Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 19182 del 14/01/2015


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 19182 Anno 2015
Presidente: FIALE ALDO
Relatore: ANDRONIO ALESSANDRO MARIA

SENTENZA
sul ricorso proposto da
Sarpi Oscar, nato il 19 maggio 1932
Biondi Francesco, nato il 4 giugno 1961
nei confronti di
Vanacore Luigi, Santamaria Maria Cristina, Medici Francesco, Inclima Giovanni,
Rilievi Alessandra, Falcone Maria Concetta, Napolítano Paolo, Valentini Enrico,
Napolitano Adriana, Comune di Caserta (parti civili)
avverso la sentenza della Corte d’appello di Napoli dell’Il ottobre 2013;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Alessandro M. Andronio;
udito il pubblico ministero, in persona del sostituto procuratore generale Aldo
Policastro, che ha concluso per l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata,
per essere il reato estinto per prescrizione, con conferma delle statuizioni civili;
udito l’avv. Tommaso Di Finizio per le parti civili private e, in sostituzione
dell’avv. Lidia Gallo, anche per il Comune di Caserta, il quale ha depositato conclusioni
scritte e note spese;
uditi l’avv. Giovanni Aricò, per Biondi e l’avv. Carlo Madonna, in sostituzione
dell’avv. Italo Madonna, per Biondi, nonché, in sostituzione dell’avv. Carlo Marino, per
Sarpi.

Data Udienza: 14/01/2015

RITENUTO IN FATTO
1.

— Con sentenza dell’Il ottobre 2013, la Corte d’appello di Napoli ha

confermato la sentenza del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere del 27 gennaio
2011, con la quale — per quanto qui rileva – gli imputati erano stati condannati alla
pena di un anno di reclusione, riconosciuti ad entrambi le circostanze attenuanti
generiche, nonché al risarcimento del danno in favore delle parti civili costituite, da
liquidarsi in separato giudizio, per il reato di cui agli artt. 110, 117, 323 cod. pen.

dirigente del settore urbanistica del Comune di Caserta, determinavano a favore del
primo l’ingiusto vantaggio conseguente all’edificazione di un immobile difforme
rispetto alle vigenti disposizioni di legge. In particolare, Biondi sottoscriveva la nota
del 7 gennaio 2002, nella quale attestava che l’intervento, rappresentato da due
edifici ad uso commerciale e una strada, in realtà incompatibili con la destinazione
urbanistica della zona a verde pubblico attrezzato, era compatibile con il piano
regolatore e il regolamento edilizio; tale nota era posta alla base della delibera della
Giunta comunale del 10 maggio 2002, con la quale si rilasciavano i permessi di
costruire e si omettevano i controlli circa le d.i.a. presentate.
2. — Avverso la sentenza l’imputato Biondi ha proposto — tramite il difensore —
ricorso per cassazione, chiedendone l’annullamento.
2.1. — Con un primo motivo di doglianza, si rileva l’erronea applicazione degli
artt. 323 cod. pen. e 27 del d.P.R. n. 380 del 2001, nonché dell’art. 26 delle norme di
attuazione del piano regolatore generale del Comune di Caserta. Si lamenta, in
particolare, che i giudici di primo e secondo grado avrebbero uniformato la loro
interpretazione dell’articolo 26 dello strumento urbanistico alla sentenza del Consiglio
di Stato 6 agosto 2013, con la quale si è ritenuto che la realizzazione della struttura
fosse in contrasto con la destinazione dell’area sulla quale questa insiste, ovvero con
la finalità a verde pubblico attrezzato della zona, qualificata F3 nell’ambito del piano
regolatore comunale. Osserva la difesa che il giudice amministrativo aveva trascurato
di indicare gli indici di fabbricabilità di 1 m 3 per metro quadro e di piantumazione di
150 alberi per ettaro previsti dallo stesso art. 26. Secondo la prOspettazione difensiva,
tali indici sarebbero diretti ad assicurare la prevalenza del verde per le strutture
commerciali realizzabili in zona. A tali considerazioni la difesa aggiunge che la Corte
d’appello non avrebbe verificato l’idoneità dello Strumento di intervento per l’apparato
distributivo (S.i.a.d.) a legittimare la condotta dell’imputato. In particolare, il
Tribunale aveva escluso la rilevanza di tale strumento ai fini del rilascio dei permessi

