Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 19349 del 21/09/2016


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Penale Sent. Sez. 1 Num. 19349 Anno 2017
Presidente: VECCHIO MASSIMO
Relatore: MANCUSO LUIGI FABRIZIO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
ROMANI MASSIMO N. IL 04/08/1963
avverso l’ordinanza n. 1/2015 CORTE APPELLO di ROMA, del
23/06/2015
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. LUIGI FABRIZIO
MANCUSO;
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Data Udienza: 21/09/2016

Letta la requisitoria del Pubblico ministero, in persona del dott.
Oscar Cedrangolo, Sostituto Procuratore generale della Repubblica presso
questa Corte, il quale ha concluso chiedendo la declaratoria di
inammissibilità del ricorso, con la condanna del ricorrente al pagamento
delle spese processuali e di una somma in favore della cassa delle
ammende.

1. Con sentenza emessa il 29 aprile 2010, la Corte provinciale di
Chiangrai, Tailandia, condannava Romani Massimo alla pena di anni
quaranta di reclusione, in relazione al reato di detenzione finalizzata alla
cessione di grammi 1265,15 di sostanza stupefacente del tipo eroina.

2. La Corte di appello di Roma riconosceva la sentenza straniera di
condanna con sentenza del 29 ottobre 2013, qualificando il fatto come
reato previsto dagli artt. 73, comma 1-bis, aggravato ai sensi dell’art. 80,
comma 2, d.P.R. 309 del 1990. La pena veniva determinata in anni trenta
di reclusione in applicazione dell’art. 735, comma 2, terzo periodo, cod.
proc. pen., in forza del quale la quantità della sanzione va stabilita, in tali
ipotesi, sulla base di quella fissata nella sentenza straniera, ma senza
eccedere il limite massimo previsto per lo stesso fatto dalla legge italiana.

3. Il Romani chiedeva alla Corte di appello di Roma la nuova
determinazione della pena, sostenendo che, sulla scorta dei criteri fissati
dalla giurisprudenza di legittimità, il reato cui la condanna si riferiva non
poteva essere qualificato come aggravato e che, pertanto, doveva tenersi
conto del più basso limite edittale previsto dalla legge italiana.

4. La Corte di appello di Roma, nel rigettare l’istanza con ordinanza
del 23 giugno 2015, notava che – pur prescindendo dal rilevare come in
sede di riconoscimento della sentenza straniera il giudice nazionale sia
tenuto a determinare la pena in misura corrispondente a quella già
irrogata, con il limite sopra ricordato – la sentenza della stessa Corte del
29 ottobre 2013, recante il riconoscimento, era ormai divenuta esecutiva
il 4 dicembre 2013, con la conseguente intangibilità della qualificazione del
fatto come reato previsto dagli artt. 73, comma 1-bis, aggravato ai sensi
dell’art. 80, comma 2, d.P.R. 309 del 1990.

2

RITENUTO IN FATTO

5. L’avv. Giuseppe Madia, difensore del Romani, ha proposto ricorso
per cassazione datato 14 dicembre 2015, deducendo che il giudice del
merito, con ordinanza viziata nella motivazione, aveva ritenuto
erroneamente di non poter entrare nel merito della contestazione, per un
presunto giudicato che, invece, era stato già disatteso in precedenza,
quando la pena irrogata in quaranta anni di reclusione dalla sentenza
straniera era stata ridotta in trenta anni di reclusione. L’ordinanza

che l’aggravante di cui all’art. 80 d.P.R. 309 del 1990 non avrebbe potuto
essere ritenuta in Italia, perché il reato commesso all’estero non
riguardava un ingente quantitativo di sostanza stupefacente.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è inammissibile per manifesta infondatezza e carenza
di specificità.
Per un verso, la Corte di appello di Roma ha correttamente
osservato che la qualificazione del fatto è ormai intangibile, essendo
divenuta esecutiva la sentenza di riconoscimento che si è pronunciata sul
punto, emessa dalla stessa Corte il 29 ottobre 2013.
Per altro verso, il ricorrente non si confronta con tale

ratio

decidendi, ma in modo non pertinente ripropone la questione ormai
preclusa riguardante la qualificazione del fatto e denuncia una presunta
violazione dell’art. 735 cod. proc. pen., la cui applicazione costituisce il
fondamento giuridico della sentenza recante il riconoscimento, non
dell’ordinanza in esame.

2. In conclusione, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile. Ai
sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., il ricorrente va condannato al
pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di euro
1.500,00 alla cassa delle ammende, non essendo dato escludere – alla
stregua del principio di diritto affermato da Corte cost. n. 186 del 2000 la

sussistenza

della

ipotesi

della

dell’impugnazione.

3

colpa

nella

proposizione

impugnata ha violato l’art. 735 cod. proc. pen., non avendo tenuto conto

P. Q. M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al
pagamento delle spese processuali e della somma di € 1.500,00 alla cassa
delle ammende.

Così deciso in Roma, 21 settembre 2016.

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