Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 19207 del 14/10/2014


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Penale Sent. Sez. 6 Num. 19207 Anno 2015
Presidente: AGRO’ ANTONIO
Relatore: PAOLONI GIACOMO

SENTENZA
sul ricorso proposto da
MAESANO Salvatore, nato a Roccaforte del Greco (RC) il 10/09/1962,
avverso la sentenza del 28/10/2013 della Corte di Appello di Reggio Calabria;
esaminati gli atti, il ricorso e l’ordinanza impugnata;
udita in camera di consiglio la relazione del consigliere Giacomo Paoloni;
udito il pubblico ministero in persona del sostituto Procuratore generale Vito D’Ambrosio,
che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito per la parte civile Regione Calabria l’avv. Maria Elena Mancuso del’Avvocatura
Regionale, che ha chiesto il rigetto del ricorso e la conferma delle statuizioni civili;
udito il difensore del ricorrente, avv. Marino Punturieri, che ha insistito per l’accoglimento
del ricorso.
FATTO E DIRITTO
1. All’esito di giudizio abbreviato, subordinato ad integrazioni istruttorie consistite
nell’esame del collaboratore di giustizia Carlo Mesiano e di due testimoni, il Tribunale di
Reggio Calabria ha condannato Salvatore Maesano alla pena di diciotto anni di reclusione,
ritenendolo colpevole di tutti i seguenti reati avvinti da continuazione: associazione per
delinquere di natura mafiosa pluriaggravata (capo A) per aver fatto parte, con funzioni
direttive e organizzative, della cosca o “sponda” di ‘ndrangheta denominata Zavattieri
attiva sulla costa ionica della provincia di Reggio Calabria (fino al maggio 2010); atti di
illecita concorrenza con minaccia ex artt. 513-bis c.p. e 7 L. 203/91 (capo C) volti alla
aggiudicazione di appalti pubblici banditi dall’amministrazione comunale di Roccaforte del

Data Udienza: 14/10/2014

Greco (dal 2004 in permanenza); estorsione continuata aggravata ex art. 7 L. 203/91
(capo D) mediante imposizione di una “tangente” ad imprenditori aggiudicatari di appalti
pubblici nel comprensorio dei comuni di Roccaforte del Greco e di Roghudi, tangente pari al
7-8% del globale importo dei lavori (fino al giugno 2007); detenzione e porto illegali di una
pistola (capo P) in data 2.7.2006; fittizia intestazione a Mario Attinà, ex artt. 12-quinquies
L. 356/92 e 7 L. 03/91 (capo B-bis), del bar “Garibaldi Caffè” di Melito di Porto Salvo (fino
al 19.9.2006); concorso in illecita detenzione per fini di spaccio di una

“imprecisata

quantità di cocaina” (capo L-bis) in epoca prossima al 6.8.2004.

di atti) dal più esteso processo cumulativo (contro lana Annunziato e altri), già definito in
sede di merito (sentenze 7.6.2010 del g.u.p. del Tribunale di Reggio Calabria e 9.1.2013
della Corte di Appello di Reggio Calabria) inscriventesi nelle vicende criminali susseguenti
alla cruenta “faida di Roghudi” tra le contrapposte cosche Zavattieri e Pangallo, che ha
visto contendersi dal 1992 in poi (con molti reciproci omicidi) il controllo mafioso del
litorale ionico reggino tra le dette cosche di `ndrangheta. Scontro sopitosi con la
“pacificazione” avvenuta nel 1998, anche grazie all’intervento della potente cosca dei
Morabito di Africo, e consolidata da una sorta di accordo di “non belligeranza” o di “patto
federativo” tra i due gruppi raggiunto, intorno al 2003, dai loro vertici, tra i quali Salvatore
Maesano, detto

“Arciprete”,

per la cosca Zavattieri e Antonino Pangallo, detto

“Chiumbino”(deceduto il 28.9.2004) per l’omonima cosca. Pacificazione in virtù della quale
le due fazioni, prima contrapposte, hanno ripreso a coltivare gli “affari” illeciti già
connotanti le due aggregazioni criminali (traffico di armi e di stupefacenti; estorsioni;
controllo delle attività economiche imprenditoriali; appalti pubblici; ingerenze anche di
matrice elettorale negli enti pubblici territoriali).
2. Adita dall’impugnazione del Maesano, la Corte di Appello di Reggio Calabria con
l’indicata sentenza del 28.10.2013, pur condividendo le linee portanti della ricostruzione e
valutazione delle condotte attribuite all’imputato, ha sensibilmente mitigato il trattamento
punitivo applicato al medesimo, la cui entità è stata rideterminata in otto anni di
reclusione. Ridefinizione cui i giudici del gravame sono giunti: escludendo per il reato
associativo il ruolo di capo/organizzatore attribuito al prevenuto ed escludendo la
configurabilità delle ulteriori contestate aggravanti di cui all’art. 416 bis, co. 4-5-6, c.p.;
riqualificando il reato ex art. 513 bis c.p. (capo C) nel reato di cui all’art. 353 c.p., esclusa
l’aggravante della “mafiosità” dei fatti (art. 7 L. 203/91); confermando la responsabilità del
Maesano per il reato di cui all’art. 12

quinquies L. 356/92 (capo B-bis), esclusa

l’aggravante ex art. 7 L. 203; dichiarando estinto per prescrizione il reato in tema di
sostanze stupefacenti (capo L-bis); assolvendo l’imputato dal reato relativo alla pistola
(capo P) per non aver commesso il fatto.
La sentenza di appello, passando in rassegna i motivi di impugnazione del Maesano
(che ha rimarcato essere costituiti da rilievi difensivi già in gran parte esaminati dai giudici

