Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 19156 del 29/01/2014


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 19156 Anno 2014
Presidente: PRESTIPINO ANTONIO
Relatore: DE CRESCIENZO UGO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
PATERI ETTORE ANTONIO N. IL 01/01/1957
avverso la sentenza n. 5896/2012 CORTE APPELLO di TORINO, del
28/03/2013
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 29/01/2014 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. UGO DE CRESCIENZO
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott.
che ha concluso per
-7/21/ ce4

Udito, per la parte civile, l’Avv
Udit i difensor Avv.

Data Udienza: 29/01/2014

PATERI Ettore Antonio ricorre per Cassazione avverso la sentenza
28.3.2013 con la quale la Corte d’Appello di Torino, lo ha condannato alla
pena di anni sei di reclusione e 2.400,00 € di multa, siccome responsabile d
della violazione degli artt. 110, 628 cpv. co 3 nn. I e 3 quater; 110, 61 n. 2
648 cp; 110, 61 n. 2 cp, 10.12.14 1. 497/74; 110, 648 cp, 110 cp, 23 1.
110/75; 110 cp, 337 cp; 110, 61 n. 2 cp, 4 1. 110/75, versando nelle
condizioni di essere dichiarato delinquente abituale ex art. 103 cp e con la
recidiva reiterata e specifica ex art. 99 cp.
Con la medesima sentenza la Corte territoriale ha dichiarato l’imputato
interdetto in perpetuo dai Pubblici Uffici e in stato di interdizione legale
durante l’esecuzione pena, nonché delinquente abituale con la revoca dello
indulto già concesso con ordinanza 18.5.2007 dalla stessa Corte d’Appello
di Torino.
La difesa dell’imputato chiede l’annullamento della decisione impugnata
deducendo:
§1.) ex art. 606 P, comma lett. b) cpp, erronea applicazione dell’art. 628 HIA
comma n. 3 quater cp, perché l’aggravante è da ricondursi ai soli casi nei
quali l’azione sia diretta contro la persona che sta fruendo di servizi bancari,
mentre nel caso di specie il soggetto leso è lo istituto bancario direttamente
e non le persone in esse occasionalmente presenti.
§2.) ex art. 606 I^ comma lett. b) cpp, erronea applicazione dell’art. 337 cp,
dell’art. 110, cp e carenza di motivazione nell’indicazione delle ragioni per
le quali non è stata applicato l’art. 393 bis cp. La difesa sostiene che la
motivazione della sentenza della Cote d’Appello (con riferimento al reato
previsto dall’art. 337 cp) sarebbe illogica, perché il PATERI non avrebbe
minacciato pubblici ufficiali nell’esercizio delle loro finzioni, non avendo
impugnato l’arma contro di loro, essendo stato male interpretato ed
equivocato il gesto di portare la mano alla cintola dei pantaloni è stato male
interpretato. La difesa sostiene che la motivazione è illogica anche nella
parte in cui afferma che gli imputati hanno posto in essere l’atto di
resistenza spintonando i militari operanti. La difesa sostiene che al momento
dell’intervento dei carabinieri, gli imputati erano sotto il tiro delle armi dei
militari intervenuti e che ogni eventuale atto di resistenza non poteva che
essere inutile ed illogico. La difesa sostiene infine che la motivazione della
sentenza è carente nel punto in cui la Corte Torinese non ha ravvisato la
causa di non punibilità per gli atti compiuti contro i pubblici ufficiali,
siccome da ritenersi giustificati (quantomeno a livello putativo) da un fatto
ingiusto ed arbitrario dei pubblici ufficiali.
§3.) ex art. 606 I^ comma lett. b) cpp, erronea applicazione degli artt. 99,
133, 63 IV comma, 62 bis e 133 cp. La difesa sostiene che l’aumento della
pena derivante dall’applicazione della recidiva è sproporzionata, frutto di
un automatismo non rinvenibile nel sistema normativo e comunque priva di
adeguata motivazione che non può essere riconnessa semplicemente alla
possibile reiterazione di condotte criminose. La difesa lamenta inoltre che la
Corte d’Appello ha negato il riconoscimento delle attenuanti generiche sulla
