Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 19320 del 13/05/2016


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Penale Sent. Sez. 1 Num. 19320 Anno 2017
Presidente: VECCHIO MASSIMO
Relatore: MINCHELLA ANTONIO

SENTENZA
Sul ricorso proposto da:

SOZA INTRIAGO Luis Alfredo, nato in Ecuador il 18.02.1986;

Avverso la sentenza emessa in data 10.02.2014 dalla Corte di Assise di Appello di
Genova;

Udita la relazione svolta dal Consigliere dott. Antonio Minchella;

Sentite le conclusioni del Procuratore Generale, in persona del dott. Maria Giuseppina
Fodaroni, il quale ha chiesto il rigetto del ricorso;

Udito il difensore di parte civile Avv. Elena Fiorini, che ha chiesto il rigetto del ricorso;

Udito il difensore Avv. Alessandro Famularo, che ha insistito per l’accoglimento dei
motivi di ricorso;

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Data Udienza: 13/05/2016

RILEVATO IN FATTO
§ 1. Con sentenza in data 10.02.2014 la Corte di Assise di Genova condannava
Soza Intriago Luis Alfredo alla pena dell’ergastolo con isolamento diurno per mesi nove
per duplice omicidio. Si legge in sentenza che, nel tardo pomeriggio del 05.12.2011
venivano rinvenuti, in un appartamento di Genova, i cadaveri di Monica Gilce Guerrero
e del figlio tredicenne Kleiner Ramirez Gilce: il marito della donna, rientrando in casa,

giudiziaria, che giungeva e constatava la presenza dei corpi; verificato che nessuno
era entrato nel locale in cui vi erano i cadaveri, veniva chiesto l’intervento di un
reparto del RIS Carabinieri; da una ciocca di capelli in terra, un orecchino sul
pavimento ed uno scarponcino della donna si deduceva che vi era stata colluttazione;
al contrario, l’assenza di ogni traccia del genere faceva concludere che il ragazzo era
stato ucciso, poco dopo la madre, con estrema rapidità.
Il medico legale constatava che la donna aveva lottato e che era stata colpita con
violenza e più volte sul viso, tanto che il naso era frantumato; indi l’omicida si era
accanito con un coltello colpendola almeno dieci volte in regioni parietali, in regione
mandibolare, al collo ed alla scapola destra; alcune contusioni sulla donna
presentavano un aspetto figurato, a stampo, del tipo di quelli lasciati da anelli
particolari o a tirapugni. Il ragazzo doveva essere stato ucciso poco dopo la madre,
poiché il suo corpo era parzialmente sovrapposto a quello della donna: era stato
attinto da 18 coltellate violente da tergo; non vi era stato sgozzamento e l’assenza di
lesioni da difesa faceva comprendere che era stato aggredito alle spalle ed a sorpresa.
In considerazione del rigor cadaverico l’ora della morte era stata fissata tra le ore
13.30 e le ore 14.30.
Il sopralluogo evidenziava che nella cucina vi era traccia di un pasto ancora in fase
di preparazione; in più punti della casa i mobili erano a soqquadro, i cassetti erano
aperti e rovistati, una sedia era stata sfondata probabilmente da qualcuno che vi era
salito sopra. Le impronte papillari rinvenute non consentivano alcuna identificazione;
venivano però constatate diverse impronte di scarpe di una sola persona che aveva
calpestato il sangue della prima vittima: erano impronte caratterizzate dalla
tassellatura in gomma detta “a carrarmato”, tipica di anfibi o di scarpe da trekking; la
presenza di quelle tracce ematiche stava a significare che la scarpa era venuta a
contatto con il sangue ancora fluido, per cui ciò era avvenuto ad omicidio appena
consumato: e poiché nessun altro era entrato in quella stanza, le impronte potevano
essere state lasciate solo dall’assassino.
Si presentava di interesse il rinvenimento di una bottiglietta di acqua minerale da
mezzo litro, di marca Alpi Cozie, poiché quel tipo di acqua non risultava essere
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aveva visto i cadaveri ed aveva immediatamente chiesto l’intervento della polizia

consumata dalla famiglia della donna. Non vi erano segni di effrazione sulla porta, per
cui si deduceva che la donna aveva aperto all’omicida e l’aveva fatto entrare poiché lo
conosceva; il disordine appariva quasi una messa in scena più che una vera ricerca di
qualcosa di valore; in ogni caso, mancava solo un braccialetto della donna, ma non
erano stati presi altri oggetti.
Le indagini escludevano da subito un coinvolgimento del marito, poiché era stato
accertato che aveva lavorato per l’intero giorno; parimenti, il figlio più grande si
trovava in Ecuador da circa venti giorni; sì ipotizzò il coinvolgimento di un magrebino

La donna era rientrata in casa alle ore 13.00 circa dal lavoro; il figlio era uscito da
scuola alle ore 13.40 e, considerato il breve tragitto, si riteneva che doveva essere
arrivato a casa alle ore 13.50 circa. Nessun vicino di casa aveva sentito alcunché:
tuttavia, un vicino, tale Giubilo Gianluca, riferì di aver visto, per qualche istante, un
uomo dalle finestre della cucina delle vittime in orario compatibile con quello
dell’omicidio; tuttavia aveva reso dichiarazioni diverse e descrizioni non sempre
coincidenti e non aveva individuato nessuno su album fotografici, tanto che la sua
dichiarazione era ammantata da perplessità.
Erano stati acquisiti i profili genetici dei congiunti che frequentavano la casa delle
vittime: così, si appurava che, sulla bottiglia di acqua minerale rinvenute a terra e non
appartenente alle vittime, vi era una profilo genotipico maschile con affinità genetica a
quella di Soza Luis Edoardo, cognato della sorella della donna uccisa; di conseguenza,
la polizia giudiziaria acquisiva campioni salivari dei parenti di costui e si accertava con
certezza assoluta che il DNA presente sul collo della bottiglia era di Soza Intriago Luis
Alfredo, attuale imputato.
Rilevava il giudice che i tabulati del telefono cellulare del Soza evidenziavano che
egli si trovava sul luogo dell’omicidio in orario compatibile con il crimine; in
quell’orario, contrariamente alle sue abitudini, egli non contattò per circa un’ora la sua
fidanzata. Ed ancora, erano state reperite fotografie dell’imputato da Facebook
risalenti al Natale 2011 e in esse egli portava alla mano destra un anello vistoso,
recante un segmento in metallo e due semisfere sovrapposte, compatibile con le
particolari lesioni riscontrate sul viso della donna uccisa (che infatti erano due
ecchimosi di forma circolare distanziate tra di loro); ed ancora, il suo datore di lavoro
ricordava che egli portava, in quel periodo, degli scarponi modello Timberland, con la
caratteristica tassellatura in gomma, come le impronte rinvenute sul luogo
dell’omicidio (l’anello e le scarpe non vennero mai rinvenuti, tanto che si ipotizzò che
egli se ne fosse disfatto non appena le indagini iniziarono a stringersi attorno a lui).
Oltre a ciò, il giudice esaminava dettagliatamente le versioni difensive dell’imputato, il
quale aveva reso dichiarazioni via via più dense di particolari, ma che,
sostanzialmente, tendevano ad affermare che egli, il giorno dell’omicidio, era stato al

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che era stato inquilino della famiglia, ma non risultò nulla di rilevante a suo carico.

