona riuscita
dell’operazione medesima. In particolare, come osservato nella sentenza
impugnata (pagg. 31 – 32), il dato della registrazione dell’incontro tra Esposito
Bruno e Conte Roberto in data 12 gennaio 2009, avuto riguardo ai contenuti della
conversazione captata intercorsa tra costoro, essendo privo di valore dirimente
16

denunciano l’astratta autoreferenzialità di esse – con riferimento alla fonte

rispetto alla liceità dell’operazione ‘Esposito/Conte’, è indice, piuttosto, della sua
partecipazione consapevole e volontaria ai fatti criminosi – avendo egli inteso
cristallizzare la prova dell’esistenza di contatti tra i protagonisti della vicenda
finalizzati allo smercio di sostanze stupefacenti; partecipazione già manifestatasi
in precedenza, allorché egli aveva dato manforte al Maresciallo Monagheddu secondo le modalità descritte alla pagina 29 della sentenza impugnata – per
incidere sull’Esposito per indurlo a <> e nel predisporre – mediante la sottoscrizione di comunicazioni di

dall’Esposito, ideologicamente falsi – l’apparenza di liceità dell’attività di polizia
giudiziaria.
Non sono ravvisabili, pertanto, violazioni di legge – né sotto il profilo della
inosservanza di norme (per non avere il giudice a quo applicato una determinata
disposizione in relazione all’operata rappresentazione del fatto corrispondente alla
previsione della norma, ovvero per averla applicata sul presupposto
dell’accertamento di un fatto diverso da quello contemplato dalla fattispecie), né
sotto il profilo della erronea applicazione, avendo il giudice del merito esattamente
interpretato le disposizioni cui si è richiamato alla luce dei principi di diritto fissati
da questa Corte) – e neppure vizi della motivazione, il giudice censurato avendo
dato conto adeguatamente – come sin qui illustrato – delle ragioni della propria
decisione, sorretta da motivazione congrua, affatto immune da illogicità di sorta,
sicuramente contenuta entro i confini della plausibile opinabilità di apprezzamento,
mentre la rivalutazione degli elementi fattuali evidenziati nel motivo di ricorso
costituisce una valutazione di fatto che si sottrae al sindacato di legittimità.
3.4. Infondate sono le questioni che affrontano i temi delle cause di esclusione
dell’antigiuridicità dei fatti e della loro qualificazione giuridica.
3.4.1. Privi di pregio sono i rilievi diretti ad invocare l’applicazione della
scriminante che contempla l’agire dell’ufficiale di polizia giudiziaria, il quale,
nell’ambito di operazioni investigative di contrasto alla cessione illecita di
stupefacenti, si sia limitato a disvelare un’intenzione criminosa già esistente ma
latente.
Secondo la difesa del Monagheddu – che ha affidato le proprie deduzioni sul
punto al quinto e al decimo motivo di ricorso – le condotte contestate ai capi, I, 3
e T, sarebbero legittime perché non riconducibile né all’azione tipica dell’agente
provocatore, né a quella dell’agente sotto copertura, ma ad un tertium genus che
riconosce la legittimità dell’arresto dei detentori di sostanza stupefacente, cui sia
stata procurata dalla polizia giudiziaria la mera occasione per disvelare l’intenzione

17

reato, annotazioni di servizio e verbali di sommarie informazioni, provenienti

criminosa di farne commercio, in loro già esistente anche se in maniera latente,
senza averla determinata in modo essenziale.
3.4.2. – Sennonché, nel ricorso di Monagheddu, si è omesso il necessario
confronto con due evidenze fattuali dotate di decisiva valenza euristica e, perciò,
più volte richiamate dalla Corte territoriale nella motivazione della sentenza
impugnata.
La prima si riferisce al dato, incontestato, che né il Maresciallo Monagheddu,
né il Brigadiere Di Tria erano organicamente inseriti nel reparto – il RONI del

Bari -, investito, per legge, delle funzioni di contrasto al traffico delle sostanze
stupefacenti mediante «operazioni sotto copertura>> condotte anche valendosi
di interposte persone (pagg. 29 motivazione sentenza impugnata); superiore
reparto investigativo il quale, anzi, essi stessi avevano estromesso dall’arresto di
Conte Roberto – che costituiva l’epilogo della sola operazione organizzata di
concerto -, allo scopo – argomenta sul punto il giudice censurato – di evitare che
dal coinvolgimento del personale in forza presso il detto RONI potesse emergere
la non conformità ai protocolli legali dell’operazione indicata. Essendo, peraltro, da
escludere che i due sottufficiali imputati potessero non conoscere o non tenere
nella dovuta considerazione – se non altro per le ricadute sul piano disciplinare in
ipotesi di inosservanza – le ridette partizioni funzionali, sia perché non erano
ingenui agenti al primo incarico ma esperti operanti di polizia giudiziaria – inseriti
da tempo nel Nucleo Operativo del Comando Compagnia dei Carabinieri di
Monfalcone -, sia perché – e qui si anticipano le argomentazioni in diritto sul tema
– l’errore scusabile non si configura quando l’agente svolge attività in un settore
nel quale ha il dovere di informarsi con diligenza sui limiti dei propri poteri (Sez.
3, n. 18896 del 10/03/2011, Riccio e altro, Rv. 250285).
La seconda evidenza – della quale nel ricorso di Monagheddu si discute solo
per sminuirne la valenza di riscontro individualizzante delle chiamate in correità
operate dall’Esposito e dalla Zambon – attiene al dato (valorizzato dal giudice
distrettuale in particolare nelle pagg. 24, 25, 30 della sentenza impugnata) del
consolidato

