Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 1921 del 20/12/2013


Clicca qui per richiedere la rimozione dei dati personali dalla sentenza

Penale Sent. Sez. 4 Num. 1921 Anno 2014
Presidente: ZECCA GAETANINO
Relatore: IANNELLO EMILIO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
MANNINO CALOGERO N. IL 20/08/1939
avverso l’ordinanza n. 33/2011 CORTE APPELLO di PALERMO, del
30/03/2012
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. EMILIO IANNELLO;
lette/s9wite le conclusioni del PG Dott. 11 Givs.SCCOVA ifC0i4e0N1
.

at

Udit i jifenser-A-vv
c
.);

If‘ ? 4/1‘ 2.-C k 1.2

Data Udienza: 20/12/2013

Ritenuto in fatto

1. Con ordinanza del 17 maggio 2012 la Corte d’appello di Palermo rigettava
l’istanza di riparazione proposta da Calogero Mannino per l’ingiusta detenzione
sofferta dal 13/2/1995 al 14/11/1995, in regime di custodia cautelare in carcere,
e poi dal 15/11/1995 al 3/1/1997, agli arresti domiciliari, nell’ambito del
procedimento n. 1440/94 R.G. N.R. nel quale era indagato per i delitti di cui agli
artt. 110, 416 e 416 bis cod. pen. con l’accusa di concorso esterno prima in una

La Torre, nella associazione di stampo mafioso denominata “Cosa Nostra”:
procedimento conclusosi con sentenza di assoluzione

“perché i fatti non

sussistono” resa dal Tribunale di Palermo il 5/7/2001, confermata (dopo
l’annullamento con rinvio della sentenza della Corte d’appello di Palermo
dell’11/5/2004 che, in riforma della sentenza di primo grado, lo aveva invece
riconosciuto colpevole e condannato) con sentenza della corte territoriale in data
22/10/2008, divenuta irrevocabile il 14/1/2010 a seguito della decisione della
sesta sezione di questa Corte che dichiarava inammissibile il ricorso del
Procuratore Generale.
Secondo l’impostazione chiaramente esplicitata nell’ordinanza impugnata,
alla luce dei principi che regolano la materia pur essi compiutamente richiamati
in premessa, allo scopo di verificare se dagli atti emergano comportamenti
processuali o extraprocessuali dolosi o colposi, non esclusi dal giudice penale,
che possono essere posti in rapporto di causa-effetto con l’applicazione del
provvedimento custodiale, la corte d’appello passava in rassegna

«tutte le

condotte che nell’originaria impostazione accusatoria erano state ritenute
probanti sotto il profilo indiziario», giungendo ad una conclusione negativa (nel
senso cioè della impossibilità di desumere comportamenti dolosi o colposi
sinergici rispetto all’evento detenzione, in ragione delle considerazioni contenute
nelle sentenze di merito che quelle condotte portavano a ritenere in radice
insussistenti o non sufficientemente provate) per tutte tranne che per i rapporti
consapevolmente intrattenuti dal Mannino con il mafioso Vella.
Di questi traeva prova dalle considerazioni svolte al riguardo nella sentenza
di primo grado (che aveva infatti espresso il convincimento che il Mannino fosse
pienamente cosciente della caratura mafiosa del Vella e che nondimeno, per fini
elettorali, non ne disdegnasse la frequentazione): considerazioni che riteneva
pienamente utilizzabili ai fini della verifica predetta in quanto non contrastate
dalla sentenza d’appello, per essersi questa limitata ad esaminare altro e più
pregnante aspetto del tema d’accusa.
Posto invero che quest’ultimo era rappresentato dall’esistenza di un

associazione per delinquere e, poi, dopo l’entrata in vigore della legge Rognoni

presunto patto politico elettorale risalente al 1980/81 che il Mannino avrebbe
stipulato, tramite l’intermediazione di Antonio Vella, con Gioacchino Pennino,
esponente di spicco della mafia agrigentina, ed era basato sulle propalazioni del
predetto Pennino, successivamente divenuto collaboratore di giustizia dichiarazioni cui il tribunale aveva attribuito piena attendibilità, escludendo però
che la condotta del Mannino risultante dal compendio di tutti tali elementi
(conoscenza e frequentazione del Vella, incontro con il Pennino per la stipula del
patto) rientrasse nel paradigma criminoso del concorso esterno in associazione