2

Il procedimento nei confronti del Maesano costituisce ramificazione (per separazione

di primo grado), ha ribadito la solidità del quadro probatorio in relazione ai fatti criminosi
per i quali è stata confermata la responsabilità dell’imputato. Muovendo dall’oggettivo dato
storico della sussistenza nell’area di Roccaforte del Greco e di Roghudi delle due
aggregazioni di ‘ndrangheta degli Zavattieri e dei Pangallo, desunta dalle acquisite
sentenze definitive che hanno affrontato il tema (processi denominati Nuovo Potere,
Crimine, Armonia, Onorata Sanità) e ripercorso le vicende criminali dei sodalizi imperanti
sul litorale ionico di Reggio Calabria, la Corte di Appello ha individuato, in sintesi, le fonti di
prova dimostrative della sussistenza dei reati ascritti al Maesano: a) nelle dichiarazioni del

bis c.p.), già intraneo al gruppo Zavattieri (sia pure con la peculiare veste di

“cittadino

onorato”), esaminato nel corso del giudizio abbreviato ai sensi dell’art. 438 co. 5 c.p.p.; b)
nelle plurime conversazioni, telefoniche e ambientali, intercettate tra più aderenti ai due
sodalizi criminosi, nell’ambito del presente procedimento e in più processi separati; c) negli
elementi di natura documentale acquisiti dalla p.g. con particolare riferimento alle
aggiudicazioni di lavori pubblici (nel comune di Roccaforte del Greco) connesse ai fatti
sussunti (“riqualificati”) nella fattispecie di cui all’art. 353 c.p., suffragati dalle indicazioni
testimoniali (art. 438 co. 5 c.p.p.) di Giovanni Modafferi, già assessore ai lavori pubblici di
Roccaforte del Greco.
3. Avverso la sentenza di appello ha proposto ricorso per cassazione il difensore di
Salvatore Maesano, deducendo molteplici vizi di legittimità per violazione di legge
(sostanziale e processuale) e per difetto, contraddittorietà e illogicità della motivazione.
Il gran numero dei motivi di impugnazione formulati con il ricorso e palesi esigenze
di chiarezza espositiva impongono di far seguire alla sintesi di ciascun motivo di censura le
valutazioni proprie di questo giudice di legittimità. Subito anticipandosi che, ad eccezione
del quinto motivo di ricorso concernente l’addotta prescrizione del reato di cui all’art. 12quinquies L. 356/92, motivo che merita accoglimento, le altre doglianze enunciate con il
ricorso debbono ritenersi inammissibili o destituite di fondamento. A ciò aggiungendosi che
alcune di esse riproducono censure già vagliate da questa Corte di legittimità e stimate

collaboratore di giustizia Carlo Mesiano (giudicato separatamente per il reato ex art. 416

prive di pregio nell’ambito del processo principale nei confronti degli originari coimputati
del Maesano (nel già citato processo contro lana Annunziato e altri) definito con sentenza
della Sezione Prima di questa S.C. in data 4.2.2014 (dep. 29.5.2014) n. 22362/2014.
4. Il menzionato quinto motivo di ricorso riguarda la fittizia intestazione del bar
denominato “Garibaldi Caffè” sito a Melito di Porto Salvo, che il Maesano avrebbe gestito di
fatto (essendone il vero proprietario), attribuendo la titolarità formale dell’esercizio a Mario
Attinà. Condotta criminosa svoltasi dalla data di apertura del locale (10.6.2004) fino al
19.9.2006, allorché l’esercizio commerciale è ceduto (dall’Attinà) a soggetti terzi.
4.1. Con il motivo di ricorso si sostiene che la confermata colpevolezza dell’imputato
è basata, oltre che su generiche indicazioni del c.d.g. Carlo Mesiano sulla erronea e/jd
e,

3

travisante lettura di una intercettata conversazione intercorsa (il 7.10.2004) tra il Maesano
e l’agente di una ditta di distribuzione di bevande alcoliche, cui il Mesiano si rivolge
presentandosi come fratello del titolare del bar Mario Attinà. L’evenienza non prova alcuna
gestione dell’esercizio in capo al ricorrente. In subordine si invoca la declaratoria di
estinzione per prescrizione del reato, dovendosi avere riguardo alla data iniziale della
presunta intestazione fittizia (risalente) al 2004, stante la natura istantanea con effetti
permanenti del reato punito dall’art. 12-quinquies L. 356/92.