“modus operandi”

emerso dagli episodi complessivamente

considerati – dell’utilizzo di un soggetto (un tossicodipendente o un pregiudicato o
anche una persona collocata ai margini della legalità) per ordinare o acquistare lo
stupefacente – a ciò istigato mediante minacce o la profferta di favori o anche
approfittando di situazioni contingenti legate all’originarsi di rapporti personali (è
il caso della Zambon) – al fine di permettere l’arresto dello spacciatore.
3.4.3. In effetti i ridetti elementi di fatto delineano il perimetro entro cui
collocare la risposta ai quesiti di diritto formulati nella stessa impugnativa.
18

Comando provinciale dei Carabinieri di Gorizia, diretto dal Tenente Colonnello Di

All’uopo, occorre ribadire che la condotta del c.d. “agente provocatore” – cioè
di colui che provoca altri a commettere un reato, avendo, tuttavia, interesse non
già alla commissione del reato per trarne i relativi illeciti vantaggi, bensì alla
scoperta e alla punizione del soggetto provocato – è scriminata dall’adempimento
del dovere, di cui all’art. 51 cod. pen., soltanto allorquando non si inserisca con
rilevanza causale nell’iter criminis, ma intervenga in modo indiretto e marginale,
concretizzandosi prevalentemente in un’attività di osservazione, di controllo e di
contenimento delle azioni illecite altrui (Sez. 4, n. 47056 del 21/09/2016,

239704; Sez. 6, n. 14677 del 03/04/2002, Celano e altri, Rv. 221475; Sez. 4, n.
11634 del 22/09/2000, Alessandro, Rv. 217253). Al di fuori di questa ipotesi,
invero, non può farsi discendere dall’obbligo della polizia giudiziaria di ricercare le
prove dei reati e di assicurare i colpevoli alla giustizia, previsto in via generale
dall’art. 55 cod.proc.pen., l’esclusione della responsabilità dell’agente provocatore,
poiché, se costituisce adempimento del dovere perseguire i reati commessi, non
altrettanto può dirsi del suscitare azioni criminose al fine di arrestarne gli autori.
Va, nondimeno, preso atto che la legislazione speciale (art. 97 d.P.R.
309/1990; art. 12-quater I. 356/1992; art. 14, commi 1 e 2, I. 269/1998; art. 4
d.l. 374/2001, conv. in 1.438/2001; art. 10 I. 228/2003; art. 1-ter d.l. 241/2004,
conv. in I. 271/2004) ha progressivamente conformato la primigenia tipizzazione
dell’agente provocatore – come elaborata dalla giurisprudenza e dalla dottrina alle esigenze emerse nell’ambito del contrasto a gravi e peculiari fenomenologie
criminose, rispetto alle quali l’intervento di agenti infiltrati si è rivelato un efficace
mezzo di repressione, fino al punto che la norma di cui all’art. 9 I. n. 146 del 16
marzo 2006 ha predisposto una disciplina unitaria dell’attività di polizia giudiziaria
cd. «sotto copertura».
Per la risoluzione della questione oggetto di scrutinio, rileva, infine, il far
menzione che l’art. 97 del d.lgs. 309/1990, rinviando alle disposizioni di cui all’art.
9 I. n. 146/2006 e successive modificazioni, regola la figura del fictus emptor di
sostanze stupefacenti, subordinando la legittimità del suo operato ad una pluralità
di condizioni soggettive e oggettive: 1) soggetto attivo può essere esclusivamente
l’ufficiale di polizia giudiziaria addetto alle unità specializzate antidroga (ne rimane,
quindi, escluso non solo il semplice agente, ma anche l’ufficiale di polizia giudiziaria
che non sia addetto alle unità specializzate antidroga); 2) la condotta dell’agente
provocatore può consistere soltanto nell’acquisto, ricezione, sostituzione ed
occultamento di sostanze stupefacenti psicotrope, nonché in attività prodromiche
e strumentali; 3) l’acquisto di sostanze stupefacenti o psicotrope deve essere
“simulato” (cioè il soggetto attivo qualificato deve fingere di farsi indurre in errore
19

Cabianca, Rv. 268998; Sez. 1, n. 10695 del 14/01/2008, D’Amico e altri, Rv.

con idoneo artificio o raggiro) e deve essere effettuato “in esecuzione di operazioni
anti-crimine specificamente disposte dal Servizio centrale antidroga (ora Direzione
centrale per i servizi antidroga), o, d’intesa con questo, dal questore o dal
comandante del gruppo dei Carabinieri o della Guardia di Finanza o dal
comandante del nucleo di Polizia Tributaria o dal direttore della Direzione
investigativa antimafia”, con la conseguenza che rimangono escluse dall’ambito di
rilevanza della norma evocata le operazioni antidroga disposte dal commissario di
P.S., dal comandante della stazione dei Carabinieri o da un qualunque ufficiale di