una controprestazione, sia in ordine all’effettivo verificarsi di condotte
dell’imputato attuative di tale promessa – si osserva nell’ordinanza impugnata
che la sentenza assolutoria di secondo grado si è limitata ad esaminare il
racconto del Pennino con esclusivo riferimento al narrato del collaborante in sé e
per sé escludendone l’intrinseca attendibilità, ma ha omesso invece

«ogni

considerazione e valutazione del materiale probatorio riguardante i rapporti
Mannino-Vella».
Recependo pertanto le indicazioni al riguardo traibili della sentenza di primo
grado, che postulava coperte da giudicato, evidenziava sulla scorta di queste
che:
il Vella aveva inizialmente dichiarato di non conoscere l’onorevole Mannino
ma soltanto qualche esponente della sua segreteria;
vi era prova documentale dei rapporti personali tra il mafioso e il Mannino,
costituita dal possesso in capo al Vella di dieci numeri telefonici del politico
(ritrovati a seguito di perquisizione domiciliare) e relativi ad utenze, alcune delle
quali riservate, delle sue segreterie politiche (in Agrigento, Sciacca e Palermo),
degli uffici del ministero del Tesoro a Roma, delle abitazioni dei suoceri di
Palermo e Sciacca e delle abitazioni dei suoceri in Porto Empedocle (anche di
quella stagionale);
contestate tali emergenze, il Vella aveva quindi ammesso di conoscere
l’onorevole Mannino, di averlo incontrato, sia a Palermo che a Roma, di aver
avuto i numeri di telefono da un certo Attilio, addetto a qualcuna delle
segreterie, e che, tuttavia, gli incontri con il Mannino erano stati sempre
occasionali mentre lo stesso Vella si trovava in compagnia del suddetto Attilio e
che, forse, aveva venduto al Mannino qualche libro tramite la sua segreteria di
Palermo.
Il giudice della riparazione affermava quindi – con piena adesione alle
valutazioni al riguardo già espresse dal tribunale – che tali emergenze
giustificavano da sole, anche a prescindere dalle propalazioni del Pennino, il
convincimento che il Mannino fosse a conoscenza della caratura mafiosa del Vella

mafiosa per mancanza di prova sia in ordine alla concretezza della promessa di

e avesse con lui intrattenuto «un rapporto di natura elettorale: nulla di più e
nulla di meno», rilevando in particolare e tra l’altro che:
«il possesso da parte del Vella di tutti i numeri di telefono del Mannino,
persino di quelli più riservati o legati alla più intima sfera personale e familiare, è
dato già di per sé sufficiente a dimostrare che i rapporti tra i due erano talmente
intimi da permettere al mafioso di rintracciare in qualsiasi momento il politico,
ovunque egli si trovasse»;
non era credibile la tesi, sostenuta sia dal Vella che dal Mannino, che si

che «se così fosse stato … non si vede perché Vella, soggetto non proprio
sprovveduto, avrebbe dovuto negare di conoscere Mannino, giungendo, infine, a
ripescare l’argomento libri solo alla fine dell’interrogatorio e per di più in forma
dubitativa, quando ciò si sarebbe dovuto subito evidenziare nella sua mente
come commodus discessus di portata scriminante»; del resto, «se la vendita di
libri fosse stata l’unica causale giustificativa dei rapporti tra i due … il possesso di
dieci numeri di telefono avrebbe dovuto significare ed esprimere una tale
continua attività in detta relazione commerciale da non poter essere dimenticata
dal diretto interessato alla vendita, ove si consideri anche lo spessore della
personalità del Mannino, già deputato nazionale rispetto a quella di un oscuro ed
onesto venditore di enciclopedie in Agrigento»;
«appare del tutto inverosimile, proprio nell’indicata ultima prospettiva, che
Mannino (o … qualcuno della sua segreteria) avesse potuto fornire all’oscuro
libraio siciliano finanche il numero telefonico della casa di abitazione dei suoceri
in Porto Empedocle e, addirittura, quello della villa al mare»;
«il mafioso … aveva dichiarato di essersi occupato di politica e di avere
sostenuto Mannino, circostanza candidamente ammessa solo fino a quando si è
trattato di enunciarla senza implicare un rapporto di natura personale», ma una
volta contestategli le emergenze sopra ricordate