intervenuta prescrizione del reato a seguito della esclusione, deliberata dalla Corte
territoriale, della contestata aggravante ad effetto speciale di cui all’art. 7 L. 203/91.
Quanto al merito della regiudicanda, non sono ravvisabili situazioni riconducibili
nell’alveo delle cause di non punibilità previste dall’art. 129 co. 2 c.p.p., sol che si consideri
come la sentenza di appello (vagliando l’omologa censura del Maesano sul punto) abbia
valutato, con argomenti ragionevoli, fondato l’assunto accusatorio elevato nei confronti del
Maesano, quale effettivo e dissimulato gestore del bar intestato ad Attinà, sia facendo leva
proprio sul dialogo captato (significativo di un intervento gestorio non estemporaneo
dell’imputato), sia segnalando le contrastanti versioni dell’episodio offerte dallo stesso
Maesano e dal coimputato Mario Attinà. Non sottacendo, per altro, quanto al movente della
illecita condotta, che l’imputato -pur mandato assolto nell’ambito del collegato processo
“Crimine”- versava nella non illogica previsione di essere destinatario di misure di
prevenzione patrimoniali (donde un suo interesse alla fittizia intestazione di una delle sue
attività economiche).
E’ fondato, ex adverso, il subordinato rilievo sulla prescrizione del reato. Accedendo
al prevalente indirizzo della giurisprudenza di legittimità in punto di qualificazione della
fattispecie di cui all’art.

12-quinquies

L. 35692 come reato istantaneo con effetti

permanenti, che si consuma nel momento in cui è realizzata l’attribuzione fittizia, senza
che assuma rilievo il persistere della situazione antigiuridica conseguente alla condotta
criminosa (cfr. ex aliis: Sez. 2, n. 23197 del 20.4.2012, Modica, Rv. 252835; Sez. 6, n.
24657 del 27.5.2014, Lauritano, Rv. 262045), non vi è dubbio che il reato ascritto al
Maesano, commesso al momento della intestazione dissimulata del bar di Melito
(10.6.2004), deve reputarsi attinto da prescrizione (termine massimo sette anni e sei
mesi) fin da epoca anteriore alla impugnata sentenza di appello. Ciò pur tenendo conto
della sospensione del corrispondente termine per complessivi sei mesi, connessi alla
stesura delle due sentenze di merito ex artt. 157 c.p. e 304 c.p.p. (termine spirato il
19.9.2014).
4.3. Per tanto la sentenza impugnata deve essere annullata relativamente al
contestato reato ex art.

12-quinquies L. 3456/92, perché lo stesso è estinto per

prescrizione. Annullamento da disporsi senza rinvio, potendo i derivati provvedimenti
relativi alla rideterrninazione della pena inflitta al Maesano essere adottati -ai sensi dell’art.
4

4.2. Il motivo di ricorso è fondato limitatamente a tale secondo profilo della già

620, co. 1-lett. I), c.p.p.- da questa stessa Corte, previa eliminazione della corrispondente
pena. Pena già individuata dalla Corte di Appello, in continuazione con il più grave reato ex
art. 416 bis c.p., in sei mesi di reclusione, ridotti a quattro mesi ai sensi dell’art. 442 c.p.p.
Per l’effetto la complessiva pena inflitta al Maesano deve essere definita in misura di sette
anni e otto mesi di reclusione.
5. Con il primo motivo di ricorso si deduce la nullità dell’avviso di conclusione delle
indagini preliminari ex art. 415-bis c.p.p. e di tutti gli atti susseguenti. La copia dell’avviso

descrizione dei reati di cui capi C) (art. 513-bis c.p., ridefinito dalla Corte di Appello ai
sensi dell’art. 353 c.p.) e D) (art. 629 c.p.: imposizione di tangente sui lavori pubblici
aggiudicati dal comune di Roccaforte del Greco). L’incompletezza dell’atto ha prodotto una
insanabile lesione del diritto di difesa del Maesano. Incongruamente la Corte di Appello, a
sostegno dell’inesistente nullità derivante dall’incompletezza dell’avviso di conclusione delle
indagini, menziona una decisione di legittimità (Sez. 3, n. 6662 del 14.1.2010, Mura, Rv.
246190) non pertinente al caso concreto e contraddetta da altra diversa decisione (Sez. 6,
n. 28552 del 18.3.2009, Grimani, Rv. 245299: “È nullo, perché si risolve in un difetto di
motivazione che viola il diritto di difesa, il provvedimento cautelare che sia notificato
all’imputato o indagato con consegna di copia mancante di alcune pagine”).
5.1. Il motivo di censura è generico e manifestamente infondato.
Generico perché si limita a riprodurre una eccezione già respinta dal g.u.p. in sede
di udienza preliminare e poi dal Tribunale, alle cui conclusioni ha fatto rinvio la sentenza di
appello, aggiungendo come in concreto il difensore dell’imputato abbia avuto piena
cognizione di tutti i fatti reato ascritti al Maesano. Evenienza cui l’odierno ricorso non
contrappone alcun argomento specifico.
Manifestamente infondato, oltre che per le emergenze segnalate dalla Corte
territoriale (assenza di concreta lesione del diritto di difesa dell’imputato), per la semplice
ragione che: per un verso, la stessa mancata notificazione all’imputato e al difensore
dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari (nel caso di specie si è in presenza di
una mera incompletezza dell’avviso) non integra una nullità assoluta e insanabile (non
afferendo alla vocatio in iudicium dell’imputato), bensì una nullità a regime intermedio,
eccepibile o rilevabile di ufficio fino alla deliberazione della sentenza di primo grado (Sez.
1, n. 47529 del 2.12.2008, Barcellona, Rv. 242075); per altro e congiunto verso, detta
nullità diviene indeducibile a seguito dell’opzione dell’imputato per il giudizio abbreviato,
producendo tale richiesta del rito speciale un effetto sanante della nullità intermedia ai
sensi dell’art. 183 c.p.p. (cfr., ex plurimis: Sez. 2, n. 19483 del 16.4.2013, Avallone, Rv.
256040; Sez. 3, n. 7336 del 31.1.2014, Laneve, Rv. 258813; Sez. 3, n. 19454 del
27.3.2014, Onofrio, Rv. 260377).