cantiere dove svolgeva lavoro (che era poco distante dal luogo del delitto),
allontanandosi soltanto verso la tarda mattinata e poi tornandovi dopo pranzo poiché
aveva dovuto recarsi in una agenzia per seguire la sua pratica di regolarizzazione del
soggiorno in Italia: ma questa versione era stata seccamente smentita dal datore di
lavoro, il quale rammentava che quel giorno il Soza non si era recato al lavoro, tanto
che lui lo aveva contattato per chiamarlo, ma senza esito. In ordine alla presenza della
bottiglia con il suo DNA nella casa dei delitti, egli aveva narrato che, dopo essere
andato via dal cantiere, aveva incontrato un conoscente cui aveva venduto della

cui aveva bevuto: poi, mentre tornava al cantiere, la donna uccisa – che egli
conosceva per essere il fratello del cognato della sorella di lei – lo aveva chiamato
dalla finestra, chiedendogli di entrare in casa, dove gli avrebbe chiesto un aiuto per
spostare un mobile; sosteneva che in quella casa vi era già un altro uomo, che era un
nordafricano e che appariva seccato per la sua presenza; inoltre aveva avvertito la
presenza di qualcun altro che stava spostando mobili in un’altra stanza; così egli si
sarebbe scusato per non poter restare ed avrebbe lasciato nella casa la bottiglietta,
che la donna si era offerta di trattenere per gettarla via; così, dopo 4/6 minuti sarebbe
andato via per tornare al cantiere, dove però rimase poco; nella serata avrebbe
raccontato alla madre il suo incontro con la donna, senza fare cenno allo sconosciuto;
costui veniva descritto come di circa 35-40 anni, con capelli corti e ricci ed una
evidente cicatrice sulla guancia.
Il giudice riteneva inattendibile questo racconto, sulla base della smentita del
datore di lavoro, di molti particolari che non collimavano (circa gli orari dell’agenzia cui
si era rivolto, circa la richiesta di aiuto della donna la quale aveva già un altro ospite
che poteva aiutarla, circa altre contraddizioni o aggiustamenti sulle telefonate
effettuate, circa un’azione predatoria che ella stava subendo ma che non aveva fatto
trapelare in alcun modo, circa la descrizione dell’individuo che sembrava corrispondere
all’affittuario dei Ramirez ma che egli non aveva saputo riconoscere in fotografia), del
suo possesso di scarponi del tipo che lasciano le impronte ritrovate vicino ai corpi,
nonché delle lesioni particolari che corrispondevano al suo anello (di cui non sapeva
dire la sorte finale). Si prendeva atto che era stato cercato un qualche segno di
autolesione, che sovente viene rilevato nei casi di omicidio con arma bianca: ma le
testimonianze su una fasciatura alla mano che egli portava nel periodo successivo
all’omicidio non erano state concordi. Parimenti si prendeva atto che la difesa
dell’imputato aveva molto insistito sulla testimonianza del Giubilo, che avrebbe visto
appunto uno sconosciuto nella casa della donna alle ore 13.00 di quel giorno: ma,
considerate le discordanze tra le varie deposizioni del teste, le sue incertezze e
l’estrema difficoltà di credere che egli avesse potuto scorgere persino il colore degli
occhi di quell’individuo guardandolo per un solo attimo a circa 18 metri di distanza, si
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sostanza stupefacente; in un bar aveva comprato la bottiglietta di acqua minerale, da

concludeva per la inattendibilità del teste stesso, anche perché sembrava inconciliabile
che, nel breve tempo intercorso tra il ritorno dal lavoro e l’omicidio, la vittima avesse
potuto ricevere visite e contestualmente preparare il pranzo che ancora era stato
trovato dagli inquirenti. Ed ancora, si attribuiva il mazzo di chiavi rinvenuto a terra
nella casa del delitto al ragazzo ucciso, il quale aveva proprie chiavi e che era
evidentemente rientrato a casa, aveva visto la madre morta ed era stato colpito alle
spalle ed ucciso a sua volta; le chiavi della donna erano ancora nella sua borsetta.
Quando nel settembre 2012 egli venne chiamato dai Carabinieri per il prelievo del

comunicava di avere programmato il ritorno in Ecuador e di stare raccogliendo il
danaro per il viaggio.
Quanto al movente, quello dell’uccisione del ragazzo era evidentemente riposto
nell’esigenza di eliminare un testimone sopraggiunto a casa; circa l’uccisione della
donna, non era mai stato chiarito: si ipotizzava che forse il figlio maggiore era un suo
possibile cliente nell’acquisto di sostanze stupefacenti, ma non risultava provato; forse
egli aveva chiesto alla donna del danaro e la discussione era degenerata e forse egli
aveva poi messo in disordine la casa per far pensare ad un furto o ad una rapina, e la
sedia rotta faceva pensare che egli cercasse qualcosa (forse la cassaforte in cui i
Ramirez conservavano del danaro.) Veniva negato il riconoscimento delle circostanze
attenuanti generiche.
§ 2. Avverso detta sentenza interponeva appello l’imputato, chiedendo l’assoluzione
e in subordine il riconoscimento delle attenuanti generiche nonché chiedendo la
parziale rinnovazione istruttoria in ordine a perizie sull’ora di morte delle vittime, su
conversazioni telefoniche, e acquisizioni documentali.
Con sentenza in data 20.03.2015 la Corte di Assise di Appello di Genova
confermava la condanna: riteneva il giudice che il complesso dei dati oggettivi non
consentisse una ricostruzione alternativa dei fatti e respingeva le richieste difensive di
nuova istruttoria dibattimentale. I punti fermi accertati venivano così indicati: la donna
era stata uccisa prima del ragazzo e dapprima era stata aggredita a mani nude e poi
con il coltello, con il quale invece era stato esclusivamente colpito il ragazzo; le suole
delle scarpe del ragazzo erano sporche di sangue mentre quelle della donna ne erano
prive: pertanto, tutto doveva essere iniziato con un litigio poi degenerato in
aggressione a mani nude contro la donna, colpita a calci sul tronco quando era in
terra, indi afferrata per la testa e trascinata e, infine, ripetutamente colpita con il
coltello afferrato dal tavolo della cucina dopo essere stata trainata sino ad una
cameretta dove avveniva l’omicidio, per come attestato dalla copiosa quantità di
sangue ivi rinvenuta; il ragazzo doveva di lì a poco essere rientrato da scuola ed era
stato accoltellato subito, tanto che ancora indossava il suo piumino e che era caduto
parzialmente sul corpo della madre; gli omicidi erano stati compiuti tra le ore 13.30 e

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campione salivare, si registrò una sua telefonata alla madre con la quale egli

le ore 13.55: ciò perché la donna era rientrata in casa poco dopo le ore 13.00 ed
aveva preparato il pranzo (la pasta cotta era stata trovata ancora nello scolapasta) ed
il ragazzo era uscito da scuola alle ore 13.40.
Così si respingevano i dubbi difensivi circa l’accertamento dell’ora della morte:
scriveva il giudice che il mancato rilevamento della temperatura dei corpi con
termometro tanatologico non avrebbe offerto dati significativi, considerata la copiosa
perdita di sangue e gli abiti indossati; al contrario, la rigidità cadaverica constatata era
idonea a fissare con sufficiente precisione l’evento morte, al pari della scarsa

in casa, del fatto che nessuna delle vittima aveva ancora pranzato, degli alimenti
trovati abbandonati e degli orari di cui si è detto. Parimenti il giudice rilevava che
l’imputato aveva avuto tutto il tempo di commettere i delitti e poi di ritrovarsi in altro
luogo qualche minuto dopo, per come le risultanze oggettivamente indicavano, e che
era del tutto neutro il fatto che sul coltello non vi erano tracce dell’imputato, poiché in
letteratura medico-scientifica esistevano molti casi di accoltellatori che non si erano
feriti nella loro azione. Quanto alla testimonianza del Giubilo, egli era stato in casa
dalle ore 13.17 alle ore 13.50, ma l’omicida era uscito certamente dopo le ore 13.50
per cui era compatibile il fatto che egli non lo aveva visto: circa la sua dichiarazione, il
giudice condivideva la valutazione di totale inattendibilità per la difformità dei racconti,
non conciliabili tra di loro (dapprima aveva parlato di un uomo con pelle olivastra e
capelli lunghi, mai visto prima; indi di un uomo con barba incolta e capelli corti; indi,
di un uomo che era certo di avere già visto e incontrato nell’androne del palazzo; in
ogni caso, precisava di averlo visto per pochi istanti e da lontano alle ore 13.00 circa,
il che escludeva l’imputato, che risultava aver fatto una telefonata alla madre tra le
ore 13.15 e le ore 13.24; ma anche questi particolari erano stati mutati più volte dal
teste). La Corte di Assise di Appello respingeva anche la richiesta di sentire due vicini
di casa che erano nel palazzo all’ora accertata della morte ma non avevano udito
nulla: ciò perché, considerata l’impossibilità di collocare in orario diverso le uccisioni,
quelle dichiarazioni non avrebbero aggiunto nulla, anche perché le lesioni riscontrate
sul viso della donna uccisa erano di tale entità da far supporre che la vittima fosse
stata subito tramortita senza poter urlare. La Difesa dell’imputato aveva anche
attaccato l’attendibilità della testimonianza resa dal datore di lavoro, affermando che
questi avesse mentito più volte poiché aveva detto di non avere avuto contatti
telefonici con la moglie nel giorno dell’omicidio ed era stato smentito dai relativi
tabulati; si affermava l’inverosimiglianza della sua dichiarazione di avere appreso
dell’omicidio solo il giorno dopo, dalla figlia che gestiva un bar nelle vicinanze della
casa delle vittime; si rilevava che il cellulare del Soza aveva agganciato la cella del
cantiere la mattina degli omicidi e ciò smentirebbe la dichiarazione secondo cui egli
non era andato al lavoro; il giudice rilevava che certamente nella deposizione vi erano