perché, Sarpi, in qualità di rappresentante di un consorzio e Biondi, in qualità di

di costruire in zona F3, perché la sua applicabilità era subordinata alla modifica del
piano regolatore, che era avvenuta con una serie di deliberazioni, da ritenersi
inefficaci, in quanto non adottate secondo la procedura prevista per le varianti. A tale
conclusione la difesa aveva obiettato che per le medie strutture inferiori, quale quella
in oggetto, il S.i.a.d. non prevedeva la variante al piano regolatore e che, nell’analoga
vicenda del centro commerciale Iperion, si era dichiarata la definitiva condonabilità
dello stesso senza ricorso alla procedura di variante. La stessa difesa lamenta che

2.2. — Si deducono, in secondo luogo, la mancanza e la manifesta illogicità della
motivazione nonché l’erronea applicazione degli artt. 42, 43, 323 cod. pen., in
relazione al dolo del reato contestato. Questo sarebbe stato dedotto dalla Corte
d’appello dalla specifica competenza professionale dell’imputato e dalla macroscopica
violazione di legge dal medesimo operato, senza alcun riferimento alla volontà diretta
a procurare un ingiusto vantaggio patrimoniale al privato costruttore, con il quale secondo la difesa — Biondi non aveva alcun rapporto. Si richiamano a tal fine
un’ordinanza del Tar Salerno n. 240 del 2007 nonché «l’impropria, ma significativa
iniziativa» dell’imputato di chiedere chiarimenti alla procura della Repubblica circa la
condotta da seguire in tema di rilascio del permesso di costruire in zona F3. Si
osserva, altresì, che le sentenze del giudice amministrativo che avevano interpretato
la normativa vigente in modo difforme dall’interpretazione datane da Biondi erano
successive all’adozione degli atti da parte di quest’ultimo.

E la stessa difesa aveva

evidenziato che l’unico elemento che avrebbe dovuto indurre l’imputato ad adeguarsi
ai dettami dei giudici amministrativi era rappresentato dalla pronuncia del Tar,
peraltro gravata di appello al momento del rilascio della variante n. 225 del 2004.
Lamenta la stessa difesa che, in ogni caso, i giudici di secondo grado nulla avevano
osservato sul punto.
2.3. — Con un terzo motivo di ricorso, si rilevano l’erronea applicazione dell’art.
185 cod. pen., nonché la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della
motivazione quanto alla qualificazione come danneggiati del reato dei soggetti privati
che si erano costituiti parte civile. La sentenza aveva attribuito a tali soggetti la
qualità di danneggiati sulla base della prossimità dei loro appartamenti alla zona
interessata gli interventi rinchiusi, senza richiamare alcun ulteriore elemento di prova.
2.4. — Il quarto luogo, si rileva la violazione degli art. 158 cod. pen. e 129 cod.
proc. pen. Secondo la difesa, la Corte d’appello avrebbe erroneamente ancorato la
decorrenza dei termini prescrizionali alla condotta contestata il 15 marzo 2006, data in

Corte d’appello non si sarebbe pronunciata su tale profilo.

cui ‘Biondi aveva disposto l’abbattimento dei manufatti in precedenza assentiti. A tale
conclusione la Corte d’appello era giunta ritenendo che nella fattispecie si versasse in
un’ipotesi di abuso d’ufficio caratterizzato da comportamenti sia connmissivi che
omissivi. La condotta comissiva si sarebbe esaurita con il rilascio dei provvedimenti
autorizzativi del 12 agosto 2002 e del 28 settembre 2004, mentre la condotta
omissiva sarebbe cessata il 15 marzo 2006, con l’omesso controllo sulle d.i.a.