ruolo di agente provocatore, è quello di “acquisire elementi di prova”: quindi non
necessariamente “prove” e neppure semplicemente “fonti di prova” in ordine ai
“delitti” in materia di stupefacenti.
E’ indubbio, dunque, che la disposizione appena indicata configura una
scriminante speciale (Sez. 6, n. 23035 del 30/03/2004, Esposito ed altri, Rv.
229943) – come è dato inferire dalle stesse cadenze testuali dell’art. 9 I. 146/2006,
che al comma 1, dopo aver richiamato la scriminante generale dell’art. 51
cod.pen., prevede una ipotesi particolare -, resasi necessaria poiché, altrimenti, la
condotta del finto acquirente di droga non sarebbe stata giustificata dalla
scriminante di cui all’art. 51 cod.pen., secondo l’interpretazione ad essa data da
questa Corte regolatrice, atteso che l’agente provocatore che finge di acquistare
sostanza stupefacente non si limita a porre in essere una attività di osservazione,
contenimento e controllo, ma agisce istigando lo spacciatore alla commissione di
un reato.
3.4.4.- Da quanto illustrato consegue che all’operato del Maresciallo
Monagheddu non è applicabile la scriminante speciale dell’avere commesso le
condotte di cui ai capi I, 3 e T, per il tramite di soggetti interposti, operando quale
‘agente provocatore – finto acquirente di droga’, di cui al combinato disposto degli
artt. 97 d.lgs. 309/1990 e 9 I. 146/2006, non ricorrendo nelle fattispecie concrete
addebitategli i presupposti tassativi indicati dalle disposizioni in parola e neppure
quella dell’agente provocatore tout court di cui all’art. 51 cod. pen., posto che,
nella giurisprudenza di questa Corte, è unanime l’affermazione secondo cui
“affinché non sia punibile la condotta dell’agente provocatore che abbia agito in
assenza dei presupposti richiesti dall’art. 97 D.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309, occorre
che egli abbia assunto una posizione marginale rispetto alla realizzazione
dell’illecito, nel senso di non essersi spinto al punto di cagionare, con rilevanza
causale, l’evento criminoso, il quale non deve essere da lui sollecitato, dovendo il
fatto di reato essere, nell’ideazione e nella realizzazione, riconducibile alla volontà
del provocato” (Sez. 3, n. 31415 del 15/01/2016, Ganzer e altri, Rv. 267517; Sez.
‘)

20

polizia giudiziaria; 4) il fine, per cui è consentito al soggetto attivo di svolgere il

3, n. 20238 del 07/02/2014, Buruiana, Rv. 260081; Sez. 3, n. 37805 del
09/05/2013, Jendoubi e altro, Rv. 257675).
3.4.5. A ben vedere, tuttavia, le operazioni antidroga organizzate dal
sottufficiale dei Carabinieri imputato non possono ritenersi non punibili neppure
evocando l’interpretazione giurisprudenziale secondo la quale, fuori dai casi di cui
all’art. 97 d.P.R. 309/1990, non risponde del delitto di acquisito o di ricezione di
sostanze stupefacenti l’agente infiltrato operante che si sia limitato a disvelare
un’intenzione criminosa già esistente nel cedente anche se allo stato latente, senza

accordi, tra fornitori e destinatari della droga, precedenti all’intervento dell’agente
sotto copertura (Sez. 3, n. 31415 del 15/01/2016, Ganzer e altri, Rv. 267517;
Sez. 3, n. 20238 del 07/02/2014, Buruiana, Rv. 260081; Sez. 3, n. 37805 del
09/05/2013, Jendoubi e altro, Rv. 257675). Come ampiamente evidenziato nella
sentenza impugnata (pagg. 29, 31 e 32, quanto all’operazione ‘Esposito – Conte’;
pag. 45, quanto all’operazione ‘Boscarol – Felice’; pag. 46 e 47 quanto
all’operazione ‘Esposito – Bottino’; pag. 49 deposizioni testi Abis, Stabile e Goss;
pagg. 53-55 quanto all’operazione ‘Zambon – Vidonis’; pagg. 57-58 quanto
all’operazione ‘Zambon – Khribech’) non residua alcun dubbio, alla luce delle
convergenti dichiarazioni rese dai cedenti e dai cessionari interposti nelle singole
vicende e della loro considerazione complessiva e trasversale, con riguardo alla
circostanza che il ricorrente Monagheddu avesse sistematicamente istigato
soggetti con i quali era venuto in contatto, in occasione ed a causa dello
svolgimento della propria attività di polizia giudiziaria, a svolgere operazioni di
acquisto di sostanze stupefacenti, in assenza dei presupposti previsti dalla
normativa vigente per le operazioni sotto copertura, a nulla rilevando, siccome
notato nella stessa sentenza (pag. 47), che i cedenti avessero nel pregresso
genericamente riferito di essere in possesso di sostanza stupefacente e di essere
disponibili a venderla, ma acquisendo valore decisivo, piuttosto, il fatto che “quello
specifico” acquisto (scilicet, ciascuno di quelli addebitati) di sostanza stupefacente
era stato deciso a ‘tavolino’ da Monagheddu, valendosi dell’intermediazione delle
persone di volta in volta prescelte per determinare, “con martellante insistenza”,
i detentori a cederla.
A tanto deve aggiungersi che costituisce principio generale, desumibile dagli
artt. 110 e 115 cod.pen., quello secondo il quale l’istigatore, quando l’istigazione
venga accolta, come nei casi esaminati, concorre nel reato (Sez. 1, n. 2260 del
26/03/2014 – 16/01/2015, Pg ed altri, Rv. 261893), così come, anche alla stregua
dell’interpretazione evocata dal ricorrente per sostenere l’esclusione
dell’antigiuridicità del proprio agire, non sussiste la scriminante di cui all’art. 97
21

averla determinata in modo essenziale, sussistendo la prova dell’esistenza di

d.P.R. n. 309/1990 nel caso in cui l’agente coinvolto in operazioni sotto copertura
compia attività che si caratterizzino per determinare taluno a commettere illeciti
penali prima inesistenti, atteso che l’esimente è configurabile solo in relazione
all’acquisizione di prove relative ad attività illecite già in corso (Sez. 3, n. 31415
del 15/01/2016, Ganzer e altri, Rv. 267517).
3.5. In riferimento alle doglianze articolate, in termini del tutto sovrapponibili
nei rispettivi ricorsi, da Monagheddu – con il secondo motivo – e da Di Tria – con il
quinto motivo -, va escluso che la qualificazione dei fatti di cui ai capi F, K, R, W,