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comprimibilità delle macchie ipostatiche, del grado di coagulazione del sangue trovato

state imprecisioni, anche dovute al tempo trascorso e che evidentemente il teste non
voleva essere coinvolto nei fatti in alcun modo, ma non era emerso dalle indagini alcun
elemento che lo potesse realmente coinvolgere e che quindi lo potesse indurre a
dichiarare il falso contro l’imputato: il suo tentativo di tenere fuori la moglie era
risultato dovuto a questioni attinenti alla loro separazione né era così inverosimile che
avesse saputo dei fatti solo il giorno dopo; peraltro notava il giudice che la genuinità
essenziale del teste era confermata da una telefonata intercettata tra lui e la moglie il
12.11.2012 (tre giorni dopo l’arresto del Soza): in essa lui le diceva di ricordare bene

rammentava il particolare che quegli si era giustificato dicendo che doveva seguire la
sua pratica relativa al permesso di soggiorno. Peraltro, il giorno degli omicidi il Soza
aveva telefonato al datore di lavoro alle ore 07.56, 09.31 e 12.36 per cui ciò faceva
arguire che i due non si trovavano insieme: e poiché quel giorno tutte le telefonate del
datore di lavoro provenivano dalla cella del cantiere, era il Soza a non trovarsi sul
luogo stesso per come anche dimostrato dal fatto che egli, nella fascia oraria in cui
sostiene di avere lavorato, aveva effettuato 28 contatti telefonici di cui ben 21
provenienti da celle diverse da quella del cantiere. Quanto alle dichiarazioni
dell’imputato, si riteneva inverosimile che egli avesse fissato un appuntamento per la
cessione di sostanza stupefacente in luogo così distante da dove egli la custodiva, per
cui si traeva la convinzione che ciò serviva soltanto a giustificare la sua presenza nei
pressi della casa delle vittime; parimenti, egli aveva detto che anche il suo acquirente
aveva bevuto dalla bottiglietta di acqua minerale di marca “Alpi Cozie”, ma sul reperto
vi era soltanto il profilo genetico dell’imputato. Ed ancora, si riteneva inverosimile
anche il racconto della richiesta della donna uccisa di farlo salire a casa: se realmente
vi era un altro uomo in quella casa non si comprendeva perché ella avesse chiamato il
Soza per spostare un mobile; e se invece si adombrava che l’uomo in casa fosse una
minaccia predatoria, non si comprendeva perché le avesse permesso di chiamare un
estraneo; e se la chiamata fosse stata una richiesta di aiuto non si comprendeva
perché ella non avesse trasmesso messaggi anche criptici; pertanto, l’unica
spiegazione possibile era quella di una giustificazione della sua presenza in casa,
attestata dal profilo genetico sulla bottiglia. A ciò si aggiungeva il protratto silenzio
telefonico in quella fascia oraria, contrario alle sue abitudini; ed ancora, le lesioni della
donna, compatibili con il suo anello raffigurato nelle fotografie dell’epoca; ed ancora, le
impronte di scarponi sulla scena dei delitti, compatibili con quelle di scarponi che
usava in quel periodo, ricordati come del tipo caterpillar della Timberland, gli unici che
era risultato a lasciare impronte perfettamente coincidenti con quelle dell’omicida
(scarponi ed anello scomparsi dopo i fatti). Il giudice respingeva l’ipotesi difensiva di
un uso omicida di un controller della Playstation trovato sul luogo del delitto con due
manopole circolari e distanziate, sia perché un oggetto di plastica leggera non poteva
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che il giorno dell’omicidio l’imputato non era andato al lavoro e di ricordarlo perché

produrre simili lesioni sia perché ben difficilmente la forma dell’oggetto avrebbe
consentito il colpo con entrambe le manopole.
Altri elementi di contorno erano considerati la presenza del Soza alle ore 18.00 nei
pressi della casa delle vittime ed il viaggio che suo fratello Cristian aveva fatto alle ore
20.00 da Acqui Terme, per ragioni non chiarite (egli affermava di averlo fatto per
consolare un amico dal grave fatto delittuoso, ma le dichiarazioni erano infarcite da
menzogne disvelate dall’esame dei tabulati telefonici e dalle sue presenze in talune
celle); la Difesa del Soza aveva sostenuto che gli inquirenti non avessero cercato

elementi a carico di quegli e che non vi era alcuna sua traccia nel luogo del delitto.
Il movente non era stato individuato con certezza: forse tutto era nato da una
richiesta di danaro, come potrebbe attestare l’azione del rovistare in più punti della
casa. Ma questo dato non inficiava il valore oggettivo degli altri elementi.
Non si accoglieva la richiesta di riconoscimento delle circostanze attenuanti
generiche: l’incensuratezza non scalfiva il fatto che il Soza stesso aveva ammesso di
essere dedito allo spaccio di sostanze stupefacenti; gli omicidi erano stati brutali; la
sua indole era risultata violenta; non vi era stata alcuna resipiscenza.
Infine il giudice respingeva diversi motivi aggiunti, alcuni dei quali ribadivano
elementi su cui la motivazione si era già soffermata; sulla questione delle luci accese o
spente nell’appartamento e sull’azionamento o meno dell’interruttore generale, la
difesa del Soza aveva ipotizzato che qualcun altro avesse avuto accesso ai luoghi, ma
il giudice reputava detti elementi di poco rilievo e fondati su asserite contraddizioni
che erano facilmente spiegabili con la violenta emozione che il marito della donna
aveva avuto nel rientrare a casa e scoprire i cadaveri della moglie e del figlio;
parimenti si riteneva irrilevante che una teste avesse riferito che i figli della donna non
gradivano la pasta poiché ciò stesso dimostrava non che i fatti dovevano essersi svolti
in modo diverso ma che la vittima preparava la pasta per il figlio anche se questi non
la gradiva particolarmente.
§ 3. Avverso detta sentenza propone ricorso l’interessato a mezzo del suo difensore
avv. Alessandro Famularo, deducendo illogicità della motivazione, inosservanza di
norme in punto di processo indiziario e mancata assunzione di una prova decisiva. Si
ribadisce che l’intero processo è stato condizionato dal rinvenimento sul luogo dei fatti
di una bottiglietta con sopra il DNA dell’imputato, circostanza che ha precluso ulteriori
approfondimenti e che avrebbe determinato una motivazione apparente fondata su un
travisamento della prova; in primo luogo si attacca la determinazione dell’ora di morte
delle vittime: alle ore 14.19 il telefono del Soza agganciava la cella di piazza Montano
ma la fase precedente sarebbe stata viziata da una illogicità sull’ora del rientro a casa
del ragazzo Kleyner sia dalla mancata assunzione di una perizia medico-legale atta a
determinare la correttezza delle conclusioni del consulente tecnico del P.M. secondo il
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tracce dell’ex inquilino dei Ramirez, ma il giudice rilevava che invece non vi erano