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notificata al difensore dell’imputato è risultata priva di una pagina contenente la

6. Il secondo motivo di ricorso denuncia violazione degli artt. 192 e 210 c.p.p. con
riferimento alla valutazione delle dichiarazioni del collaborante Carlo Mesiano e
contraddittorietà della motivazione sul punto.
In distonia con la premessa metodologica sul carattere non decisivo delle
propalazioni eteroaccusatorie del c.d.g. Mesiano la Corte di Appello reggine nel corpo della
motivazione della decisione impugnata ha finito per considerare le indicazioni del Mesiano
una rilevante fonte di accusa a carico del ricorrente. Ciò nonostante gli elementi ritenuti
atti a riscontrare gli enunciati del Mesiano, stimati assistiti da intrinseca attendibilità, si

appresi de relato (segnatamente per indicazioni offertegli da uno dei vertici del sodalizio
criminoso dei Zavattieri, Giuseppe Romeo, deceduto nel 2010), né possono inscriversi nel
noto canone valutativo definito della convergenza del molteplice.
Le discrasie o i “punti critici” del narrato del Mesiano investono: a) la sua stessa
“affiliazione” alla duplice consorteria criminale operante a Roccaforte del Greco, avvenuta
intorno agli anni 1996/1997 con un rito (di “cittadino onorato”) ignoto alle locali cronache
giudiziarie e alla letteratura sul punto; b) le circostanze e gli eventi descrittigli dal vecchio
esponente della ‘ndrangheta Giuseppe (inteso Pepé) Romeo, deceduto; c) il ruolo ricoperto
in seno al gruppo mafioso dal padre dell’odierno ricorrente, che Mesiano afferma di non
aver mai conosciuto (perché morto prima della sua frequentazione di Roccafprte del
Greco), ma che sa essersi avvalso come autista del coimputato Paolo Attinà; d) i presunti
collegamenti o rapporti del Maesano con Francesco Pangallo, titolare di una impresa che
risulta aggiudicataria di numerosi lavori appaltati dal Comune di Roccaforte, condannato
per il reato di cui all’art. 353 c.p., ma assolto dalla associazione ex art 416 bis c.p.; e)
rapporti tra le ditte aggiudicatarie degli appalti nell’ambito di un sistema che il collaborante
definisce gestito dalle stesse imprese al di fuori, quindi, di una scelta dell’aggiudicatario
imposta dalla cosca mafiosa di riferimento.
6.1. La censura è indeducibile e palesemente infondata.
Tutti i profili addotti come critici nell’intera trama narrativa del c.d.g. Mesiano
esposti in ricorso sono stati specificamente già vagliati dalla Corte di Appello, che li ha
disattesi alla stregua di una coerente lettura delle emergenze processuali formate non dalla
sola disamina delle dichiarazioni accusatorie del Mesiano, ma -in sintonia con la premessa
della non esclusiva rilevanza delle dichiarazioni, pur attendibili e riscontrate, del
collaborante- altresì dai connessi dati emersi da autonome e ulteriori fonti probatorie
(captazioni foniche; accertamenti documentali; testimonianza Modafferi). Né agli articolati
passaggi argomentativi della sentenza di appello, possono contrapporsi le riletture o
riconsiderazioni in chiave meramente fattuale dei dati conoscitivi offerti dal processo, alla
stregua dei rilievi esposti in ricorso, scanditi in massima parte dalla testuale riproposizione
di verbali di dichiarazioni (del collaborante Mesiano e di altri soggetti), estrapolati dal

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i

mostrino effimeri e lacunosi. Per altro molti dei fatti riferiti dal Mesiano sono stati da lui

compendio probatorio. Dichiarazioni delle quali si prospettano parcellari reinterpretazioni,
certamente estranee all’odierno giudizio di legittimità.
Ad assorbente suffragio della manifesta infondatezza dei vari rilievi espressi con il
motivo di ricorso in esame mette conto osservare che la Corte di Appello ha correttamente
posto l’accento sulla attendibilità delle indicazioni provenienti dal Mesiano. Vuoi perché
assistite da intrinseca e verificata credibilità (ad onta di talune insignificanti imprecisioni
dovute soltanto alla vetustà di alcuni fatti riferiti dal Mesiano). Vuoi perché sorrette da
autosufficienti dati probatori formati dalle molteplici captazioni foniche effettuate