«Vella, contraddicendo se

stesso, si è guardato bene dal ribadire la causale elettorale come motivo del
possesso dei numeri telefonici dell’onorevole, sostenendo, prima, la natura
occasionale degli incontri avuti con il politico e, poi, l’ulteriore ragione lecita
attinente ai libri (che occasionale non era)»;
«non si vede come l’oscuro libraio si fosse addirittura avventurato, per sua
stessa ammissione, fino a Roma per incontrare Mannino al fine di vendergli
qualche pubblicazione enciclopedica nel palazzo sede della Democrazia Cristiana,
quando avrebbe potuto attendere più comodamente il suo illustre cliente in
Sicilia, facultato com’era a raggiungerlo, almeno telefonicamente, ovunque egli
dimorasse nell’isola»;
lo stesso Vella, alla fine, è stato costretto ad ammettere, a fronte delle dette

trattasse di rapporti occasionali legati alla vendita di materiale librario, atteso

specifiche contestazioni, che quei recapiti gli furono dati per ragioni di natura
elettorale ed in occasione di contatti dovuti a siffatte ragioni; per contro, il
Mannino «non ha saputo fornire una qualsivoglia plausibile giustificazione del
possesso da parte del Ve/la di tanti numeri di telefono, se non ipotizzare che la
ragione potesse risiedere nell’acquisto di qualche libro, giustificazione del tutto
incredibile, ove si tenga conto che riesce difficile credere che possono essere
forniti anche i numeri telefonici di Roma e che un politico così impegnato potesse
occuparsi, in quella sede, dell’acquisto di enciclopedie».

territoriale, il convincimento che il Mannino avesse consapevolmente intrattenuto
rapporti con il mafioso Vella per motivi elettorali e avesse, in particolare,
accettato che costui divenisse un suo procacciatore di voti, «con l’effetto di
ingenerare nella mafia agrigentina la convinzione che egli fosse soggetto
disponibile per gli interessi dell’organizzazione, tanto che numerosi collaboratori
di giustizia, in sede penale, hanno riferito di avere appreso, nell’ambito del
contesto associativo (all’interno del quale si era diffusa la voce) che costui fosse
un politico disponibile per gli interessi dell’organizzazione mafiosa, pur non
riferendo alcunché di specifico sull’argomento».
Donde la valutazione che «per un uomo politico di primo piano accettare
consapevolmente l’appoggio elettorale di un esponente di vertice
dell’associazione mafiosa e, a tal fine, dargli tutti i punti di riferimento per
rintracciarlo in qualsiasi momento, integra gli estremi della colpa grave e
costituisce, senza dubbio, condotta sinergica rispetto all’evento detenzione».

2. Avverso questa decisione il Mannino propone, per mezzo del proprio
difensore, ricorso per cassazione, denunciando vizio di motivazione e violazione
di legge con riferimento a due distinti profili.

2.1. Sotto il primo profilo censura l’ordinanza impugnata perché, in
contrasto con i principi consolidati nella giurisprudenza, pur assertivamente
rispettati, attribuirebbe rilievo ostativo a comportamenti esclusi dal giudice della
cognizione.
Rileva in tal senso che l’ordinanza compie una torsione del ragionamento
contenuto nella sentenza del giudice di secondo grado, giungendo ad una
conclusione che contrasta con l’accertamento in essa operato. Secondo il
ricorrente, infatti, la corte territoriale incorre in una incongruenza logica laddove,
«nello stesso momento in cui … prende atto che il capitolo dei presunti rapporti
con la mafia agrigentina … non consente di individuare comportamenti colposi …
rilevanti ex art. 314 c.p.p., … valorizza antagonisticamente un singolo tassello