quale la rigidità cadaverica faceva dedurre che la morte era avvenuta 10/12 ore prima
del sopralluogo delle ore 20.00 mentre le caratteristiche ipostatiche indicavano che
non erano ancora trascorse 8/10 ore; da qui discenderebbe l’illogicità di non aver
voluto disporre una perizia sul corretto operare di chi non aveva rilevato la
temperatura dei cadaveri con un termometro rettale, che sarebbe il più utile
indicatore, a differenza degli elementi valorizzati dalla sentenza: il grado di
coagulazione del sangue non aggiunge nulla poiché è notorio che il sangue si essicchi
molto rapidamente; gli orari di ritorno a casa della donna e del ragazzo nulla

vittime avesse pranzato; si conclude che il presupposto della unica ipotesi possibile
dell’ora della morte aveva condizionato ogni altro apprezzamento e si sostiene che il
presupposto era stato condizionato indebitamente ad un fotogramma di una
telecamera di sicurezza nel quale si era creduto di riconoscere il ragazzo Kleyner alle
ore 13.53, ma che era stato dimostrato come erroneo per cui il giudice aveva
sostituito la falsa certezza con un argomento deduttivo tratto dall’orario di uscita dalla
scuola e dal tempo occorrente per giungere a casa, ma in realtà non vi sarebbe alcuna
prova che il ragazzo sia giunto a casa prima delle ore 14.00: pertanto in ciò vi sarebbe
un travisamento della prova che in realtà non sarebbe che una deduzione. Altro
elemento contrario sarebbe il fatto che nessun vicino di casa aveva udito rumori
provenire dall’appartamento delle vittime, ma detto elemento sarebbe stato
sottovalutato dal giudice a causa del solito presupposto iniziale e ciò sarebbe alla base
dell’argomento, soltanto congetturale, della violenza delle lesioni che avrebbero subito
tramortito la donna. Ma il giudice stesso aveva scritto che il tutto sarebbe sorto da un
litigio e che la donna aveva lottato e scalciato per cui sarebbe stato inverosimile
l’assenza di tonfi e di rumori; parimenti, si sostiene che i tempi indicati dalla sentenza
impugnata non avrebbero consentito all’imputato di procedere ai delitti, rovistare
nell’appartamento e trovarsi in piazza Montano entro le ore 14.19, considerato che
forse egli avrebbe dovuto pulirsi dal sangue giacchè nessuno era stato visto
allontanarsi con gli abiti sporchi. Si attacca la valutazione di totale inattendibilità del
teste Giubilo: si sostiene che la discrasie tra le sue differenti dichiarazioni furono
dovute anche al fatto che le prime di esse furono raccolte frettolosamente, quasi
nell’immediatezza della scoperta dei corpi, e che egli temeva ritorsioni sulla sua
persona, mentre si afferma che altre differenze erano dovute per lo più a forzature del
giudice; peraltro egli era stato molto preciso nell’indicare nelle ore 13.00 il momento
in cui vide lo sconosciuto nella casa delle vittime e questa sua precisione avrebbe
dovuto essere valorizzata anche quando egli ha riferito che tra le ore 13.17 e le ore
13.50 aveva effettuato diversi spostamenti dalla sua abitazione all’androne del palazzo
senza vedere alcuno né udire grida: sul punto il giudice nulla aveva detto, preferendo
ritenere come di pura fantasia quella testimonianza ed ignorando che le immagini delle

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potrebbero dire circa l’ora della loro morte, come anche il fatto che nessuna delle

telecamere attestavano la presenza del Giubilo negli orari anzidetti. Di seguito si
sostiene che il giudice aveva errato nel sostenere che i delitti non erano avvenuti con
le luci accese, circostanza che avrebbe fatto spostare l’ora dei delitti stessi poiché non
avrebbe avuto senso agire poco prima delle ore 14.00 con le luci accese: lo si
affermava poiché la prima videoripresa della stanza dove erano i corpi mostrava le luci
accese e sul punto non vi era chiarezza nelle deposizioni, ma il giudice non aveva
voluto considerare questo dato poiché era contrastante con la ricostruzione oraria
degli omicidi. Altro punto errato sarebbe quello di aver ritenuto come indiziante il

delitti: ma si sarebbe trascurato il fatto che i contatti erano per lo più provenienti dalla
fidanzata la quale aveva riferito che in quell’orario non le era stato possibile chiamarlo
per ragioni di lavoro nonché il fatto che anche in altri giorni esisteva un vuoto analogo,
poiché l’utilizzo del telefono è differente a seconda delle diverse fasce orarie, a
prescindere dalla totale connotazione neutra di una simile fattore. Ed ancora, si
sostiene che la deposizione del datore di lavoro del Soza sia stata menzognera in più
punti, tanto che lo stesso giudice aveva rilevato che egli voleva tirarsi fuori da quella
vicenda: pur tuttavia questo elemento non era stato considerato adeguatamente come
fattore di inattendibilità; le telefonate intercettate dimostrerebbero che il racconto del
Perez è frutto di una ricostruzione a posteriori finalizzata ad allontanare da sé la figura
del Soza; il giudice avrebbe ignorato le deduzioni difensive circa l’inverosimiglianza
che quegli avesse appreso degli omicidi il giorno dopo i fatti o circa l’orario solito in cui
egli smetteva di lavorare, pur a fronte di un fatto indiscusso e cioè che il Perez aveva
mentito sugli asseriti mancati contatti con la moglie, che invece vi erano stati ma che
la Corte territoriale aveva voluto intendere come segno di non voler coinvolgere il
coniuge con il quale era in atto una non semplice separazione; in sostanza, il giudice
aveva utilizzato un criterio circolare di valutazione di attendibilità, accantonando
forzosamente gli elementi di discrasia; parimenti quel teste aveva detto che la mattina
degli omicidi il Soza lo aveva chiamato per dirgli che non sarebbe andato al lavoro, e il
giudice ne aveva tratto conferma del fatto che evidentemente l’imputato non era in
cantiere, ma non aveva considerato che la difesa dello stesso aveva dimostrato che
era molto frequente la telefonata tra i due nelle prime ore del mattino, per cui non si
trattava affatto di una circostanza insolita; parimenti sarebbe stato errato il ritenere
che il Soza non era andato al lavoro quel giorno dal fatto che un contatto telefonico
con il Perez era avvenuto da un settore diverso della stessa cella, poiché ciò era stato
spiegato dall’imputato con il fatto che egli doveva trasportare materiale dal cantiere in
appartamento al piano strada per cui la telefonata sarebbe avvenuto durante uno di
questi spostamenti: la Corte territoriale aveva invece ritenuto che la telefonata
avvenisse da una diversa cella invece che da un diverso settore della stessa cella. Si
contesta che la presenza o l’assenza in un luogo possa desumersi dal numero di
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vuoto di comunicazioni telefoniche dell’imputato nell’orario individuato come quello dei

contatti telefonici, se esso non è coordinato con il dato del periodo di tempo in cui
sono effettuati, al pari del fatto che il giudice interpreta la collocazione al lavoro del
Perez sulla base della collocazione del telefono cellulare mentre per il Soza interpreta
lo stesso dato come indicativo della presenza nel quartiere e non nel cantiere,
ammettendo illogicamente che egli non sia rimasto in cantiere ma si sia spostato
continuamente. Altro elemento di illogicità sarebbe riposto nel non voler credere al
Soza quando egli afferma che, nel pomeriggio dei fatti, era tornato al cantiere ma il
Perez lo aveva congedato non avendo bisogno di lui; il Perez aveva detto che quegli