base di alcuni soltanto degli aspetti previsti dall’articolo 133 cp, senza
prendere in considerazione quelli indicati dalla difesa a favore
dell’imputato: stato di indigenza e buona condotta carceraria, lettere di scuse
alle persone offese.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il ricorso è infondato e va rigettato per le seguenti ragioni.
Il comma 3 n. 3 quater dell’art. 628 cp (introdotto dell’art. 3, comma 27 lett.
a) della legge 15.7.2009 n. 94), prevede l’aggravamento della pena nel caso
in cui il delitto sia commesso nei confronti di persona che si trovi nell’atto
di fruire ovvero abbia appena fruito di servizi di istituti di credito, uffici
postali, o sportelli automatici adibiti al prelievo di denaro.
Nel caso in esame la rapina è stata compiuta all’interno di un istituto
bancario e la condotta minacciosa (consistita nell’uso di armi) è stata
realizzata tanto nei confronti dei dipendenti dell’istituto bancario, quanto, ed
in particolare nei confronti di persone che erano presenti al suo interno
proprio per fruire dei servizi erogati dalla banca. La disposizione nel suo
testo letterale non consente di distinguere, ai fini della ricorrenza della
circostanza, come sostiene la difesa, tra soggetto danneggiato (banca) e
persone offese (clienti) nel presupposto che se il delitto è indirizzato solo
nei confronti della prima non possa ricorrerne l’applicazione; l’aggravante è
integrata per il solo fatto che l’azione coinvolga anche persone solo presenti
all’interno dell’istituto proprio per fruire dei suoi servizi, perché il delitto
viene commesso nei confronti anche di questi ultimi che ne sono al
contempo parte offese e danneggiate non necessariamente nel solo aspetto
economico. La tesi della difesa, per la quale l’aggravante si consumerebbe
nel solo caso in cui l’obbiettivo della rapina fosse la sola persona che
“fruisce dei servizi” bancari, sarebbe meritevole di attenzione se il
legislatore avesse formulato la disposizione in termini diversi adoperando,
per esempio, l’ espressione “in danno” di persona che si trovi nell’atto di
fruire dei servizi; infatti in tale caso sarebbe stata evidente la volontà del
legislatore di limitare la tutela di determinate persone in particolari
situazioni. E’ invece chiaro che la tutela predisposta con l’art. 628 comma 3
sub 3 quater cp, investe una situazione più ampia di quella prospettata dalla
difesa ed è volta a punire più gravemente il fatto, in quanto commesso in un
determinato luogo (banca, ufficio postale, o nei suoi pressi) ove la persona
offesa è più esposta ad essere coinvolta in aggressioni violente.
La aggravante è una circostanza oggettiva che si realizza per il solo fatto che
la vittima del delitto versi comunque nella situazione fattuale descritta dalla
fattispecie incriminatrice.
La doglianza è infondata e va pertanto rigettata.
Con il secondo motivo la difesa denuncia un’insussistente violazione della
legge penale. La Corte territoriale nel valutare il fatto ascritto all’imputato
non ha errato nell’applicazione della norma penale dell’art. 337 cp, né la
difesa fornisce indicazione degli asseriti errori di diritto, lamentando,
aspetti in fatto oggettivamente riconducibili alla prospettazione di possibili
ricostruzione alternative della vicenda, senza peraltro fornire la
dimostrazione che quella indicata dalla Corte d’Appello sia manifestamente
illogica o contraddittoria.
La difesa sostiene che, a seguito dell’impatto dell’auto (utilizzata dal
PATERI e dai suoi complici per fuggire dal luogo della commessa rapina) e
del suo semicappottamento, l’imputato: “… può avere messo mano alla
cintola (ove era trattenuta l’arma da fuoco) per ragioni del tutto diverse da
quelle ipotizzate, per esempio per ovviare al fastidio creato dall’impatto e
da una eventuale compressione dovuta proprio alla presenza della pistola