indagini degli altri citati definiti processi sulle dinamiche funzionali e operative della
criminalità organizzata egemone sulla costa ionica della provincia di Reggio Calabria. Vuoi,
infine, come giova aggiungere in questa sede, perché l’affidabilità di quasi tutte le
propalazioni di fatti appresi per diretta scienza dal Mesiano (condannato per il reato
associativo ex art. 416 bis c.p. in quanto ritenuto intraneo alle “sponde” federate di
‘ndrangheta attive a Roccaforte del Greco e nelle aree viciniori) è significativamente
attestata anche dalla ricordata sentenza n. 22362/2014 di questa stessa Corte, che ha
definito il processo principale da cui è stata separata la posizione del ricorrente Maesano.
In tale contesto va osservato, per completezza, come i giudici di appello abbiano
con ricchezza di argomenti evidenziato, quanto ai rapporti intercorsi tra il Maesano e
l’imprenditore Francesco Pangallo, da un lato, che l’intervenuta (separata) assoluzione del
Pangallo dal reato associativo non elide i suoi conclamati rapporti di “contiguità” con il
Maesano (rapporti che investono anche l’attività edilizia svolta dal c.d.g. Mesiano, come da
questi riferito e riscontrato documentalmente), sì da renderne qualificabile la posizione
quale imprenditore “colluso” con l’azione della cosca di `ndrangheta (donde la giustificata
percezione di una “tangente” anche a carico del Pangallo per i lavori di cui è rimasto
aggiudicatario). Da un altro lato, gli stessi giudici di appello hanno rimarcato che il
meccanismo di fraudolenta predefinizione delle ditte destinate a vincere gli appalti pubblici
(con la tecnica della massima “offerta in ribasso” sul valore del singolo appalto) non
confligge con la preventiva immanente ingerenza della consorteria criminale nel
determinare la stessa platea delle ditte formalmente concorrenti e persino di quelle
destinate a ricevere affidamenti di lavori in regime di subappalto. Evenienza accreditata dal
materiale documentario acquisito in corso di indagini e dalle indicazioni dell’ex assessore di
Roccaforte del Greco Giovanni Modafferi.
7. Il terzo motivo di ricorso attiene all’erronea applicazione dell’art. 353 c.p., alla
violazione del disposto dell’art. 521 c.p.p. e alla illogicità della motivazione in ordine ai fatti
ricompresi nel capo C) di imputazione, relativo a fatti di concorrenza illecita continuata
riqualificati dalla Corte di Appello ai sensi dell’art. 353 c.p.
Nel ridefinire i fatti in origine contestati come illecita concorrenza (art. 513 bis c.p.)
sotto il titolo della turbativa d’asta continuata (art. 353 c.p.) la Corte di Appello ha violato

7

nell’ambito dell’attuale procedimento e, ritualmente acquisite in atti, nel contesto di

il principio di correlazione tra accusa contestata e decisione. La sentenza impugnata ha
riqualificato i fatti anche alla luce dell’accertato “sistema spartitorio”degli appalti pubblici e
dell’assenza di prove su specifici contegni intimidatori (violenza o minaccia) tenuti nei
confronti degli imprenditori da esponenti delle due cosche mafiose locali (clan Zavattieri e
clan Pangallo). In questa prospettiva non è dato comprendere su quali basi sia stato
affermato il concorso criminoso (nel reato ex art. 353 c.p.) del ricorrente Maesano. Tanto
più quando si constati che il suo ruolo è stato ridefinito in quello di associato e non di
organizzatore e dirigente della cosca Zavattieri e che la sentenza di appello ha escluso la

dell’agevolazione mafiosa ex art. 7 L. 203/91.
7.1. La censura è infondata.
7.1.1. Nel caso di specie non si è verificata nessuna violazione del principio di
correlazione tra imputazione e sentenza, avuto riguardo alla individuazione di un nucleo
strutturale e normativo comune tra il reato, più grave, in origine contestato ai sensi
dell’art. 513 bis c.p. e quello ritenuto dalla sentenza di appello ex art. 353 c.p. Nucleo
comune rappresentato dalla omologa violazione, in entrambi i casi, delle regole della
concorrenza d’impresa, differenziandosi la seconda ipotesi (art. 353 c.p.) dalla prima per la
pluralità dei mezzi attuativi, diversi da atti di violenza o minaccia che, soli, connotano la
fattispecie descritta dall’art. 513 bis c.p. Elemento di discrimine in virtù del quale la Corte
di Appello ha ridefinito i fatti illeciti ex art. 353 c.p., la turbativa dei pubblici appalti indetti
dal Comune di Roccaforte del Greco essendosi verificata “secondo una logica spartitoria
basata su mezzi fraudolenti e non essendo emerso che gli imprenditori che partecipavano
alla appalti fossero stati sottoposti a violenza o minaccia”
“derubricazione” dell’originaria accusa ex art. 513

(sentenza, p. 37). La

bis c.p. non ha implicato alcuna

significativa o imprevedibile modifica della contestazione, rimasta invariata nei suoi tratti
essenziali e nei suoi effetti, né ha dato luogo ad un reale pregiudizio delle facoltà e delle
ragioni difensive del Maesano, allorché si consideri la concreta contestazione in fatto (come
da elevata imputazione) anche della condotta “collusiva” degli imputati ex art. 353 c.p. e la
pienezza dei mezzi di difesa fatti al riguardo valere dal ricorrente nel giudizio di merito
(cfr., ex pluribus: Sez. 3, n. 35225 del 28.6.2007, Dimartino, Rv. 237517; Sez. 6, n. 81/09
del 6.11.2008, Zecca, Rv. 242368; Sez. 3, n. 41478 del 4.10.2012, Stagnoli, Rv. 253871).
7.1.2. Nessuna contraddizione è, poi, ravvisabile nell’analisi della dinamica
operativa attuata nelle aggiudicazioni degli appalti pubblici sviluppata dalla sentenza
impugnata. Per vero la sentenza ha ritenuto di uniformare la propria decisione a quella,
omologa, adottata nel procedimento principale dalla sentenza 9.1.2013 della Corte di
Appello di Reggio Calabria (processo contro Tana Annunziato e altri), con cui sono stati
giudicati -tra gli altri- il c.d.g. Mesiano e il menzionato Francesco Pangallo, riconosciuti
entrambi colpevoli del reato di cui all’art. 353 c.p., così diversamente qualificatasi l’iniziale
contestazione ex art. 513 bis c.p. Richiamando i contenuti della sentenza del 9.1.2013