credibilità del Perez, e, dall’altro, il fatto che quel congedo non sarebbe stato
determinato dal poco bisogno di aiuto bensì dalla mancata regolarizzazione lavorativa
del Soza: peraltro il Perez avrebbe mentito anche sul fatto di averlo richiamato verso
le ore 14.30, poiché i tabulati smentiscono questo assunto in quanto l’ultimo contatto
vi era stato alle ore 12.36. In ordine alle dichiarazioni del Soza, il giudice le aveva
ritenute erroneamente non credibili: in primo luogo, egli aveva detto di non avere
avuto alcuna ferita alle mani e ciò era risultato come riscontrato; in secondo luogo,
egli aveva detto che vi era uno sconosciuto nella casa delle vittime ed il teste Giubilo
confermava questo particolare; in terzo luogo, la compatibilità delle ferite sul viso della
donna con l’anello del Soza si basava soltanto su fotografie estratte da facebook,
senza alcun riscontro certo e basandosi sul fatto di non aver voluto credere al racconto
del Soza circa l’aver perduto quell’anello né di aver voluto approfondire la ragione
della presenza di un joystick nella stanza dove erano i corpi; in quarto luogo, si erano
attribuito al Soza l’origine delle impronte degli scarponcini, senza che vi fosse mai
stata una consulenza tecnica diretta a chiarire il numero di scarpa dell’omicida o un
vero dettaglio delle suole: ma il Perez soltanto ricordava che il Soza indossasse (anche
dopo l’omicidio) un simile paio di scarpe mentre un altro lavorante lo avrebbe
ricordato sempre con scarpe bianche da ginnastica e comunque anche il Perez aveva
parlato solo di scarponcini somiglianti a quelli indicati dalle orme lasciate; la Corte di
Assise di Appello era caduta in errore indicando nel modello Timberland le uniche
calzature lascianti quel tipo di impronta quando invece non era mai stata effettuata
una analisi tecnica su detta impronte, fuorviata dal fatto che il Soza aveva dichiarato
di avere avuto anni prima un paio di scarponcini di quel tipo, senza però che avesse
mai detto di avere avuto scarponcini eguali a quelli, ma solo simili. Altre considerazioni
riguardano il presunto scopo del viaggio del fratello del Soza a Genova quella sera
stessa, interpretato arbitrariamente come connesso ad una sorta di confessione del
delitto, elemento che sarebbe del tutto congetturale e privo di qualsiasi riscontro;
nonché la presenza del Soza nei pressi dell’abitazione delle vittime poco dopo le ore
18.00: ciò sarebbe stato considerato anomalo mentre, in realtà, la difesa aveva
dimostrato che egli era uscito dalla sua abitazione per recarsi dalla fidanzata e nel
11

non era affatto tornato ma il giudice non avrebbe considerato, da un lato, la poca

percorso ordinario il suo telefono aveva necessariamente agganciato la cella del luogo
del delitto, poiché essa copriva parte del territorio da attraversare: in ogni caso una
simile circostanza era priva di significanza e contraddittoria con la convinzione del
giudice per cui il fratello si sarebbe ivi recato per raccogliere informazioni. Infine si
attacca lo scarso interesse del giudice per ipotesi alternative (come quella dell’ex
inquilino dei Ramirez, sul quale gli accertamenti erano stati lacunosi o come quella del
marito della donna, che era stato confuso e contraddittorio sulla chiave con la quale
era stata aperta la porta della stanza in cui erano i cadaveri).

essa si contesta vibratamente l’assunto difensivo di una tesi pregiudiziale che avrebbe
oscurato l’intera istruttoria successiva; si fa notare che si è in presenza di una doppia
conforme e che il giudice di appello ha elencato tutti i punti fermi della decisione di
primo grado, entrando nel merito e giustificando punto per punto tutti gli elementi
indizianti, scriminandoli dai fattori scarsamente rilevanti, sui quali si sarebbe invece
appuntata l’attenzione della difesa dell’imputato; il giudice di appello avrebbe
compiutamente spiegato le ragioni della impossibilità di attribuire credito alla
testimonianza del Giubilo così come spiega le ragioni per cui le imprecisioni e
discordanze del Perez investono aspetti non decisivi, per i quali va considerato che egli
era stato sentito ad un anno circa dai fatti per cui alcuni aspetti potevano essere
offuscati, ma la valutazione di serietà era stata piena in ordine all’assenza del Soza dal
luogo di lavoro il giorno del duplice omicidio: da ciò era derivata la convinzione della
menzogna dell’imputato su detto punto e, a cascata, su molti altri. Pertanto si contesta
che il solo rinvenimento del DNA dell’imputato sulla bottiglietta avrebbe chiuso
l’indagine: in realtà, quello sarebbe stato solo il punto di partenza, attorno al quale si
erano raccolti molto altri elementi. Si nega che vi sia alcun error in iudicando, poiché
la Corte territoriale aveva dapprima valutato ogni singolo elemento indiziario in ordine
al requisito della precisione e poi aveba compiuto l’esame complessivo di concordanza
ed utilità; parimenti si reputa compiutamente motivata la decisione di non procedere
ad integrazione istruttoria sulla perizia medico-legale per l’ora dei decessi, ritenendo
conforme a scienza ed esperienza la metodologia utilizzata, la quale avrebbe poi
trovato riscontri in altri elementi che determinavano l’ora degli omicidi.

CONSIDERATO IN DIRITTO

§ 1. Il ricorso va rigettato poiché è infondato.
La vicenda processuale è già stata sintetizzata ed appare pleonastico ripercorrerla.
Il ricorso dell’imputato tende ad uno sminuzzamento dei singoli elementi indiziari
ed alla attribuzione ad essi di un significato alternativo. Ma giova chiarire subito che,
nel caso portato alla cognizione di questa Suprema Corte, ci si trova di fronte a due
12

È pervenuta memoria della difesa delle parti civili costituite avv Elena Fiorini: in

pronunzie, di primo e di secondo grado, che concordano nell’analisi e nella
valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle conformi rispettive
decisioni, con una struttura motivazionale della sentenza di appello che viene a
saldarsi perfettamente con quella precedente, sì da costituire un corpo
argomentativo uniforme e privo di lacune, in considerazione del fatto che entrambe
le pronunzie hanno offerto una congrua e ragionevole giustificazione del giudizio di
colpevolezza formulato nei confronti del ricorrente.
Discende da tale evenienza, secondo una linea interpretativa in questa Sede da

invalidato da prospettazioni alternative, risolventisi in una “mirata rilettura” degli
elementi di fatto posti a fondamento della decisione, ovvero nell’autonoma
assunzione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, da
preferirsi a quelli adottati dal giudice del merito, perché illustrati come maggiormente
plausibili, o perché assertivamente dotati di una migliore capacità esplicativa nel
contesto in cui la condotta delittuosa si è in concreto realizzata (Sez. 6, n.
22256/2006, Rv. 234148; Sez. 1, n. 42369/2006, Rv. 235507).
Nel caso di specie, l’adeguatezza delle ragioni giustificative illustrate
nell’impugnata sentenza non è stata validamente censurata dal ricorrente, limitatosi
a riproporre, per lo più, una serie di obiezioni già esaustivamente disattese dai
Giudici di merito ed a formulare critiche e rilievi sulle valutazioni espresse in ordine
alle risultanze offerte dal materiale probatorio sottoposto alla loro cognizione,
prospettandone, tuttavia, una diversa ed alternativa lettura in questa Sede, ma
evidentemente non assoggettabile ad alcun tipo di verifica, per quanto sopra
evidenziato.
In modo estremamente sintetico i numerosi motivi di doglianza possono essere
così enucleati: 1) mancata assunzione di una prova decisiva, individuata nella
mancata effettuazione di una perizia relativa all’accertamento dell’orario della morte
ed al corretto operare di chi aveva effettuato detto accertamento con modalità
ritenute non congrue; 2) violazione delle norme relative al corretto procedere sugli
elementi indiziari, con la specificazione che non si contesta una vera e propria
violazione della normativa, ma una esplicazione illogica delle conclusioni,
asseritamente contrastanti con gli elementi oggettivi raccolti.
Ma si tratta di doglianze che non possono trovare accoglimento.
§ 2. Per come detto, il ricorrente lamenta la mancata assunzione di una prova
decisiva indicata come una perizia tendente a dimostrare la non correttezza delle
procedure seguite per individuare l’ora del decesso delle vittime.
Tuttavia, è appena il caso di rilevare, come secondo l’insegnamento di questa
giurisprudenza di legittimità, deve ritenersi “prova decisiva”, ai sensi dell’art. 606,
comma 1 lett. d) cod.proc.pen., quella prova che, confrontata con le argomentazioni