aggravati dalla natura fidefaciente degli atti pubblici in cui le attestazioni non
corrispondenti al vero sono state trasfuse, abbia comportato: 1) la violazione del
principio di correlazione tra la contestazione e la sentenza, escerpibile dagli artt.
521 e 522 cod.proc.pen.; 2) la violazione del principio, enunciato dalla Corte
europea dei diritti dell’uomo nella sentenza Sez. IIA, 11/12/2007, Drassich contro
Italia, secondo il quale è diritto dell’imputato essere informato, in tempo utile, non
soltanto dei fatti materiali posti a suo carico, ma anche – e in modo dettagliato della qualificazione giuridica data a questi fatti; 3) del principio devolutivo; 4) del
principio del divieto di reformatio in peius.
3.5.1. Al riguardo occorre subito evidenziare che il giudice di secondo grado,
con il considerare come aggravati a norma dell’art. 476, comma 2, cod. pen. i reati
contestati ai capi F, K, R, W, non ha posto mano ad una diversa qualificazione
giuridica dei fatti contestati, ma si è limitato a ‘precisare’ quanto il giudice di primo
grado aveva implicitamente ritenuto in sentenza, non emergendo dalla lettura di
questo provvedimento alcun ‘decisivo’ elemento idoneo a suffragare l’assunto
contrario; tale non potendosi stimare, in particolare, il ‘solo’ dato – vieppiù se
valutato al cospetto della evidenza valorizzata dalla Corte di appello (pag. 64) che
il Tribunale, nel determinare il termine di prescrizione dei reati di cui ai capi F, K,
R,W, aveva tenuto conto della circostanza ad effetto speciale di cui all’art. 476,
comma 2, cod. pen. – dell’essere stati prescelti, ai soli fini della determinazione
dei trattamento sanzionatorio, come reati più gravi, sulla cui pena operare gli
aumenti per la continuazione, quelli rispettivamente contestati agli imputati ai capi
T e G della rubrica, ben potendosi ascrivere la ridetta opzione ad un mero errore
nella individuazione della più severa sanzione.
3.5.2. Nondimeno, giova sottolineare che neppure è conferente il richiamo
alla sentenza della Corte EDU, Drassich contro Italia del 2007, posto che, nel caso
Drassich, il giudice sovrannazionale era stato investito della decisione in ordine
alla possibile lesione delle garanzie convenzionali in materia di ‘ processo equo’ riconosciute dall’art. 6, § 1 e § 3, lett. a) e b) CEDU, quanto al diritto dell’imputato
22

siccome operata nella sentenza di appello, nei termini dei delitti di falsità ideologica

ad essere informato, in tempo utile ed in maniera completa, in merito alla natura
ed alla causa dell’accusa, così da essere posto nella condizione di preparare
compiutamente la propria difesa – come effetto della riqualificazione giuridica del
fatto cui aveva proceduto, di ufficio, la Corte di Cassazione nella sentenza che
aveva definito il processo celebrato a carico dell’imputato, dalla quale era derivata
la mancata applicazione della causa di estinzione del reato per prescrizione:
quindi, in una situazione obiettivamente diversa da quella all’esame, se non altro
per la possibilità di prospettare le questioni giuridiche implicate dareventuale’

legittimità.
3.5.3. Va dato conto, in proposito, che, sul tema della possibile lesione delle
garanze convenzionali di cui all’art. 6 CEDU in ipotesi di riqualificazione del fatto
disposta di ufficio in sentenza dal giudice di appello, contro cui sia possibile il
ricorso alla Corte Suprema nazionale, le posizioni espresse dalla giurisprudenza
della Corte di Strasburgo si appalesano variegate. Infatti, all’orientamento che
ritiene sussistere, in tale situazione, la violazione dell’articolo richiamato, specie
laddove si rappresenti l’inidoneità del mezzo di impugnazione a consentire un
nuovo apprezzamento delle prove o a mettere in discussione l’interpretazione dei
fatti accolta in sede di merito (Grande Camera, 25 marzo 1999, Pélissier e Sassi
c. Francia; Sez. I”, 20 aprile 2006, I.H. c. Austria), se ne contrappone altro (Sez.
IP`, 1 marzo 2001, Dallos c. Ungheria) che ritiene senz’altro ammissibile che il
giudice di appello dia, di ufficio e direttamente, in sentenza una diversa definizione
giuridica del fatto quando possa essere proposto il ricorso alla Corte Suprema
nazionale. Peraltro, tali divergenti approdi interpretativi sembrano, nell’attualità,
avere trovato un componimento (nelle sentenze 18 gennaio 2011, Amirov c.
Azerbaigian e 5 settembre 2013, èepek c. Repubblica Ceca, in materia di processo
civile, e nelle sentenze 3 luglio 2006, Vesque c. Francia, 7 gennaio 2010, Penev c.
Bulgaria, 12 aprile 2011, Adrian Constantin c. Romania; 3 maggio 2011, Giosakis
c. Grecia, 15 gennaio 2015, Mihei c. Slovenia, in materia di processo penale),
allorché il giudice sovranazionale ha selezionato quali criteri, alla stregua dei quali
verificare la violazione dell’art. 6 della Convenzione EDU nel caso esaminato: il
genere di doglianze addotte dal ricorrente; il tipo di poteri istituzionalmente
spettanti al giudice competente in ordine all’impugnazione avverso la decisione
che ha proceduto al rilievo di una questione di ufficio; il dato che l’imputato abbia
avuto piena conoscenza degli elementi fattuali posti alla base della contestazione,
così da poter desumere da questi l’oggetto dell’addebito.
3.5.4. Dalla prospettiva lumeggiata – che privilegia l’aspetto sostanziale e
funzionale dell’atto imputativo – muovono, del resto, alcuni arresti di questa Corte
23