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ravvisabilità per le varie aggiudicazioni di appalti oggetto di indagine dell’aggravante

l’odierna impugnata decisione di appello (sentenza, pp. 30-39) ha linearmente escluso che
gli imprenditori partecipanti agli appalti pubblici siano stati indotti a sottostare ai
meccanismi di “selezione” dei vincitori delle gare “indicati dalle cosche” per effetto di
individuati atti di intimidazione mafiosa e non, invece, per effetto di pregiudiziali accordi
collusivi maturati nel “contesto” ambientale del controllo economico-territoriale esercitato
dai due gruppi di `ndrangheta egemoni a Roccaforte del Greco e nelle aree circostanti.
Con congrue e logiche notazioni la sentenza impugnata ha posto in luce la
fondatezza del concorso criminoso del Maesano, nella sua qualità di esponente della cosca

“condizionamento mafioso” degli esiti delle gare di appalto, riferibile alla cosca Zavattieri
(ricorrente Maesano) e alla cosca Pangallo (Giovanni Pangallo detto

“Chiumbino”,

deceduto) operasse “a monte” delle specifiche procedure di aggiudicazione, secondo criteri
necessariamente ben noti a tutti gli imprenditori interessati e risultati vincitori delle gare (o
destinatari di subappalti), tanto da determinare gli stessi a corrispondere senza remore ai
referenti mafiosi una “tangente” di importo proporzionale all’ammontare economico dei
lavori conseguiti.
8. Con il quarto motivo di ricorso è denunciata l’omessa e/o contraddittoria
motivazione relativa alla confermata sussistenza del reato di estorsione continuata mafiosa
(capo D della rubrica) contestato al Maesano e avente ad oggetto l’imposizione di una
tangente (pari al 7-8% dell’importo globale dei lavori) agli imprenditori aggiudicatari di
appalti o subappalti pubblici nel comprensorio di Roccaforte del Greco e di Roghudi.
Nel ribadire la responsabilità del ricorrente per il reato in questione la Corte di
Appello ha valorizzato una specifica conversazione captata il 19.10.2007 tra Giovanni
Pangallo e Rocco Russo e le propalazioni offerte sul punto dal collaborante Mesiano.
Senonché tali dati non offrono compiuta dimostrazione della condotta criminosa del
Maesano (non indicato in modo esplicito quale destinatario o collettore degli introiti
estorsivi), la cui estraneità ai fatti estorsivi è per altro avvalorata dalla sua “assoluzione”
dalla contestazione di cui al comma 2 dell’art. 416 bis c.p. Dato che induce ad escludere un
suo ruolo di destinatario o “terminale finale” del pagamento del prezzo delle estorsioni.
8.1. Il motivo di impugnazione è indeducibile e palesemente infondato.
L’intera censura è sviluppata attraverso la traslitterazione di lunghi brani delle
dichiarazioni rese ex art. 210 c.p.p. (integrative del giudizio abbreviato) dal collaborante
Mesiano, delle quali si prefigura -nel focalizzare talune discrasie del suo narrato- una
alternativa e riduttiva riconsiderazione in punto di mero fatto non consentita nel giudizio di
legittimità. Soprattutto quando si abbia riguardo alla logicità e all’ampiezza espositiva con
cui l’impugnata sentenza di appello ha sottolineato -da un lato- l’oggettiva storicità del
regime tangentizio imposto dalle due cosche ioniche emergente dalla menzionata estesa
conversazione captata il 19.10.2007 tra Pangallo e Russo (proprio in coincidenza con

9

Zavattieri e di diretto interlocutore dell’imprenditore Pangallo, evidenziando come il

l’apertura delle buste per l’appalto di lavori di recupero e restauro di un edificio storico di
Roccaforte del Greco). La significatività delle recriminazioni espresse dall’imprenditore
Russo, che si duole della “necessità” di partecipare alle gare operando ribassi troppo
elevati in uno alla corresponsione di una tangente, non richiede ulteriori commenti per
inquadrare la sistematicità delle pretese estorsive della cosca Zavattieri.
Pretese di cui -d’altro lato- la sentenza di appello rinviene specifico riscontro nelle
dichiarazioni confermative del “sistema” rese dal collaborante Mesiano (dichiarazioni di cui
è operata una complessiva lettura, che rende ragione delle solo apparenti discrasie