13

tempo tracciata, che l’esito del giudizio di responsabilità non può certo essere

contenute nella motivazione, si riveli tale da dimostrare che, ove esperita, avrebbe
sicuramente determinato una diversa pronuncia (Sez. 2, n. 16354/2006, Rv.
234752; Sez. 6, n. 14916/2010, Rv. 246667), ovvero quella prova che, non assunta
o non valutata, vizia la sentenza intaccandone la struttura portante (Sez. 3, n.
27581/2010, Rv. 248105). Con riguardo al procedimento peritale, peraltro, questa
stessa Corte di legittimità ha già statuito il principio, consolidatosi nel tempo, in forza
del quale la perizia non può farsi rientrare nel concetto di prova decisiva, giacché la
sua disposizione, da parte del giudice, in quanto legata alla manifestazione di un

dell’articolo sopra menzionato (Sez. 5, n. 12027/1999, Rv. 214873 e successive
conformi fino a Cass., Sez. 4, n. 7444 del 17.01.2013,Rv. 236191).
Sul punto specifico, la Corte territoriale ha fornito una motivazione più che
adeguata alla individuazione del momento del decesso delle vittime: anche se non
era stato effettuato un controllo con il termometro tanatologico, è stato spiegato che
il mancato rilevamento della temperatura dei corpi non avrebbe offerto dati
significativi, considerata la copiosa perdita di sangue e gli abiti indossati; al contrario,
l’ora della morte delle vittime era stata individuata con congrua motivazione da una
serie di elementi: la rigidità cadaverica constatata e la scarsa comprimibilità delle
macchie ipostatiche, il grado di coagulazione del sangue trovato in casa, il fatto che
nessuna delle vittima aveva ancora pranzato nonché gli alimenti trovati cotti ma non
consumati (anzi, la pasta era ancora nello scolapasta, e da tutto ciò si traeva la
deduzione di eventi mortali avvenuti appunto nella tarda mattinata, a cavallo
dell’orario di uscita di scuola del figlio vittima dell’omicidio; soltanto ciò giustificava il
particolare appena menzionato, poiché era risultato che la donna era rientrata a casa
verso le ore 13.00 ed il ragazzo era uscito di scuola alle ore 13.40; l’individuazione
dell’arco di tempo dei due omicidi – non contestuali, ma ovviamente separati da un
lasso cronologico – nello spazio orario 13.00/13.55 era una conclusione del tutto
logica).
Si tratta di un percorso argomentativo che non rivela alcuna erroneità né illogicità:
ed esso trae riscontro dalle descrizioni del

rigor

cadaverico (elemento di

connotazione oggettiva) e dalle deduzioni da questo offerto.
Infine va accennato anche al fatto che il ricorrente accenna ad un travisamento
della prova nel quale sarebbe incorso il giudice di appello, laddove sarebbe stato
influenzato da un fotogramma che si riteneva ritraesse il figlio Kleiner che tornava da
scuola: il fotogramma, in realtà, non ritraeva il ragazzo e ciò avrebbe quindi inficiato
l’iter logico.
Orbene, occorre chiarire che si può apprezzare il travisamento della prova soltanto
nei casi in cui il giudice di merito abbia fondato il suo convincimento su una prova
che non esiste (ad esempio, il testimone indicato in sentenza non esiste) o su un

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giudizio di fatto, ove assistito da adeguata motivazione, è insindacabile ai sensi

risultato di prova incontestabilmente diverso da quello reale (ad esempio, il
testimone ha dichiarato qualcosa di diverso da quello rappresentato in sentenza
oppure nella ricognizione il soggetto ha “riconosciuto” persona diversa da quella
indicata in sentenza): ma, nella fattispecie, il fotogramma

de quo non è stato

utilizzato in sentenza, per cui non è possibile parlare di travisamento, giacchè da
esso non è stato tratto alcun convincimento rafforzativo.
§ 3. La successiva serie di doglianze del ricorrente – chiariti dunque i punti relativi
alla determinazione dell’ora della morte – riguardano, invece, la valutazione degli

legittimità sulla sentenza di merito.
Ai sensi di quanto disposto dall’art. 606, comma 1, lett. e) cod.proc.pen., il
controllo di legittimità sulla motivazione non concerne ne’ la ricostruzione dei fatti ne’
l’apprezzamento del giudice di merito, ma è circoscritto alla verifica che il testo
dell’atto impugnato risponda a due requisiti che lo rendono insindacabile: 1)
l’esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo hanno determinato; 2)
l’assenza di illogicità evidenti, ossia la congruenza delle argomentazioni rispetto al
fine giustificativo del provvedimento. Con l’ulteriore precisazione che l’illogicità della
motivazione, come vizio denunciabile, deve essere evidente (“manifesta illogicità”),
cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu ()culi, dovendo il sindacato di
legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando
ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive
che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la
decisione adottata, purché siano spiegate in modo logico ed adeguato le ragioni del
convincimento (ex pluribus, Cass., Sez. 1^, 26 settembre 2003, Castellana ed altri).
Il sindacato demandato alla Corte di Cassazione deve limitarsi, per espressa volontà
del Legislatore, a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo, senza
possibilità di verifica della rispondenza della motivazione alle acquisizioni processuali
(cfr., ancora, puntualmente, Cass., Sez. 4^, 4 dicembre 2003, Cozzolino ed altri),
con l’ulteriore precisazione che il vizio della “manifesta illogicità” della motivazione
deve risultare dal testo del provvedimento impugnato, nel senso che il relativo
apprezzamento va effettuato considerando che la sentenza deve essere logica
“rispetto a sè stessa”, cioè rispetto agli atti processuali citati nella stessa ed alla
conseguente valutazione effettuata dal giudice di merito, che si presta a censura
soltanto se, appunto, manifestamente contrastante e incompatibile con i principi
della logica (Sez. 4, 2 dicembre 2004, Grado ed altri). Alla Corte di Cassazione,
infatti, non è consentito di procedere ad una rinnovata valutazione dei fatti magari
finalizzata, nella prospettiva del ricorrente, ad una ricostruzione dei medesimi in
termini diversi da quelli fatti propri dal giudice del merito. Così come non sembra
affatto consentito che, attraverso il richiamo agli “atti del processo”, possa esservi
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indizi. Non è inutile ricordare, in via preliminare, i rigorosi limiti del controllo di

spazio per una rivalutazione dell’apprezzamento del contenuto delle prove acquisite,
trattandosi di apprezzamento riservato in via esclusiva al giudice del merito. In altri
termini, al giudice di legittimità resta tuttora preclusa – in sede di controllo della
motivazione – la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o
l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei
fatti, preferiti a quelli adottati dal giudice del merito perché ritenuti maggiormente
plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa: un tale modo di procedere
trasformerebbe, infatti, la Corte nell’ennesimo giudice del fatto.