Tutti tali elementi giustificavano, in conclusione, secondo la corte

del tema complessivo per riesumarne l’intera valenza probatoria e dedurne …
[l’esistenza di] …

rapporti, tramite Vella, con l’associazione criminale,

promettendo alla stessa favori non meglio specificati in cambio di appoggio
elettorale (il che equivale ad affermare né più e né meno che esiste un patto
elettorale, anche se non se ne conoscono i contenuti; ovvero una circostanza che
è stata categoricamente esclusa dal giudice del merito)».
Assume che tale operazione è viziata in quanto erroneamente postula che la
sentenza assolutoria di secondo grado abbia omesso di valutare il materiale

laddove in realtà essa ha semplicemente inglobato, del tutto ragionevolmente, il
tema nel più ampio e determinante contesto della verifica in ordine alla
sussistenza o meno del preteso patto elettorale. Argomenta al riguardo che,
posto che i presunti rapporti con Vella, anche nella prospettiva della sentenza del
tribunale di Palermo, assumono valenza non in sé ma in quanto costituiscono la
chiave di lettura dell’incontro con Pennino e «il suggello dell’aura mafiosa»
dell’ipotizzato accordo, e se dunque il ruolo di Vella era solo quello di garante
del patto, la necessità di sottoporre a verifica da parte della corte d’appello in
sede di cognizione penale tale ipotizzato rapporto non aveva ragione di esistere
una volta che l’ipotizzato patto, e l’incontro nel quale esso sarebbe stato
concluso, erano stati radicalmente esclusi.

2.2. Sotto altro profilo lamenta che l’ordinanza ha omesso di motivare
specificamente in ordine all’incidenza del comportamento gravemente colposo o
doloso ritenuto sussistente sulla determinazione della detenzione.
Rileva al riguardo che la decisione cautelare del G.I.P. poggiava su un
quadro indiziario, principalmente rappresentato dalle propalazioni del Pennino,
riguardante non i soli rapporti, comunque connotati, ma l’esistenza di un patto
che prevedeva da parte del politico un impegno preciso, che sarebbe stato
oggetto di verifica puntuale in dibattimento. Gli altri elementi erano stati già
oggetto di scrutinio in precedenti processi; in particolare il presunto rapporto con
Antonio Vella era stato analizzato nella sentenza del c.d. maxiprocesso alla mafia
agrigentina (interamente acquisita infatti al dibattimento del processo in
questione): l’ordinanza del G.I.P. non fa che rivalutarli alla luce delle
dichiarazioni del Pennino, costituenti la chiave di lettura dell’intero processo a
carico del ricorrente.

3. Il Ministero si è costituito chiedendo il rigetto del ricorso.
Il P.G. ha concluso per il rigetto.

probatorio relativo ai presunti rapporti fra esso ricorrente e Antonio Vella,

Considerato in diritto

4. Il ricorso è infondato.
Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, del resto
ampiamente e correttamente richiamata nell’ordinanza impugnata, in tema di
riparazione per ingiusta detenzione, al giudice del merito spetta, anzitutto, di
verificare se chi l’ha patita vi abbia dato causa, ovvero vi abbia concorso, con
dolo o colpa grave.