riqualificazione giuridica operata dalla Corte di merito dinanzi alla Corte di

che hanno valorizzato il profilo dei pregiudizi concreti per il diritto di difesa
derivanti dalla riqualificazione officiosa in appello del fatto contestato.
In tal senso (Sez. 2, n. 46786 del 24/10/2014, PG. PC. e Borile, Rv. 261052;
Sez. 5, n. 1697 del 25/09/2013 – dep. 16/01/2014, Cavallari, Rv. 258941; Sez.
5, n. 7984 del 24/09/2012 – dep. 19/02/2013, Jovanovic e altro, Rv. 254648) si è
affermato che l’attribuzione in sentenza al fatto contestato di una qualificazione
giuridica diversa da quella enunciata nell’imputazione non determina la violazione
dell’art. 521 cod. proc. pen., neanche per effetto di una lettura della disposizione

definizione del reato appaia come uno dei possibili epiloghi decisori del giudizio,
secondo uno sviluppo interpretativo assolutamente prevedibile, o, comunque,
allorché l’imputato e il suo difensore abbiano avuto, nella fase di merito, la
possibilità di interloquire in ordine alla stessa.
In particolare, si è precisato che la verifica imposta ai fini del rispetto delle
garanzie convenzionali aventi ad oggetto l’effettivo esercizio del diritto di difesa
deve essere condotta avendo riguardo alla sufficiente prevedibilità in concreto
della riqualificazione dell’accusa inizialmente formulata, ai mezzi di difesa che
l’imputato avrebbe potuto esperire ove avesse avuto la possibilità di discutere della
nuova accusa e alle ripercussioni della stessa sulla determinazione della pena (Sez.
2, n. 46786/2014, Borile, Rv. 261052) e che, fermo il potere del giudice di
attribuire in sentenza al fatto emergente dalle risultanze processuali una
qualificazione giuridica diversa da quella enunciata nell’imputazione, stante la
formulazione dell’art. 521 cod.proc.pen. – non potendo nessuna interpretazione
adeguatrice di tale disposizione tradursi in una interpretazione abrogatrice della
stessa -, il rispetto della regola del contraddittorio, che deve essere assicurato
all’imputato anche in ordine alla diversa definizione giuridica del fatto operata dal
giudice nell’esercizio del potere-dovere che gli è proprio, impone esclusivamente
che tale diversa qualificazione giuridica non avvenga “a sorpresa”, determinando
conseguenze negative per l’imputato (e, quindi, fondando un suo concreto
interesse ad ottenerne la rimozione) (Sez. 5, n. 1697/2014, Cavallari, Rv. 258941;
Sez. 5, n. 7984/2013, Jovanovic, Rv. 254648). Situazione, questa, che,
all’evidenza, non si verifica allorché nel capo di imputazione siano contestati gli
elementi fondamentali del fatto – da intendersi come accadimento storico oggetto
di qualificazione giuridica da parte della legge penale, che spetta al giudice
individuare nei suoi esatti contorni – idonei a porre l’imputato in condizioni di
difendersi.
Non si è mancato, peraltro, di chiarire (Sez. 2, n. 37413 del 15/05/2013,
Drassich, Rv. 256652; Sez. 2, n. 21170 del 07/05/2013, Maiuri, Rv. 255735) che,
24

5

r.

alla luce dell’art. 111, comma 2, Cost. e dell’art. 6 CEDU, qualora la nuova

nell’ipotesi in cui una diversa qualificazione giuridica del fatto venga effettuata dal
giudice di appello senza che l’imputato abbia preventivamente avuto modo di
interloquire sul punto, la garanzia del contraddittorio resta, comunque, assicurata
dalla possibilità di contestare la diversa definizione mediante il ricorso per
cassazione e che (Sez. 6, n. 22301 del 24/05/2012, Saviolo, Rv. 254055),
oltretutto, non viola il principio di correlazione tra accusa e sentenza la
riqualificazione giuridica del fatto operata per la prima volta dal giudice di secondo
grado, qualora l’imputato sia stato in grado di contestarla in sede di ricorso per

contraddittorio, come accade per le questioni di rilievo meramente giuridico.
3.5.5. Sulla linea ermeneutica tracciata dalle pronunce evocate si è attestata
la sentenza a Sezioni Unite n. 31617 del 26/06/2015, Lucci, Rv. 264438, cui si
deve l’affermazione del principio di diritto secondo cui: «L’attribuzione all’esito
del giudizio di appello, pur in assenza di una richiesta del pubblico ministero, al
fatto contestato di una qualificazione giuridica diversa da quella enunciata
nell’imputazione non determina la violazione dell’art. 521 cod. proc. pen., neanche
per effetto di una lettura della disposizione alla luce dell’art. 111, comma 2, Cost.
e dell’art. 6 CEDU, come interpretato dalla Corte europea, qualora la nuova
definizione del reato fosse nota o comunque prevedibile per l’imputato e non
determini in concreto una lesione dei diritti della difesa derivante dai profili di
novità che da quel mutamento scaturiscono>>.
In tale autorevole arresto, per un verso, si è osservato come, nel caso
sottoposto al proprio scrutinio, il motivo relativo alla legittimità della
riqualificazione officiosa nella sentenza di appello del fatto contestato fosse privo
del requisito della specificità, in quanto il ricorrente non aveva prospettato alcuna
concreta emergenza alla stregua della quale poter apprezzare che la censurata
riqualificazione dei fatti avesse in qualche modo vulnerato la sua difesa e,
soprattutto, l’esercizio del diritto alla prova; per altro verso, come, anche nel
merito, la doglianza non fosse fondata, essendosi ricordato come la giurisprudenza
della Corte di Strasburgo avesse rilevato la violazione dei parametri convenzionali
nelle sole ipotesi in cui la riqualificazione dell’addebito avesse assunto le
caratteristiche di atto a sorpresa e non anche in quelli in cui i fatti costitutivi del
nuovo reato fossero già presenti nella originaria imputazione: e ciò anche nella
ipotesi in cui la nuova definizione giuridica non fosse stata di per sé prevedibile
per l’imputato. Si è, quindi, concluso nel senso che, secondo la impostazione
tutt’altro che formalistica della Corte di Strasburgo, la violazione del diritto di
difesa e di quello al contraddittorio sono apprezzabili solo allorché abbiano
comportato: «un concreto e non meramente ipotetico regresso sul piano dei
25