trascurando i precedenti asserti del collaborante in fase di indagini, tutti pienamente
utilizzabili ex artt. 438 ss. c.p.p.). L’esplicito riferimento del collaborante al Maesano come
elemento di riferimento per la raccolta delle tangenti (che ha investito lo stesso Mesiano
quando ha proposto al ricorrente di rilevare l’impresa dell’anziano Pepé Romeo) non elide
né sminuisce la penale responsabilità del Maesano per il solo fatto che i giudici di secondo
grado non gli abbiano riconosciuto lo specifico ruolo di “capo” della cosca Zavattieri.
Funzione apicale che è attribuita ad Antonio Romeo e dopo la morte di questi (gennaio
2010) al suo anziano padre Salvatore Romeo e infine al coimputato Stelitano (in proposito
è d’uopo segnalare che l’accusa ex art. 416 bis c.p. mossa al Maesano è contestata, con
criterio c.d. chiuso, “fino al mese di maggio 2010”).
9. Il sesto motivo di ricorso censura l’erronea applicazione dell’art. 416 bis c.p. e la
carente e contraddittoria motivazione della Corte territoriale in rapporto alla confermata
intraneità del Maesano alla cosca Zavattieri. La sentenza impugnata, si sostiene nel
ricorso, attribuisce un ruolo associativo all’imputato sulla base di elementi incerti mutuati
dalla decisione di primo grado, imperniati sulle propalazioni del c.d.g. Mesiano e sui
sommari contenuti di intercettazioni foniche che attesterebbero un “interesse” del Maesano
anche per le vicende elettorali dell’area di riferimento della cosca.
9.1. La doglianza è generica (in senso proprio per la vaghezza dei rilievi esposti in
ricorso) e palesemente infondata (laddove si diffonde nel richiamare massime
giurisprudenziali non strettamente pertinenti alla vicenda personale dell’imputato), sol che
si rifletta che, in sostanza, l’intera decisione di appello e ancor più diffusamente la
confermata sentenza di primo grado sono articolate nel ripercorrere e analizzare
criticamente gli elementi probatori dimostrativi della partecipazione mafiosa del Maesano.
Le notazioni difensive non scalfiscono la solidità del quadro probatorio illustrato dalla
sentenza di appello, sia in relazione all’accertato (intercettazioni e dichiarazioni di Mesiano)
“interesse” mostrato fin dagli anni ’90 del Maesano per le vicende sottese al

“controllo

mafioso” delle locali amministrazioni comunali, sia in relazione al ruolo pur sempre
rilevante (pur non qualificabile ex art. 416 bis, co. 2, c.p.) ricoperto da Maesano nel
sodalizio criminoso (sentenza, p. 98: “personaggio di spessore all’interno della consorteria

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individuate dalla difesa del ricorrente nelle propalazioni “dibattimentali” del Mesiano,

che si occupava della gestione delle estorsioni ai danni delle ditte che si aggiudicavano i
lavori nel comune di Roccaforte nonché di altre questioni di rilievo per l’organizzazione,
quale quella del sostegno a canditati per le elezioni comunali o regionali”).
Alla palese infondatezza della doglianza del ricorrente non fanno velo gli argomenti
additivi esposti con i “motivi nuovi” depositati il 24.9.2014 a sostegno della natura non
mafiosa degli interessi di segno politico-elettorale manifestati dal Maesano.
10. Con il settimo subordinato motivo di ricorso si contesta la determinazione del

generiche, benché se ne sia ridimensionato lo spessore criminale, attribuendogli una
posizione di semplice associato e non più di organizzatore del gruppo criminale di
appartenenza.
10.1. Il motivo, enunciato in termini affatto generici, è indeducibile in sede di
legittimità, afferendo ad un profilo della regíudicanda, quale quello del regime punitivo, che
è riservato all’esclusivo apprezzamento del giudice di merito e si sottrae ad ogni scrutinio
di legittimità, quando -come nel caso in esame- risulti sorretto da una adeguata e non
illogica motivazione. Giova soltanto aggiungere, del resto, che l’obbligo di motivazione in
tema dì circostanze attenuanti connota senz’altro la decisione di merito nell’enunciare la
ravvisabilità delle condizioni per riconoscerle, ma non anche la decisione opposta, che si
limiti ad escludere la sussistenza di cause legittimanti la concessione di eventuali
attenuanti (cfr.: Sez. 2, n. 38383 del 10.7.2009, Squillace, Rv. 245241; Sez. 3, n. 19639
del 27.1.2012, Gallo, Rv. 252900; Sez. 5, n. 7562 del 17.1.2013, La Selva, Rv. 254716).
11. Con i già menzionati “motivi nuovi” depositati il 24.9.2014 il difensore del
ricorrente ha ripreso il tema del trattamento sanzionatorio (relativo all’anteriore settimo
motivo di ricorso), adducendo l’erroneità della sanzione applicata al Maesano sulla base
della pena per la condotta associativa ex art. 416 bis, co. 1, c.p. (da sette a dodici anni di
reclusione) quale introdotta (in luogo dei precedenti limiti edittali da cinque a dieci anni di
reclusione) dal D.L. n. 92/2008, convertito con modificazioni nella L. 24.7.2008 n. 125.
La Corte di Appello, pur dando atto del carattere “chiuso” della contestazione del
reato associativo (delimitata nei momenti iniziale e finale: da aprile 2002 a maggio 2010),
non si è fatta carico di rilevare che non sono acquisiti elementi di prova attestanti una
partecipazione mafiosa dell’imputato successiva alla novella normativa della pena edittale.
Il patrimonio conoscitivo offerto dal collaborante Mesiano si esaurisce, infatti, con l’anno
2006 e l’attività di intercettazione concernente l’imputato non oltrepassa il 2007, “senza
che per il periodo successivo siano stati acquisiti o valorizzati altri elementi di prova sia sul
ruolo rivestito dal ricorrente, sia sul perdurante mantenimento in vita della cosca”.
11.1. La prospettata doglianza è indeducibile e manifestamente infondata.