espressione di un’attività illecita già verificatasi in precedenza, ma, in ogni caso, il
potere di intervento della pubblica amministrazione sarebbe limitato a 30 giorni, con
la conseguenza che il momento consumativo del reato potrebbe al più individuarsi
nell’8 dicembre 2004, essendo stata presentata l’ultima d.i.a. 1’8 novembre
precedente.
3. – La sentenza è stata impugnata anche dal difensore di Sarpi, il quale ha
proposto censure analoghe a quelle contenute nel ricorso del coimputato Biondi.
CONSIDERATO IN DIRITTO
4. – I ricorsi, basati su censure comuni a entrambi ricorrenti, non sono fondati;
nondimeno deve essere dichiarata la prescrizione del reato, con conferma delle
statuizioni civili.
4.1. — Con il primo motivo di doglianza, le difese lamentano che la Corte
d’appello non avrebbe tenuto conto dell’indice di fabbricabilità e di piantumazione per
le zone F3, indicati dall’art. 26 delle norme di attuazione del piano regolatore generale
del Comune, né dell’efficacia dello Strumento di intervento per l’apparato distributivo
(S.i.a.d.).
Si tratta di rilievi inammissibili.
Quanto al citato art. 26, dalla stessa prospettazione difensiva emerge l’assoluta
genericità dei richiami agli indici di fabbricabilità e di pianturnazione nel caso in
esame. Infatti i ricorrenti non prospettano neanche con il ricorso per cassazione di
avere rispettato tali indici — che sono di 1 m 3 per metro quadro e di 150 alberi per
ettaro — nell’edificazione degli edifici abusivi. Ma, anche a voler prescindere da questa
assorbente considerazione, l’interpretazione che i ricorrenti forniscono di tale clausola
delle norme attuative dello strumento umanistico risulta manifestamente erronea. Essi
sostengono, senza alcun appiglio testuale, che la presenza dei richiamati indici
sostanzialmente autorizzerebbe nella zona, destinata a verde pubblico attrezzato,
l’edificazione di qualunque edificio a carattere commerciale. E tale affermazione risulta
puntualmente smentita dalla Corte d’appello e dal Consiglio di Stato (con sentenza del
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presentate dall’interessato. Secondo la difesa tali d.i.a. sarebbero solo l’ulteriore

6 agosto 2013 riferita al caso qui in esame), i quali hanno chiarito che le strutture
commerciali possono essere ammesse solo in forma coerente con l’uso pubblico della
conservazione del verde, ovvero in funzione meramente accessoria e servente;
mentre nel caso di specie vi era una destinazione puramente commerciale della
struttura, nella quale venivano svolte attività che, per le dimensioni e la funzione,
erano esclusivamente asservite ad interessi di tipo privatistico.
Quanto alla portata del S.i.a.d., gli stessi ricorrenti ricordano che il Tribunale ne

regolatore generale. E, al fine di contrastare tale affermazione dei giudici di merito, si
limitano genericamente a sostenere che, per la determina n. 4 del 2012, adottata dal
Comune di Caserta, che dava esecuzione ad altra sentenza del Consiglio di Stato n.
4503 del 27 luglio 2010, intervenuta nella affine vicenda del centro commerciale
Iperion, dichiarandone la definitiva condonabilità, non era stato necessario il ricorso
alla procedura di variante al piano regolatore generale. Ma anche a prescindere da tali
considerazioni, deve rilevarsi che l’art. 8, comma 4, del S.i.a.d. contiene una disciplina
sostanzialmente omogenea a quella dell’art. 26 delle norme di attuazione dello
strumento urbanistico — la cui violazione è stata concordemente affermata dai giudici
amministrativi e dei giudici penali merito — perché consente la localizzazione di
attività commerciali nelle zone territoriali omogenee F3 solo a condizione che gli
interventi siano strutturati in parte per la realizzazione delle aree di verde pubblico, in
parte per la costruzione del sistema infrastrutturale di comunicazione viaria, in parte
per l’insediamento dell’esercizio di vendita, così ampiamente sottolineando la natura
puramente accessoria e servente che le attività commerciali devono mantenere in tali
aree.
4.2. — Quanto al secondo motivo di ricorso, è sufficiente qui rilevare che i
giudici di primo e secondo grado muovono dalle evidenze processuali, costituite dalla
macroscopicità della violazione e dalla specifica competenza tecnica di entrambi gli
imputati, per farne logicamente conseguire, pur in mancanza di prova di un accordo
fra i due, la piena sussistenza dell’elemento soggettivo, rappresentato dalla piena
consapevolezza e partecipazione di entrambi gli imputati alla commissione del reato. E
la natura macroscopica dell’abuso risulta ulteriormente confermata – secondo la
coerente valutazione dei giudici di merito — dall’analogia tra la fattispecie qui in esame
e la vicenda relativa ad altro centro commerciale (Iperion) nella quale era già venuta
in rilievo l’illegittimità di insediamenti commerciali nell’area F3 destinata a verde
pubblico; con la conseguenza che, anche a prescindere dall’assoluta chiarezza delle
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aveva escluso la rilevanza, sul rilievo che non vi erano state regolari varianti al piano

