Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 19196 del 04/02/2015


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 19196 Anno 2015
Presidente: SQUASSONI CLAUDIA
Relatore: ANDRONIO ALESSANDRO MARIA

SENTENZA
sul ricorso proposto da
Arrabito Bartolomea, nata il 22 luglio 1973
avverso l’ordinanza del Tribunale di Catania del 22 aprile 2014;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Alessandro M. Andronio;
udito il pubblico ministero, in persona del sostituto procuratore generale Vito
D’Ambrosio, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito il difensore, avv. Giorgio Terranova.
RITENUTO IN FATTO
1. — Con ordinanza del 22 aprile 2014, il Tribunale di Catania ha sostituito, con
la misura degli arresti domiciliari, la misura della custodia cautelare in carcere
originariamente disposta a carico dell’indagata con ordinanza del Gip dello stesso
Tribunale, in relazione al reato di cui all’art. 74, commi 1 e 2, del d.P.R. n. 309 del
1990, per associazione a delinquere diretta all’acquisto e al commercio di notevoli
quantità di sostanze stupefacenti (capo a) e al reato di cui agli artt. 81, secondo
comma, 110, cod. pen., 73, commi 1, 4, 6 del d.P.R. n. 309 del 1990, per vari episodi
di detenzione e spaccio di stupefacenti, con l’aggravante di avere commesso i fatti in
più di tre persone.

Data Udienza: 04/02/2015

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Il compendio indiziario è costituito dalle risultanze dell’attività di indagine
eseguita dopo la scarcerazione di tale Firrisi, il quale aveva scontato una condanna a
17 anni di reclusione, per avere promosso e organizzato un’associazione per
delinquere armata finalizzata al traffico degli stupefacenti, ritenuta collegata ad un
clan mafioso. Le indagini si erano sviluppate attraverso servizi di intercettazione
telefonica, localizzazione delle auto, servizi di intercettazione ambientale anche dei
colloqui carcerari, servizi di osservazione e riprese video.
2. — Avverso l’ordinanza l’indagata ha proposto, tramite il difensore, ricorso per
cassazione, rilevando, con un unico motivo di doglianza, la mancanza, la
contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione quanto ai gravi indizi di
colpevolezza e quanto alle esigenze cautelari. La difesa afferma di aver evidenziato
che l’indagata si era trovata coinvolta nel procedimento solo in conseguenza delle
intercettazioni ambientali effettuate presso la sala colloqui del carcere. In tali colloqui
— prosegue la stessa difesa — ci si riferiva esclusivamente alla gestione di un locale
che il marito dell’indagata, anch’egli indagato, aveva aperto presso un centro
commerciale; così come alcuni riferimenti dovevano trovare spiegazione negli interessi
commerciali che tale soggetto aveva nel settore ortofrutticolo. Si sarebbe trascurato di
considerare, inoltre, che l’indagata è incensurata ed è madre di un bambino di cinque
anni, nonché figlia unica, convivente con genitori anziani, dei quali il padre è invalido
civile. Tali elementi avrebbero dovuto indurre Tribunale a ritenere insussistente il
rischio di reiterazione del reato.
CONSIDERATO IN DIRITTO
3. — Il ricorso è inammissibile.
La difesa si limita, infatti, a generiche asserzioni relative alla liceità dei colloqui
dell’indagata con il marito, che non sarebbero riferiti — contrariamente a quanto
ritenuto dal Tribunale — a sostanze stupefacenti, nonché alla pretesa mancanza del
pericolo di reiterazione del reato, tenuto conto della personalità della stessa indagata.
Si tratta di rilievi del tutto sganciati dall’analisi critica della motivazione
dell’ordinanza impugnata, la quale risulta adeguatamente e coerentemente motivata
sia in punto di gravi indizi di colpevolezza sia in punto di esigenze cautelari.
Quanto al primo profilo, è sufficiente qui richiamare gli analitici passaggi
argomentativi (alle pagine 9 e seguenti dell’ordinanza), nei quali si dà ampiamente
conto delle ragioni per cui, dalle conversazioni occorse nella casa circondariale il 2
agosto 2011 e il 9 agosto 2011, emerge con sufficiente chiarezza un ruolo di Firrisi
quale gestore della sostanza stupefacente ancora nella disponibilità del sodalizio ed
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emerge altresì, nell’ambito di tale sodalizio, l’attività svolta dall’indagata odierna
ricorrente nel trattare lo stupefacente nell’interesse del gruppo. Il Tribunale evidenzia
sul punto — senza che la difesa muova a tale ricostruzione alcun rilievo critico — che le
conversazioni oggetto delle due intercettazioni ambientali devono essere poste in
connessione; connessione che trova ulteriore conferma nelle successive conversazioni
tra l’indagata e il marito, nelle quali vi sono ulteriori riferimenti alle trattative relative
allo stupefacento. Né la difesa contesta puntualmente l’interpretazione data dal

l’indagata e tale Boschi per l’acquisto della sostanza stupefacente.
Analoghe considerazioni valgono in relazione alle esigenze cautelari, la cui
sussistenza è stata correttamente desunta dal Tribunale — a fronte di mere
indimostrate asserzioni di segno contrario, ribadite nel ricorso per cassazione — dalle
modalità delle condotte criminose contestate all’indagata, nonché dalla complessità
dell’organizzazione criminale, che emerge dai riferimenti di tutti gli interlocutori delle
conversazioni intercettate ad una pluralità di soggetti, con divisione di ruoli. Lo stesso
Tribunale ha coerentemente sottolineato che l’indagata, ove rimessa in libertà,
potrebbe ritornare a delinquere, ponendo in essere quelle condotte di spaccio e
detenzione di sostanze stupefacenti che erano costante oggetto delle conversazioni fra
i coimputati. Quanto, infine, alle condizioni personali e familiari dell’indagata, lo stesso
Tribunale mostra di tenerne adeguatamente conto, sostituendo la misura della
custodia cautelare in carcere con quella meno afflittiva degli arresti domiciliari.
4. – Il ricorso deve perciò essere dichiarato inammissibile.
Tenuto conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale
e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte
abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di
inammissibilità», alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma
dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del
versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente
fissata in C 1.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di C 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 4 febbraio 2015.

Tribunale della conversazione del 23 agosto 2011, nella quale emergono i contatti tra

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