l’intero processo sarebbe stato condizionato dal rinvenimento sul luogo dei fatti di
una bottiglietta con sopra il DNA dell’imputato, circostanza questa che aveva
precluso ulteriori approfondimenti. Per verità, la Corte territoriale utilizza in modo
corretto il dato oggettivo del rinvenimento del DNA del ricorrente sopra un bottiglia
di acqua minerale presente nella casa delle vittime: si trattava di un tipo di acqua
minerale non usato nella famiglia delle vittime, per cui era conseguente il sospetto di
una connotazione estranea di quell’oggetto, e appunto quel dato ha condotto alla
individuazione dell’imputato ed alla sua ammissione di essere stato dentro
l’abitazione della donna uccisa nel giorno dell’omicidio. In questo utilizzo del dato
conoscitivo nulla appare illogico: la conseguenza di detto utilizzo è stata invece la
valutazione di illogicità dei racconti del ricorrente, il quale giustificava quel
rinvenimento con una narrazione ritenuta – ancora una volta in modo correttamente
motivato – come inverosimile. Né può affermarsi in alcun modo che la Corte
territoriale si sia basata esclusivamente – nell’affermazione della colpevolezza – sul
solo dato del DNA del ricorrente rinvenuto sulla bottiglietta: quel dato non è stato
altro che il principio di una concatenazione logica di deduzioni, e lo sforzo di
ricostruzione è stato sostenuto da più elementi di valutazione, quali l’esame delle
celle telefoniche agganciate dal telefono del Soza, la deposizione del suo datore di
lavoro, l’allocazione del cantiere presso il quale egli stava lavorando nel periodo
dell’omicidio, la forma di una particolare ferita sulla donna uccisa, le peculiari
impronte di scarpe trovate in casa, la conoscenza pregressa tra ricorrente e vittime e
la individuata ora delle uccisioni (sulla correttezza della quale si è già argomentato in
precedenza). Ne consegue che quell’elemento non era stato che un tassello di un più
vasto mosaico, mano a mano ricostruito, e che non corrisponde al vero che si è
trattato di un dato che avrebbe condizionato l’intero processo per essere l’unico
elemento conoscitivo a disposizione.
§ 3.2. La seconda doglianza consiste nell’asserzione secondo la quale il processo
sarebbe stato ulteriormente condizionato dalla individuazione di un orario di morte
delle vittime che, in sostanza, per essere posto come l’unico possibile, avrebbe poi
impedito ogni altro apprezzamento di ipotesi alternative. Si tratta, tuttavia, di una
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§ 3.1. La prima doglianza mossa è contenuta nell’asserzione secondo la quale

doglianza che nuovamente si esprime in termini di “condizionamento” del processo,
tale intendendo, però, la semplice raccolta di elementi rispetto al significato dei quali
il ricorrente muove perplessità: ma nuovamente va ripetuto che la valutazione di
fattori indiziari non corrisponde affatto ad un condizionamento bensì coincide con la
effettuazione di un percorso argomentativo che si dipana per fasi successive, con
esclusione di spiegazioni inverosimili, sino a pervenire, con motivazione logica, ad
una convergenza conclusiva.
Nella fattispecie, il giudice è pervenuto alla sua conclusione valutando la gravità

elevata probabilità di derivazione da essa del fatto ignoto), la precisione degli stessi
(requisito che attiene alla non equivocità dell’inferenza) e la loro concordanza
(requisito che qualifica il convergere verso l’identico risultato). Tra questi elementi vi
erano quelli indicativi del momento delle morte delle vittime ed appare di mera
fantasia l’affermazione del ricorrente secondo la quale l’orario di rientro a casa delle
vittime non era rilevante per la determinazione dell’ora della morte, così come non
sarebbe rilevante il fatto che le vittime non avevano mangiato (pur se il pasto era
stato preparato ed era ancora nello scolapasta). Al contrario, la Corte territoriale
bene evidenzia come il punto inevitabile di partenza per quella conclusione sia
appunto l’orario di rientro in casa delle vittime dalle rispettive occupazioni, correlato
agli altri elementi costituiti dalle operazioni di cottura del pranzo (la pasta era ancora
nello scolapasta) e dalla mancata consumazione del pranzo stesso; questo appunto
era il momento in cui si collocava la morte delle vittime e vi era convergenza con i
dati oggettivi di natura scientifica raccolti (sui quali si è già detto in precedenza).
Ancora una volta in questa concatenazione di deduzioni non si rinviene alcuna
illogicità.
§ 3.3. Di ancora minor rilievo appare la doglianza relativa alla mancata percezione
di rumori da parte dei vicini di casa: la spiegazione fornita dalla Corte territoriale
individua la causa di ciò in una iniziale lesione violenta a danno della donna, tale da
averla tramortita ed averle lasciato solo una debole capacità di difesa e reazione;
quanto all’uccisione del ragazzo, è evidente dalle ferite che si era trattato di una
aggressione mortale proditoria, tale da non lasciare spazio a reazioni. Il ricorrente
sostiene l’illo. icità manifesta di questa conclusione sostenendo invece che sarebbe

degli indizi (requisito che fa leva sulla capacità dell’evidenza nota di esprimere

stringente – che l’azione dell’assassino era stata silenziosa: si tratta di un dato che
non è possibile porre in discussione e che non appare di alcun reale rilievo nella
individuazione del momento delle uccisioni e, di conseguenza, nella individuazione
del colpevole; ed allora si mostra corretta la decisione della Corte territoriale di non
procedere alla escussione di testimoni che già avevano dichiarato di non avere
sentito alcunché, giacché la loro deposizione nulla avrebbe aggiunto e giacchè l’unico
modo per dare rilievo a queste deposizioni era spostare l’orario delle morti delle
vittime, ma ciò avrebbe contrastato con altri dati di sicuro significato (quali la pasta

si ravvisa alcuna manifesta illogicità nelle conclusioni né procedure illogiche nel
percorso argomentativo.
§ 3.4. La successiva doglianza concerne la valutazione di inattendibilità del
testimone Giubilo: ma la valutazione espressa dalla Corte territoriale non è
superficiale ed anzi approfondisce il tema, in tal modo mostrando di non avere
trascurato nessun aspetto delle deduzioni difensive.
Così, è stato specificato che l’omicida era uscito dalla casa delle vittime
certamente dopo le ore 13.50, (ora sino alla quale il Giubilo si era trattenuto in casa)
per cui non era inverosimile che egli non l’avesse visto uscire. Inoltre sono state
sottolineate le numerose discrasie della sua testimonianza e delle sue deposizioni:
l’uomo che egli asseriva di avere visto nella abitazione delle vittime era stato
descritto con fattezze del tutto diverse in differenti occasioni: dapprima aveva parlato
di un uomo con pelle olivastra e capelli lunghi, mai incontrato in precedenza;
successivamente aveva descritto, invece, un uomo con barba incolta e capelli corti;
ancora successivamente aveva parlato di un uomo che era certo di avere già visto e
incontrato nell’androne del palazzo, ma non era mi riuscito a riconoscere alcuno nelle
operazioni di individuazione fotografica. Ed ancora la Corte territoriale sottolineava
che il Giubilo aveva affermato di aver visto quell’individuo per pochi istanti e da
almeno diciotto metri di distanza, per cui appariva inverosimile che potesse avere
scorto una cicatrice su di una guancia ed il colore degli occhi.
La conclusione del giudice d’appello è correttamente motivata: le discrasie, le
incongruenze, le diversità di racconto, le incertezze nelle descrizioni, il mancato
riconoscimento di alcuno e la inverosimiglianza di diverse affermazioni sostengono in
modo logico la valutazione di inattendibilità e l’impossibilità di riporre un qualche
affidamento in deposizioni prive di un minimo di connotazione di coerenza. Tale
giudizio, peraltro, essendo di tipo fattuale, ossia di merito, può essere effettuato solo
attraverso la dialettica dibattimentale, mentre è precluso in sede di legittimità,
specialmente quando il giudice del merito abbia fornito una spiegazione plausibile
della sua analisi probatoria (Sez. 3, sent. n. 41282 del 05/10/2006, dep.
18/12/2006, Agnelli e altro, Rv. 235578). Invero, l’attendibilità di un teste è una
18

ancora scolata e non servita, nonché gli elementi di natura tanatologica). Quindi, non

questione di fatto, che ha la sua chiave di lettura nell’insieme di una motivazione
logica, che non può essere rivalutata in sede di legittimità, salvo che il giudice sia
incorso in manifeste contraddizioni (Sez. 2, n° 7667 del 29.01.2015, Rv 262575),
che, nel caso di specie, non vi sono.
§ 3.5. La successiva doglianza riveste i connotati di una valutazione in fatto: il
ricorrente lamenta il punto della mancata considerazione, da parte del giudice, di una
differente ora degli omicidi sulla base del dato delle luci accese nell’appartamento
che si scorgevano nella prima videoripresa della stanza. Ma si rivela priva di qualsiasi