manifestarsi attraverso comportamenti concreti, precisamente individuati, che il
giudice di merito è tenuto ad apprezzare, in modo autonomo e completo, al fine
di stabilire, con valutazione ex ante, non se essi abbiano rilevanza penale, ma
solo se si siano posti come fattore condizionante rispetto all’emissione del
provvedimento di custodia cautelare.
A tal fine, egli deve prendere in esame tutti gli elementi probatori disponibili,
relativi alla condotta del soggetto, sia precedente che successiva alla perdita
della libertà, allo scopo di stabilire se tale condotta abbia determinato, ovvero
anche solo contribuito a determinare, la formazione di un quadro indiziario che
ha indotto all’adozione o alla conferma del provvedimento restrittivo.
In tale operazione il giudice della riparazione, come ripetutamente precisato
da questa Corte, ha certamente il potere/dovere di procedere ad autonoma
valutazione delle risultanze e di pervenire, eventualmente, a conclusioni
divergenti da quelle assunte dal giudice penale, nel senso che circostanze
oggettive accertate in sede penale, o le stesse dichiarazioni difensive
dell’imputato, valutate dal giudice della cognizione come semplici elementi di
sospetto, ed in quanto tali insufficienti a legittimare una pronuncia di condanna,
ben potrebbero essere considerate dal giudice della riparazione idonee ad
integrare la colpa grave ostativa al diritto all’equa riparazione.
Ciò con l’unico limite per cui, in sede di riparazione per ingiusta detenzione,
giammai può essere attribuita decisiva importanza, considerandole ostative al
diritto all’indennizzo, a condotte escluse dal giudice penale o a circostanze
relative alla condotta addebitata all’imputato con il capo di imputazione in ordine
alle quali sia stata riconosciuta l’estraneità dell’imputato stesso con la sentenza
di assoluzione (senza che possa avere rilievo se dalla sentenza emerga la prova
positiva di non colpevolezza o piuttosto soltanto l’insufficienza o la
contraddittorietà della prova: sul punto, Sez. 4, n. 1573 del 18/12/1993 – dep.
19/05/1994, Tinacci, Rv. 198491).
La condizione ostativa al riconoscimento del diritto all’indennizzo per
l’ingiusta detenzione rappresentata dall’aver dato causa, da parte del

Tale condizione, ostativa al riconoscimento del diritto all’indennizzo, deve

richiedente, all’ingiusta detenzione, deve dunque concretarsi in comportamenti
che non siano stati esclusi dal giudice della cognizione e che possono essere di
tipo extra-processuale (comportamenti caratterizzati da spiccata leggerezza o
macroscopica trascuratezza tali da porre in essere un meccanismo di
imputazione) o di tipo processuale (come un’autoincolpazione, un silenzio
cosciente su di un alibi, età): e sugli elementi costitutivi della colpa grave così
determinati, il giudice è tenuto sia ad indicare gli specifici comportamenti
addebitabili all’interessato, sia a motivare in che modo tali comportamenti

Peraltro, mette conto anche sottolineare che una condotta sinergica
all’evento detenzione ben può essere desunta, in via di principio generale, anche
da dichiarazioni testimoniali o fonti di altro tipo descrittive di tale condotta,
purché ritualmente acquisite e ritenute attendibili in relazione alla condotta
descritta, a prescindere poi dall’esito del vaglio del giudice della cognizione ai fini
della idoneità della condotta dell’imputato, così accertata, a legittimare una
sentenza di condanna.
Posto, dunque, che il dolo o la colpa grave idonei ad escludere l’indennizzo
per ingiusta detenzione devono sostanziarsi in comportamenti specifici che
abbiano “dato causa” all’instaurazione dello stato privativo della libertà o abbiano
“concorso a darvi causa” – sicché è ineludibile l’accertamento del rapporto
causale, eziologico, tra tali condotte ed il provvedimento restrittivo della libertà
personale – si deve innanzitutto rilevare che è sempre necessario che il giudice
della riparazione pervenga alla sua decisione di escludere il diritto in questione in
base a dati di fatto certi, cioè ad elementi “accertati o non negati” (Sez. U n. 43
del 13/12/1995 – dep. 09/02/1996, Sarnataro, Rv. 203636); tale valutazione,
quindi, non può essere operata sulla scorta di dati congetturali, non
definitivamente comprovati non solo nella loro ontologica esistenza, ma anche
nel rapporto eziologico tra la condotta tenuta e la sua idoneità a porsi come
elemento determinativo dello stato di privazione della libertà, in riferimento alla
fattispecie di reato per la quale il provvedimento restrittivo venne adottato (v.
anche, in motivazione, Sez. 4, n. 10684 del 26/01/2010, Morra, non mass.).

5. L’ordinanza impugnata si conforma ai suesposti criteri di giudizio, dando
ampia ed esauriente giustificazione dell’espresso convincimento circa la
sussistenza di una condotta gravemente colposa del richiedente causalmente
efficiente rispetto alla detenzione subita, anche e soprattutto in relazione ad
entrambi i profili in questa sede attenzionati dal ricorrente, ai quali dedica ampi e
stringenti argomenti che resistono alle censure mosse.

abbiano inciso sull’evento detenzione.