disposizioni dello strumento urbanistico sul punto, vi è ulteriore conferma che gli
imputati avessero piena e puntuale contezza dell’illiceità dell’attività che andavano
svolgendo. Né osta a tale conclusione il generico richiamo della difesa a non meglio
precisati chiarimenti che l’imputato Biondi avrebbe richiesto in via preventiva alla
Procura della Repubblica.

E del resto, come costantemente affermato da questa Corte, in tema di abuso
d’ufficio, la prova del dolo intenzionale, che qualifica la fattispecie criminosa, può

dell’atto compiuto, non essendo richiesto l’accertamento dell’accordo collusivo con la
persona che si intende favorire, in quanto l’intenzionalità del vantaggio ben può
prescindere dalla volontà di favorire specificamente quel privato interessato alla
singola vicenda amministrativa (ex plurimis, sez. 6, 15 aprile 2014, n. 36179, rv.
260233; sez. 3, 7 novembre 2013, n. 48475, rv. 258290).
Ne deriva la manifesta infondatezza di tale censura.
4.3. – Il terzo motivo di ricorso – relativo alla qualificazione come danneggiati
del reato dei soggetti privati che si erano costituiti parte civile – non è fondato.
La sentenza impugnata risulta, infatti, adeguatamente motivata sul punto,
laddove evidenzia che, ai fini della condanna generica al risarcimento del danno, è
sufficiente l’accertamento di un fatto potenzialmente produttivo di conseguenze
dannose, costituendo la relativa pronuncia una mera declaratoria da cui esula ogni
accertamento sull’esistenza sulla misura del danno, rimesso in tutto per tutto al
giudice della liquidazione. In altri termini, l’accertamento di un fatto potenzialmente
produttivo di conseguenze dannose legittima la pronuncia della sentenza di condanna
generica al risarcimento dei danni, senza che il danneggiato provi l’effettiva
sussistenza dei danni ed il nesso di causalità tra questi e l’azione dell’autore
dell’illecito (ex multis, sez. 6, 26 febbraio 2009, n. 14377, rv. 24331; sez. 5, 23 aprile
2013, n. 45118, rv. 257551). E tali principi trovano applicazione anche nel caso di
specie, in cui risulta pacifica – oltre che confermata dalle sentenze del giudice
amministrativo e da quella del Tribunale – la circostanza che i soggetti privati che si
sono costituiti parte civile siano proprietari di aree confinanti (v., in particolare, le
pagg. 12-14 della sentenza del Consiglio di Stato del 6 agosto 2013).
4.4. – Il quarto motivo di ricorso – con cui si sostiene che il reato si sarebbe
prescritto prima della sentenza d’appello – è infondato.
La decisione impugnata reca sul punto un’ampia motivazione, nella quale si
chiarisce che la condotta ascritta agli imputati non si arresta alla data del rilascio della
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essere desunta anche da elementi sintomatici come la macroscopica illegittimità