11

trattamento punitivo applicato al ricorrente, cui sono state negate le circostanze attenuanti

11.1.1. Per vero il delineato “motivo nuovo” tale non può considerarsi in senso
tecnico, ai sensi del combinato disposto degli artt. 585 co. 4 e 611 co. 1 c.p.p., perché
privo del carattere di specifica accessorietà al collegato motivo principale di impugnazione.
Motivo che riguarda sì il regime sanzionatorio, ma è stato limitato al solo profilo delle
denegate circostanze attenuanti generiche, senza alcuna inferenza sulla pena in concreto
applicabile e applicata al prevenuto. I motivi “nuovi” di impugnazione non possono che
essere inerenti, infatti, ai temi specificati nei capi e punti della decisione investiti
dall’impugnazione principale già presentata, in virtù di una indispensabile connessione
ex pluribus: Sez. 1, n. 5182 del

15.1.2013, Vatavu, Rv. 254485; Sez. 6, n. 45075 del 2.10.2014, Sabbatini, Rv. 260666).
11.1.2. In ogni caso, pur sottacendosene l’indeducibilità, la censura è in tutta
evidenza priva di pregio.
In primo luogo il reato di partecipazione ad una associazione mafiosa ha natura
permanente e la corrispondente condotta attuativa si protrae nel tempo, cessando soltanto
con il compimento di atti che pongano fine alla situazione antigiuridica. Cioè in particolare
se e quando l’associato receda in modo inequivoco dalla aggregazione criminale ovvero
quando questa debba considerarsi dissolta. Con l’ovvia conseguenza che il risalire nel
tempo dei dati dimostrativi della partecipazione non equivale a ricondurre alla loro data la
cessazione della consumazione del reato plurisoggettivo, perché -nella peculiare struttura
del reato di partecipazione mafiosa- il vincolo associativo tra il singolo individuo e
l’organizzazione si instaura nella prospettiva di una futura permanenza in essa a tempo
indeterminato, prolungandosi sino all’eventuale scioglimento della consorteria ovvero
all’oggettivo volontario recesso del partecipe (v.,

ex plurimis:

Sez. 2, n. 25311 del

15.3.2012, Modica, Rv. 253070; Sez. 5, n. 1703 del 24.10.2013, Sapienza, Rv. 258954).
Se in caso di contestazione “aperta” della condotta associativa la permanenza del
reato può ritenersi cessata -come statuisce la giurisprudenza di questa S.C.- con la
pronuncia della sentenza di primo grado (trascendendo la condotta successiva
dell’imputato l’oggetto del giudizio), nel caso -quale quello relativo al ricorrente Maesanoin cui la contestazione dell’accusa rechi già indicazione della data di cessazione della
permanenza della partecipazione associativa dell’imputato, non sorgono problemi
ricostruttivi, poiché la permanenza non può che ritenersi esaurita nella data recata dalla
contestata imputazione. Nel caso del Maesano alla data del maggio 2010. Di tal che,
esclusa per le chiare emergenze processuali lo scioglimento della cosca mafiosa,
correttamente la Corte di Appello ha applicato il trattamento sanzionatorio dell’art. 416 bis
c.p. come novellato dalla legge n. 125/2008, vigente al momento della cessazione (id est
consumazione) del reato permanente associativo (cfr. Sez. 6, n. 13085 del 3.10.2013,
Amato, Rv. 259482).
In secondo luogo è agevole osservare che, diversamente da quanto si adduce con il
motivo “nuovo”, la sentenza impugnata non ha individuato alcun concreto e affidabile

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funzionale tra i motivi originari e quelli nuovi (cfr.,

elemento che permetta di ritenere cessata l’indiscussa appartenenza mafiosa (cosca
Zavattieri) del Maesano in epoca anteriore alla contestata data finale del maggio 2010.
Fino a tale epoca perdura, secondo la sentenza impugnata, il contributo associativo
dell’imputato sia pure in veste non apicale che si ipotizza essere stata assunta, dopo il
breve “interregno” del padre di Antonio Romeo, dal coimputato (in separato processo)
Mario Giuseppe Stelitano nei primi mesi del 2010.
13. L’ultimo motivo (ottavo) del ricorso principale è puramente assertivo e generico,

sulle statuizioni civili che, ovviamente, debbono revocarsi in accoglimento dei motivi
suestesi”. Va da sé, ex adverso, che il rigetto del ricorso del Maesano (ad eccezione della
declaratoria di estinzione per prescrizione del reato di cui al capo B-bis della rubrica: art.
12 quinquies L. 356/92) importa la conferma della connessa condanna inflitta dai giudici di
merito dell’imputato al separato risarcimento del danno in favore della costituita parte
civile Regione Calabria.

P. Q. M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente al reato di cui al capo Bbis) perché estinto per prescrizione ed elimina la relativa pena, rideterminando quella
complessiva in sette anni e otto mesi di reclusione.
Rigetta nel resto il ricorso del Maesano.
Roma, 14 ottobre 2014

investendo le statuizioni civili, secondo il seguente testuale assioma: “ultima impugnazione

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