5.1. Con riferimento al primo profilo di doglianza, deve, invero, anzitutto
escludersi che possa ravvisarsi alcun vizio di contraddittorietà o manifesta
illogicità nel ragionamento della corte territoriale nella parte in cui rileva che le
emergenze processuali valorizzate dal tribunale (dichiarazioni del Vella raccolte
in altro procedimento e ritualmente acquisite al dibattimento, prova
rappresentata dall’annotazione, su documenti in possesso del predetto, di dieci
numeri telefonici del politico, relativi anche a utenze riservate), e i rapporti tra il
Mannino e il Vella da essi desunti, non sono stati in sé in alcun modo esaminati

Non vi è in effetti nella sentenza di secondo grado – e ciò è pacificamente
ammesso anche dal ricorrente – alcuna confutazione relativa alla sussistenza,
validità e utilizzabilità di quelle emergenze, né tanto meno del loro significato o
conducenza probatoria.
Si trattava del resto di questioni che, nella prospettiva argomentativa del
giudice di secondo grado, non avevano alcun rilievo dal momento che già il
tribunale, pur dedicando ampio spazio a quelle emergenze e traendone il
convincimento dell’esistenza di rapporti tra il Mannino e il Vella non altrimenti
giustificabili se non per motivi elettorali, aveva tuttavia escluso che ciò fosse
sufficiente a configurare concorso esterno in associazione mafiosa.
La corte d’appello, in sede penale, invece – evidentemente in rapporto ai
motivi di gravame – ha esclusivamente concentrato la propria attenzione sulla
credibilità ed efficacia probatoria delle dichiarazioni del pentito Pennino,
giungendo per tale strada ad escludere l’esistenza dell’ipotizzato patto politico
elettorale e, a maggior ragione, a confermare la sentenza di primo grado
assolutoria dall’accusa di concorso esterno.
Che si tratti però di un accertamento per nulla contrastante con quello
operato dal tribunale (e adesivamente dal giudice della riparazione ai fini della
propria valutazione) circa l’esistenza e la natura dei rapporti tra il Mannino e il
Vella è reso evidente dalla semplice considerazione che anche in questo (ossia,
nell’accertamento contenuto nella sentenza di primo grado) il tema di tali
rapporti è tenuto ben distinto, sia da quello dell’esistenza di un vero e proprio
patto politico elettorale con l’organizzazione criminale (tema per il quale rilievo
probatorio principale si assegnava alle dichiarazioni del pentito Pennino), sia a
fortiori da quello della sussistenza della ipotizzata fattispecie criminosa del
concorso esterno in associazione mafiosa (rispetto al quale neppure la pur
ritenuta prova del patto fu reputata sufficiente in mancanza della prova della
promessa controprestazione da parte del politico e della sua effettiva
attuazione).
A difettare pertanto di coerenza logica è la tesi che sul punto sostiene il

dal giudice di secondo grado.

ricorrente il quale all’esclusione dell’esistenza di prova del patto politico
elettorale – che secondo l’ipotesi d’accusa ruotava intorno alla figura (e alle
dichiarazioni) del pentito Pennino – intende ricondurre per implicito anche
l’esclusione dei rapporti tra Vella e Mannino, omettendo di considerare che i due
aspetti rimanevano distinti e non sovrapponibili nell’ipotesi accusatoria e nella
sentenza di primo grado, dal momento che la pregressa conoscenza ed i rapporti
con il mafioso Vella, lungi dal bastare essi stessi a comprovare l’esistenza del
patto, servivano solo a dare riscontro al principale elemento di prova e a