cassazione senza subire alcuna compressione o limitazione del proprio diritto al

diritti difensivi, attraverso un mutamento della cornice accusatoria che abbia
effettivamente comportato una novazione dei termini dell’addebito tali da rendere
la difesa menomata proprio sui profili di novità che da quel mutamento sono
scaturiti» .
3.5.6. Sul tema oggetto di specifica devoluzione nel caso all’esame del
Collegio, da parte di questa Corte, con la sentenza Sez. 5, n. 2712 del 14/09/2016
– dep. 20/01/2017, Seddone e altro, Rv. 268864, si è affermato che non sussiste
la violazione del principio di correlazione, ex art. 521 cod. proc. pen., qualora,

sentenza l’ipotesi aggravata del reato di falso in atto pubblico, ex art. 476, comma
2, cod. proc. pen., purché la natura fidefaciente dell’atto considerato falso sia stata
chiaramente indicata “in fatto” ed emerga inequivocamente dalla tipologia dell’atto
oggetto del falso.
Nella menzionata pronuncia – nella quale si è ribadito che, in tema di reato di
falso ideologico in atto pubblico, ai fini della configurabilità della circostanza
aggravante prevista dall’art. 476, comma 2, cod. pen, vengono in rilievo i
documenti dotati di fede privilegiata, che sono solo quelli emessi dal pubblico
ufficiale investito di una speciale potestà documentatrice, attribuita da una legge
o da norme regolamentari, anche interne, ovvero desumibili dal sistema, in forza
della quale l’atto assume una presunzione di verità assoluta, ossia di massima
certezza eliminabile solo con l’accoglimento della querela di falso o con sentenza
penale e che attestino quanto dal pubblico ufficiale fatto e rilevato o avvenuto in
sua presenza, ovvero quanto da lui attestato in relazione a constatazioni o
accertamenti che era in sua facoltà e nella sua discrezionalità eseguire (Sez. 5, n.
39682 del 04/05/2016, Franchi, Rv. 267790; Sez. 5, n. 8358 del 05/02/2016, Giri,
Rv. 266068; Sez. 5, n. 15951 del 16/01/2015, Bandettini e altri, Rv. 263265; Sez.
1, n. 37097 del 21/09/2011, Confl. comp. in proc.Targhetto e altro, Rv. 250832)
– un peso decisivo, ai fini della conoscibilità della fidefacienza dell’atto pubblico
ideologicamente falso, è stato, in effetti, assegnato alle modalità di descrizione
della condotta tenuta dal soggetto, posto che per la contestazione degli

‘accidentalia delicti’ non è necessaria una formula specifica ovvero l’indicazione
della norma di legge di riferimento, ma è considerata sufficiente la chiara e precisa
enunciazione “in fatto” dei relativi elementi integrativi, trovandosi l’imputato nelle
condizioni di espletare pienamente la propria difesa ove di questi abbia avuto
completa cognizione.
Il principio di diritto evocato costituisce, peraltro, l’approdo dell’orientamento
interpretativo, affermatosi come maggioritario in seno alla giurisprudenza di
legittimità, secondo il quale può essere ritenuta in sentenza dal giudice la
26

ancorché non formalmente contestata nel capo di imputazione, sia ritenuta in

fattispecie aggravata del reato di falso in atto pubblico, ex art. 476, comma 2,
cod. pen., qualora la natura fidefaciente dell’atto considerato falso, pur non
esplicitamente contestata nel capo di imputazione, sia stata indicata chiaramente
“in fatto” ed emerga inequivocamente dalla tipologia dell’atto oggetto del falso
(Sez. 5, n. 38931 del 02/04/2015, Maida, Rv. 265501; Sez. 5, n. 38085 del
05/07/2012, Luperi e altri, Rv. 253544, non massimata sul punto): tanto in
applicazione del canone secondo cui, ai fini della contestazione di una circostanza
aggravante, non è indispensabile una formula specifica espressa con sua