concessione edilizia (12 agosto 2002), né a quella del successivo rilascio della
concessione in variante (28 settembre 2004). Essa si estende, invece, fino al 15
marzo 2006, data in cui vi fu l’ordine al consorzio a favore del quale erano stati
rilasciati i titoli abilitativi di demolire tutte le opere realizzate; disposizione impartita
dall’imputato in seguito alla sentenza emessa il 13 febbraio 2006 dal Tar Campania,
che aveva annullato entrambi i titoli concessori. Correttamente la Corte d’appello ha
rilevato che la condotta di Biondi si è sostanziata in atti commissivi e omissivi e che

denunce di inizio attività presentate in relazione ai permessi di costruire già
presentati. E del pari correttamente la stessa Corte ha richiamato la violazione
dell’art. 27 del d.P.R. n. 380 del 2001, il quale imponeva a Biondi, nella sua qualità di
dirigente del competente ufficio comunale, di esercitare la vigilanza e il controllo
sull’attività urbanistico-edilizia nel territorio. Né merita di essere condivisa la
ricostruzione difensiva secondo cui, poiché la denuncia di inizio attività diviene
pienamente operativa trascorso il termine di 30 giorni dalla data della sua
presentazione (art. 23, commi 1 e 6, del d.P.R. n. 380 del 2001), la commissione del
reato andrebbe retrodatata all’8 dicembre 2004, essendo stata presentata l’ultima
delle dia 1’8 novembre precedente. Infatti — contrariamente a quanto ritenuto dalla
difesa — l’art. 23 del d.P.R. n. 380 del 2001 riguarda semplicemente l’operatività della
denuncia di inizio attività, ma non impedisce alla pubblica amministrazione di svolgere
in ogni tempo i controlli di sua competenza; con la conseguenza che il momento
perfezionativo del reato del reato di abuso d’ufficio commesso mediante omissione
deve essere ritenuto coincidente con la cessazione dell’omissione di tali controlli.
4.5. — Il termine di prescrizione del reato risulta, però, già decorso alla data
della pronuncia della presente sentenza: a partire dal 15 marzo 2006, devono essere
infatti computati complessivi 7 anni e 6 mesi, per giungersi così al 15 settembre 2013,
cui devono essere aggiunti 72 giorni di sospensione della prescrizione, come indicato
alle pagine 8-9 della sentenza impugnata, per giungersi così alla data finale del 26
novembre 2013.
5. — Ne consegue che la sentenza impugnata deve essere annullata senza
rinvio, per essere il reato di abuso d’ufficio estinto per prescrizione. I ricorsi devono
essere nel resto rigettati e le statuizione civili di condanna generica devono essere
confermate, in conseguenza dell’avvenuto accertamento della responsabilità penale.
In considerazione della loro soccombenza in punto di responsabilità, gli imputati
devono essere altresì condannati, in solido, alla rifusione delle spese sostenute nel

l’ultimo di tali atti consiste nell’omissione dell’effettuazione dei controlli in ordine alle

grido in favore delle costituite parti civili Vanacore Luigi, Santamaria Maria Cristina,
Medici Francesco, Inclima Giovanni, Rilievi Alessandra, Falcone Maria Concetta,
Napolitano Paolo, Valentini Enrico, Napolitano Adriana, Comune di Caserta, liquidate
come in dispositivo.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata, per essere il residuo reato estinto
per prescrizione. Rigetta nel resto i ricorsi e conferma le statuizioni civili. Condanna i

civili Vanacore Luigi, Santamaria Maria Cristina, Medici Francesco, Inclirna Giovanni,
Rilievi Alessandra, Falcone Maria Concetta, Napolitano Paolo, Valentini Enrico,
Napolitano Adriana, che liquida complessivamente in euro 6657,97, comprensivi di
spese generali e accessori di legge, nonché in favore della costituita parte civile
Comune di Caserta, che liquida in euro 3000,00, oltre spese generali e accessori di
legge.
Così deciso in Roma, il 14 gennaio 2015.

ricorrenti, in solido, alla rifusione delle spese del grado in favore delle costituite parti

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