È vero pertanto che, una volta esclusa l’esistenza di una prova adeguata
dell’ipotizzato incontro tra il Pennino e il Mannino e con esso della stipula del
patto, veniva meno l’esigenza di esaminare anche l’accessoria questione dei
rapporti tra il Mannino e il Vella, ma ciò solo perché tale tema risultava ultroneo
rispetto al giudizio proprio della cognizione penale del giudice d’appello e non
anche perché esso potesse considerarsi compreso nello stesso accertamento
negativo dedicato al tema principale.
L’aver dunque il giudice della riparazione ripreso ai propri fini tali elementi
probatori e il significato ad essi attribuito dal giudice di primo grado (sulla base
di argomenti logici pure condivisi e compiutamente illustrati nell’ordinanza
impugnata) costituisce operazione perfettamente legittima e anzi doverosa, ben
potendo/dovendo il giudice di merito, nella detta sede, procedere ad autonoma
valutazione delle risultanze e – data la diversità dei temi d’indagine considerare idonee ad integrare la colpa grave ostativa al diritto all’equa
riparazione circostanze oggettive accertate in sede penale sebbene dal giudice
della cognizione valutate come semplici elementi di sospetto, ed in quanto tali
insufficienti a legittimare una pronuncia di condanna.

5.2. Alla luce delle considerazioni che precedono il ricorso si rivela infondato
anche in ordine al secondo profilo di doglianza.
Sul punto invero l’ordinanza impugnata, ancorché sintetica, non pare
tacciabile di aver omesso di considerare l’incidenza causale dei descritti rapporti
sulla determinazione cautelare, atteso che – come rileva il P.G. – «l’analitica
disamina, esitata nella enucleazione delle suddette condotte tenute dal Mannino
nei confronti del Vella, è stata dalla … corte dichiaratamente compiuta
ripercorrendo tutte le condotte ritenute probanti a carico del Mannino nella
originaria impostazione accusatoria (f. 8), all’evidenza, come tale, costituente
anche il fondamento della misura cautelare».
Né è in proposito rilevabile vizio di manifesta illogicità.
Ribadito infatti che, come s’è evidenziato in premessa, condotta colposa

corroborarne la valenza probatoria, fornendogli un’univoca chiave di lettura.

ostativa alla riparazione può essere quella che, pur non sufficiente da sola a
determinare la decisione cautelare, abbia comunque “concorso” a dar causa
all’instaurazione dello stato privativo della libertà, non pare dubitabile che, pur
escludendo che le dette condotte potessero di per sé rappresentare grave indizio
dell’ipotesi delittuosa posta a fondamento dell’ordinanza custodiale, non può per
ciò solo escludersi anche una loro incidenza causale nella determinazione
predetta, non potendo certamente negarsi una loro rilevanza concorrente e
rafforzativa del quadro indiziario integrato dagli altri elementi.

accettato consapevolmente l’appoggio elettorale di un esponente di vertice
dell’associazione mafiosa e, a tal fine, dargli tutti i punti di riferimento per
rintracciarlo in qualsiasi momento, integra gli estremi della colpa grave e
costituisce, senza dubbio, condotta sinergica rispetto all’evento detenzione.

6. Il ricorso va pertanto rigettato con la condanna del ricorrente al
pagamento delle spese processuali e alla rifusione, in favore del Ministero
resistente, delle spese dallo stesso sostenute, liquidate in € 750,00.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali nonché alla rifusione delle spese sostenute per questo giudizio di
cassazione dal Ministero dell’Economia liquidate in € 750,00.
Così deciso il 20/12/2013

Come rileva infatti del tutto plausibilmente la corte territoriale, l’aver

Sostieni LaLeggepertutti.it

La pandemia ha colpito duramente anche il settore giornalistico. La pubblicità, di cui si nutre l’informazione online, è in forte calo, con perdite di oltre il 70%. Ma, a differenza degli altri comparti, i giornali online non ricevuto alcun sostegno da parte dello Stato. Per salvare l'informazione libera e gratuita, ti chiediamo un sostegno, una piccola donazione che ci consenta di mantenere in vita il nostro giornale. Questo ci permetterà di esistere anche dopo la pandemia, per offrirti un servizio sempre aggiornato e professionale. Diventa sostenitore clicca qui

LEGGI ANCHE



NEWSLETTER

Iscriviti per rimanere sempre informato e aggiornato.

CERCA CODICI ANNOTATI

CERCA SENTENZA