essendo sufficiente che l’imputato sia stato posto nelle condizioni di espletare
pienamente la propria difesa sugli elementi di fatto integranti l’aggravante (Sez.
2, n. 14651 del 10/01/2013, P.G. in proc. Chatbi, Rv. 255793; Sez. 6, n. 40283
del 28/09/2012, P.G. in proc. Diaji, Rv. 253776; Sez. 2, n. 47863 del 28/10/2003,
Ruggio, Rv. 227076)
La contestazione in fatto dell’aggravante in parola risulta, peraltro, decisiva
anche per superare l’orientamento giurisprudenziale, apparentemente
contrastante, secondo il quale non può essere ritenuta in sentenza dal giudice la
fattispecie aggravata del reato di falso in atto pubblico, ex art. 476, comma 2,
cod. pen., qualora la natura fidefaciente dell’atto considerato falso non sia stata
esplicitamente contestata ed esposta nel capo di imputazione, ovvero indicata in
fatto con sinonimi e formule equivalenti o attraverso il richiamo all’art. 476,
comma 2, cod. pen., sussistendo, altrimenti, violazione irrimediabile del diritto di
difesa dell’imputato sotto il profilo del suo diritto ad essere informato
tempestivamente e dettagliatamente tanto dei fatti materiali posti a suo carico,
quanto della qualificazione giuridica ad essi attribuiti (Sez. 3, n. 6809 del
08/10/2014 – dep. 17/02/2015, P.G. in proc. Sauro e altri, Rv. 262550; Sez. 5, n.
12213 del 13/02/2014, Amoroso e altri, Rv. 260209). Nei casi presi in
considerazione nelle sentenze espressive del citato divisamento – entrambe
anteriori alla sentenza Sez. U, n. 31617/15, Lucci -, infatti, o la natura fidefaciente
dell’atto non era stata nemmeno indicata “in fatto”, con l’uso di sinonimi o con il
ricorso a formule verbali equivalenti, trattandosi di una contestazione
oggettivamente criptica che non aveva adeguatamente esplicitato la sussistenza
della aggravante de qua, oppure non era neppure configurabile in diritto l’ipotesi
aggravata, vertendosi certamente in materia di atto pubblico (un attestato di
conformità emesso dal responsabile dell’ufficio tecnico comunale), ma non
destinato a far fede sino a querela di falso (Sez. 5, n. 1489 del 18/12/1991 – dep.
12/02/1992, Morroni, Rv. 189107).

27

enunciazione letterale, né l’indicazione della disposizione di legge che la prevede,

3.5.7. Così delineato lo stato dell’arte della giurisprudenza di legittimità in
materia, deve riconoscersi che il calibro delle deduzioni e dei rilievi cui i ricorrenti
hanno affidato le loro ragioni di censura in ordine alla denunciata lesione del diritto
di difesa è di natura prettamente teorica.
Non risultano, infatti, specificamente dedotti i concreti pregiudizi da loro subiti
nella predisposizione della strategia difensiva, essendosi enunciati in termini del
tutto generici gli effetti negativi suscettibili di riflettersi sulla posizione
dell’imputato per effetto della ‘ipotizzata’ riqualificazione nella sentenza di appello

sanzionatoria, garanzie difensive (riti alternativi e diritto alla prova) e
prescrizione>>, rispettivamente alla pagina 9 del ricorso Monagheddu e alla
pagina 31 del ricorso di Di Tria.
Giova, altresì, sottolineare che, per quel che emerge dalle difese espletate,
ad essere dedotte al cospetto del giudice di secondo grado sarebbero state,
piuttosto, questioni di natura eminentemente giuridica, quali quelle relative alla
sussumibilità degli atti pubblici descritti nelle singole imputazioni nella categoria
degli atti fidefacienti; questioni la cui sede di elezione è, invero, proprio il giudizio
di legittimità, nel quale, in effetti, sono state articolate, come dimostrato dal
tenore dell’undicesimo motivo del ricorso Monagheddu, senza, quindi, possibilità
di soffrire veruna ricaduta negativa sulla esplicazione in concreto della linea
difensiva. Diversamente si sarebbe potuto opinare se i ricorrenti avessero
prospettato la preclusione all’attivazione di uno specifico incombente probatorio,
possibile solo nei gradi di merito e non anche nel giudizio di legittimità.
Del resto l’esclusione di un concreto pregiudizio difensivo deriva, nel caso di
specie, dalla stessa consistenza della riqualificazione giuridica del fatto operata dal
giudice di appello, con il passaggio dalla fattispecie base di cui all’art. 479 cod.
pen. alla fattispecie aggravata, di cui al combinato disposto con l’art. 476, comma
2, cod. pen., perché tale da non determinare alcuno sviluppo imprevedibile
dell’accusa o un esito a sorpresa del processo, posto che, come affermato da
autorevole dottrina, la natura dell’atto pubblico non incide sull’offesa in sé arrecata
al bene giuridico tutelato (la fede pubblica), ma richiede esclusivamente una
protezione più intensa dello stesso in ragione della sua particolare efficacia
probatoria.
3.6. Con l’undicesimo motivo di ricorso, Monagheddu ritiene la violazione
dell’art. 479 cod. pen. e il vizio di motivazione, in relazione al reato contestato al
capo k) riguardante la falsità ideologica commessa nel verbale di arresto redatto
a carico di Bottino Giovanni e nel verbale della perquisizione compiuta nei confronti
di questi, nella parte in cui si attestava di averlo tro ■,fto in possesso di sostanza
28

della originaria contestazione: così testualmente nei ricorsi «…dosimetria

stupefacente in esito ad ‘un controllo occasionale’, tale circostanza costituendo
solo la premessa delle attività compiute in occasione dell’arresto e della
perquisizione, le sole suscettibili di essere documentate con forza probante
privilegiata.
A suffragio del proprio assunto invoca alcuni approdi della giurisprudenza di
questa Corte secondo i quali:«Il verbale di arresto documenta, con validità
probatoria, esclusivamente l’attività svolta dalla polizia giudiziaria in occasione
dell’atto coercitivo, ma non anche le attività di indagine antecedenti pur se