ordine a chi avesse acceso le luci nell’appartamento (si ipotizza appunto, che forse
era stato il marito della donna uccisa, al suo rientro in casa qualche ora dopo,
giacchè sul punto egli non rammentava bene; o forse erano stati gli inquirenti): una
simile incertezza, secondo il giudice, non offriva dati attendibili e si scontrava con
una serie di elementi indiziari che, invece, avevano i caratteri della solidità e che
indicavano l’ora della morte in un momento del giorno in cui vi era ancora luce
naturale.
La conclusione non è né erronea né illogica.
§ 3.6. La censura ulteriore concerne una serie di argomenti, che vanno dalla
valutazione di attendibilità attribuita alla deposizione del datore di lavoro del
ricorrente sino alla valutazione di falsità dell’alibi fornito dal ricorrente medesimo.
Con riferimento alla deposizione del Perez, datore di lavoro del Soza, si sostiene in
ricorso che la sua deposizione era stata menzognera in più punti, che il suo racconto
era frutto di una ricostruzione a posteriori finalizzata ad allontanare da sé la figura
del Soza, che egli aveva mentito sugli asseriti mancati contatti con la moglie; si
contesta la sua affermazione secondo la quale il giorno degli omicidi il ricorrente non
si era recato al lavoro, così come si contesta che la mera allocazione dell’utenza
telefonica mobile possa far considerare come dimostrata la presenza del titolare in un
certo luogo.
Ma si tratta di doglianze tutte infondate: la Corte territoriale ha fornito una
motivazione dipanata logicamente in relazione a tutte le deduzioni difensive relative
alla valutazione di attendibilità del Perez. E va chiarito che questa valutazione è stata
il frutto di un esame obbiettivo della circostanze emerse dalla deposizione,
dall’esame dei tabulati telefonici e dal contenuto di conversazioni intercettate: così la
Corte territoriale evidenzia che nelle dichiarazioni del Perez non vi era affatto
mendacio, bensì soltanto la presenza di alcune imprecisioni, dovute anche al tempo
trascorso dai fatti; seppure si sottolinea che nel Perez vi fosse il desiderio di non
essere coinvolto nei fatti in alcun modo, tuttavia non era emerso dalle indagini alcun
elemento che lo potesse realmente coinvolgere e che quindi lo potesse indurre a
dichiarare il falso contro l’imputato: peraltro il giudice d’appello richiamava il
19

carattere di illogicità la conclusione del giudice fondata sulla mancanza di chiarezza in

contenuto di una telefonata intercettata tra il Perez e la moglie nel giorno
12.11.2012 (tre giorni dopo l’arresto del Soza), nel corso della quale egli le diceva di
ricordare bene che il giorno dell’omicidio l’imputato non era andato al lavoro e
precisava di ricordarlo perché rammentava il particolare che quegli si era giustificato
dicendo che doveva seguire la sua pratica relativa al permesso di soggiorno; da
questo dato il giudice inferiva una valutazione di genuinità, non potendosi ipotizzare
alcun mendacio in siffatta occasione. Ed ancora il giudice aveva ritenuto veritiero
quel racconto perchè il giorno degli omicidi il Soza aveva telefonato al datore di

due non si trovavano insieme: e poiché quel giorno tutte le telefonate del datore di
lavoro provenivano dalla cella del cantiere, era il Soza a non trovarsi sul luogo
stesso.
Da questa corretta conclusione il giudice ha fatto derivare una altrettanto corretta
deduzione ulteriore: l’alibi fornito dal Soza non era dunque un alibi fallito, bensì era
un alibi falso poiché il ricorrente aveva sostenuto di essersi recato al lavoro il giorno
degli omicidi e di avere effettuato diversi trasporti di materiale. Si tratta di una
conclusione conforme a giurisprudenza consolidata di questa Corte, che ha più volte
affermato che è pacifico il valore di indizio a carico dell’alibi falso, in quanto
sintomatico, a differenza di quello non provato, del tentativo dell’imputato di sottrarsi
all’accertamento della verità (Sez. 1, 11.2.2014, N. 18118, Rv. 261993; Sez. 5, n°
42576 del 03.06.2015, Rv 265148).
§ 3.7. L’ultima serie di doglianze del ricorrente riguarda aspetti particolari della
ricostruzione dei fatti: il ricorrente sostiene l’illogicità della conclusione relativa ad
una ferita particolare riscontrata sulla donna uccisa, e cioè che vi fosse compatibilità
piena con un peculiare anello (la cui forma corrispondeva pienamente a quella della
ferita) che si scorgeva distintamente in una fotografia del ricorrente tesso estratta da
facebook. Il giudice ha correttamente utilizzato questo dato: l’anello de quo non è
stato rinvenuto, ma non vi era dubbio circa il possesso dello stesso da parte del
ricorrente, attestato da un dato oggettivo quale è una fotografia e dalla dichiarazione
del medesimo Soza, che aveva ammesso di averlo avuto sostenendo di averlo, però,
perduto. Parimenti, questo dato rende corretta anche l’ulteriore conclusione che non
poteva essere stato un joystick (rinvenuto nella stanza ove erano i cadaveri) ad
avere provocato quella ferita, atteso che – per come sottolineato in sentenza – né il
materiale né la forma di detto oggetto trovavano corrispondenza con la lesione. Di
seguito si è censurata la conclusione relativa alla origine delle impronte degli
scarponcini rinvenute sul luogo dei delitti; ma il giudice di appello ha chiarito che la
particolare connotazione di queste suole restringeva il numero di possibili scarpe e
non corrisponde al vero quanto sostiene il ricorrente e cioè che il Perez ricordava
soltanto che il Soza indossasse (anche dopo l’omicidio) un simile paio di scarpe
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lavoro alle ore 07.56, alle ore 09.31 e alle ore 12.36 per cui ciò faceva arguire che i

mentre un altro lavorante lo avrebbe ricordato sempre con scarpe bianche da
ginnastica: in realtà si legge in sentenza che questa deposizione evidenzia che
all’epoca quel teste aveva parlato invece di scarpe modello caterpillar gialle, proprio
come le “Timberland” e nel processo ha anche riconosciuto detto modello, che è ben
diverso da scarpe da ginnastica; va poi detto che anche il Soza aveva dichiarato di
avere avuto un paio di scarponcini di quel tipo. Infine, l’ultima censura di rilievo
concerne l’asserito scarso interesse del giudice per ipotesi alternative: in realtà la
Corte territoriale ha preso in considerazione almeno due altre ipotesi omicidiarie, e

in sentenza non essere emerso alcun elemento a carico) e quella dell’omicidio ad
opera del marito della donna uccisa (ma si spiega in motivazione che egli era tornato
tardi a casa, e cioè alcune ore dopo gli omicidi).
Ed allora si deve concludere che la Corte territoriale ha correttamente dapprima
valutato ogni singolo elemento indiziario in ordine al requisito della precisione e poi
ha compiuto l’esame complessivo di concordanza ed utilità, eliminando i fattori
scarsamente rilevanti.
Ne consegue che il ricorso deve essere rigettato e che il ricorrente deve essere
condannato al pagamento delle spese processuali ex art. 616 cod.proc.pen. nonché
alla refusione, a favore delle parti civili, delle spese del presente giudizio, che liquida
per ciascuna di dette parti in € 1.440,00 oltre accessori come per legge, disponendo
il versamento all’Erario della spese liquidate a Ramirez Del Barco Marcos Ramon e a
Ramirez Gilce Jhon Gary, ammessi al patrocinio a spese dello Stato.

P.Q.M

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali
nonché alla refusione, a favore delle parti civili, delle spese del presente giudizio, che
liquida per ciascuna di dette parti in Euro millequattrocentoquaranta, oltre accessori
come per legge, disponendo il versamento all’Erario della spese liquidate a Ramirez
Del Barco Marcos Ramon e a Ramirez Gilce Anon Gary, ammessi al patrocinio a spese
dello Stato.

Così deciso in Roma, il 13 maggio 2016.

cioè quella di un ex inquilino della famiglia Ramirez (sul conto del quale si precisava

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