conseguenza che le risultanze di queste sono utilizzabili a fini di prova solo se
asseverate da documentazione autonoma nelle forme di legge (Sez. 1, n. 23311
del 24/02/2015, Mauro e altri, Rv. 263604)
Osserva, tuttavia, il Collegio che tutti gli atti di polizia giudiziaria costituenti
oggetto materiale dei delitti di falsità ideologica di cui ai capi F, K, R e W sono
pacificamente atti pubblici fidafacienti, perché redatti da pubblici ufficiali dotati di
una speciale potestà documentatrice attribuita dalla legge, in forza della quale gli
stessi assumono una presunzione di verità assoluta quanto ai fatti attestati come
avvenuti alla loro presenza o da loro compiuti.
Tali sono stati riconosciuti, infatti, le relazioni di servizio formate dagli ufficiali
od agenti di polizia giudiziaria, poiché destinate ad attestare che il pubblico ufficiale
ha espletato una certa attività, o che determinate circostanze sono cadute nella
sua diretta percezione (Sez. 5, n. 50082 del 29/09/2017, P.G. in proc. Spada, Rv.
271625; Sez. 5, n. 38085 del 05/07/2012, Luperi e altri, Rv. 253543; Sez. 5, n.
8252 del 15/01/2010, Bassi e altro, Rv. 246157; Sez. 5, n. 3557 del 31/10/2007
– dep. 23/01/2008, D’Alba e altro, Rv. 238908; Sez. 5, n. 3942 del 11/10/2002 dep. 28/01/2003, Marino e altri, Rv. 226983; Sez. 5, n. 11497 del 04/11/1993,
Buraccini e altri, Rv. 195779); il verbale di arresto in flagranza (Sez. 5, n. 38085
del 05/07/2012, Luperi e altri, Rv. 253544); il processo verbale di sequestro
redatto da un ufficiale di polizia giudiziaria nell’esercizio delle sue funzioni di
accertamento e di assicurazione del corpo del reato, posto che la compilazione di
tale atto costituisce manifestazione del potere di documentazione fidefaciente
espressamente attribuito all’ufficiale di polizia giudiziaria (Sez. 5, n. 798 del
24/11/1983 – dep. 31/01/1984, Savarese, Rv. 162423).
Tanto evidenziato, deve rilevarsi che la deduzione sviluppata nel motivo in
esame è manifestamente infondata, alla stregua dell’indicazione direttiva
formulata da questa Corte a mente della quale: «La sottoscrizione del verbale di
arresto, in mancanza di adeguate specificazioni, attribuisce a ciascuno dei
sottoscrittori l’attestazione della veridicità delle indicazioni ivi contenute, sia
29

richiamate e riassunte nella parte giustificativa del verbale medesimo, con la

quanto all’operato di ciascuno, sia quanto ai fatti verificatisi e percepiti come
giustificativi dell’esecuzione dell’attività di polizia giudiziaria ivi documentata»
(Sez. 5, n. 38085 del 05/07/2012, Luperi e altri, Rv. 253544). Nella menzionata
decisione si è, infatti, spiegato (a pag. 144, punto 20, ricorsi Caldarozzi – Ferri,
che: « …il pubblico ufficiale che sottoscrive (il verbale di arresto) si assume la
paternità non solo della decisione, ma anche della corrispondenza al vero della
parte espositiva dei fatti giustificativi della decisione», posto che «… il pubblico
ufficiale non può esimersi da responsabilità con il riferimento all’aver appreso da

d’arresto, per la sua natura di atto che documenta un’attività della polizia
giudiziaria sfociata nell’adozione di una misura precautelare sottoposta a precise
condizioni di validità, deve necessariamente contenere anche l’esposizione del fatti
che, percepiti dal pubblico ufficiale che ha operato l’arresto, l’hanno messo nelle
condizioni di eseguire l’atto di privazione della libertà personale e, trattandosi della
narrazione di azioni del pubblico ufficiale o di fatti caduti sotto la sua diretta
percezione, costituisce attestazione della veridicità di quanto oggetto di
verbalizzazione, facente fede fino a impugnazione di falso, quale documento
probatorio precostituito a garanzia della pubblica fede e formato “da un pubblico
ufficiale nel legittimo esercizio di una speciale funzione pubblica di attestazione,
munita di una particolare capacità probatoria rispetto ai fatti compiuti dal pubblico
ufficiale o avvenuti in sua presenza, quale manifestazione del potere di
documentazione fidefaciente espressamente attribuito all’ufficiale di polizia
giudiziaria ai sensi del combinato disposto degli artt. 55 e 357 cod.proc.pen. (Sez.
1, n. 39292 del 23/09/2008, Letizia e altri, Rv. 241128».
4. In ragione delle argomentazioni che precedono: la sentenza impugnata
deve essere annullata senza rinvio con rifermento alla posizione di Monagheddu
Domenico limitatamente ai reati sub D) e M) perché estinti per prescrizione, con
eliminazione della relativa pena nella misura di complessivi giorni trenta di
reclusione; mentre il ricorso dello stesso imputato deve essere dichiarato
inammissibile nel resto; il ricorso di Di Tria Nicola deve essere dichiarato, con
condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e della somma
di Euro 2.000,00 in favore della cassa delle ammende.
Monagheddu Domenico va, inoltre, condannato alla rifusione delle spese in
favore delle parti civili Vidonis e Conte liquidate in Euro 1.500,00 per ciascuna
parte, oltre ad accessori come per legge.

P.Q.M

30

altri elementi di fatto a base della deliberazione». Questo perché: «… il verbale

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata con rifermento alla posizione di
Monagheddu Domenico limitatamente ai reati sub D) e M) perché estinti per
prescrizione ed elimina la relativa pena di complessivi giorni trenta di reclusione.
Dichiara inammissibile nel resto il ricorso del suddetto imputato.
Dichiara, altresì, inammissibile il ricorso di Di Tria Nicola, che condanna al
pagamento delle spese del procedimento e della somma di Euro 2.000,00 in favore
della Cassa delle ammende.
Condanna inoltre Monagheddu alla rifusione delle spese in favore delle parti

accessori come per legge.

Così deciso il 26/02/2018.

Il Consigliere estensore

civili, Vidonis e Conte liquidate in Euro 1.500,00 per ciascuna parte, oltre ad

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