RITENUTO IN DIRITTO

spostatasi a causa dell’urto. Peraltro il fatto che il PATERI sia sceso
dall’auto subito nonostante le obiettive difficoltà connesse con il fatto che
essa fosse poggiata su un fianco dopo lo scoppio delle gomme, è elemento
che, lungi dal connotare il gesto di volontà intimidatoria, dà la contezza
della sua casualità…”
La difesa aggiunge che a fronte di una mancanza di prova che la condotta
del PATERI fosse connotata da dolo specifico, osserva che anche il solo
spintonamento degli agenti di polizia non vale a costituire atto di resistenza
al Pubblico Ufficiale per contrastare l’arresto.
L’argomento difensivo non può essere accolto in questa sede perché è
generico. Sul punto dell’individuazione, prova, descrizione e valutazione
delle condotte di resistenza ascritte agli imputati (capo h della rubrica
dell’imputazione), la Corte ha reso un’articolata motivazione, che non è
stata specificatamente confutata; la difesa in questa sede si è limitata a
riproporre la questione già dedotta, negli stessi identici termini, in grado di
appello ed alla quale la Corte territoriale ha dato risposta esauriente non
illogica né contraddittoria che non è stata confutata in termini specifici e
pertinenti.
L’elemento di prova del fatto ascritto agli imputati (con la analitica
descrizione delle condotte dei singoli tutti concorrenti nella violazione
dell’art. 337 cp) viene ricondotta alle dichiarazioni testimoniali rese dai
militari dei Carabinieri intervenuti nell’operazione di inseguimento dei
veicolo occupato dal PATERI e dai suoi complici. La Corte d’Appello, sulla
scorta del contenuto del capo di imputazione, ha ravvisato la violazione
dell’art. 337 cp, sulla scorta di due distinte fasi nel corso delle quali si sono
estrinsecati i comportamenti di resistenza. Durante una prima fase gli
imputati, tutti a bordo della medesima auto, hanno cercato di sfuggire
all’intervento delle forze dell’ordine, procedendo ad alta velocità ed
effettuando, nel corso dell’inseguimento manovre volte a speronare il
veicolo dei Carabinieri. In diritto va osservato che la condotta descritta
integra perfettamente la fattispecie di cui all’art. 337 cp. Infatti la materialità
del delitto di resistenza al pubblico ufficiale è integrata anche dalla violenza
cosiddetta impropria, la quale, pur non aggredendo direttamente il suddetto
soggetto, si riverbera negativamente nell’esplicazione della relativa funzione
pubblica, impedendola o semplicemente ostacolandola. Solo la resistenza
passiva, in quanto negazione di qualunque forma di violenza o di minaccia,
rimane al di fuori della previsione legislativa di cui all’art. 337 cod. pen.
(Cass. 25.5.1996/7061]; di qui consegue che nel reato di resistenza a
pubblico ufficiale la violenza consiste in un comportamento idoneo ad
opporsi, in maniera concreta ed efficace, all’atto che il pubblico ufficiale sta
legittimamente compiendo, sicché deve rispondere di tale reato il soggetto
che, alla guida di un’autovettura, anziché fermarsi all’alt intimatogli dagli
agenti della Polizia, si dia alla fuga ad altissima velocità e, al fine di
vanificare l’inseguimento, ponga in essere manovre di guida tali da creare
una situazione di generale pericolo [Cass. 8.4.2003 n. 31716].
La condotta di resistenza risulta inoltre essere proseguita, nel corso di una
seconda fase, susseguente al capottamento del veicolo a bordo del quale si
trovava il PATERI; da questo momento l’atto di resistenza si è frazionato in
condotte attribuibili a singoli imputati; l’illecito si è realizzato, per il
PATERI nel portare la mano all’altezza della cintola ove era trattenuta una
pistola, gesto che ha determinato uno dei militari ad esplodere un colpo di

Pe le suddette ragioni il ricorso deve essere rigettato e il ricorrente va
condannato al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali.
Così deciso in Roma il 29.1.2014

arma da fuoco all’indirizzo del veicolo incidentato per porre termine ad una
azione che si prospettava assumere toni ancor più drammatici.
La ricostruzione del fatto è fondato su un dato di prova che non è stato posto
in discussione in questa sede, infatti la valutazione degli atti e delle
dichiarazioni dei militari operanti e la decisione impugnata non è stata posta
in discussione dalla difesa, né sotto il profilo della logicità della
motivazione, né sotto il diverso profilo della corretta valutazione delle fonti
di prova. La difesa ricorrente prospetta solo ricostruzioni alternative della
vicenda e una diversa lettura del dato probatorio che è preclusa in sede di
legittimità.
Il terzo motivo di ricorso è manifestamente infondato. Il ricorrente non ha
indicato in modo preciso e puntuale eventuali errori di diritto contenuti nella
sentenza impugnata, derivanti nell’applicazione degli artt. 99 e 63 cp; sotto
questo aspetto le doglianze sono generiche, tendenti a mettere in discussione
aspetti di apprezzamento in fatto e come tali estranei alla materia del
giudizio di legittimità. Analogo giudizio deve essere espresso con
riferimento alle ulteriori doglianze riguardanti l’aspetto sanzionatorio. La
decisione della Corte territoriale è puntualmente motivata e la negazione
delle attenuanti generiche non è sindacabile nel merito trattandosi di
valutazione fondata sull’applicazione dell’art. 133 cp, alla luce della
costante giurisprudenza sul punto, per la quale: 1) ai fini della
determinazione della pena, il giudice può tenere conto di uno stesso
elemento che abbia attitudine a influire su diversi aspetti della valutazione,
ben potendo un dato polivalente essere utilizzato più volte sotto differenti
profili per distinti fini senza che ciò comporti lesione del principio del “ne
bis in idem” [Cass. 23.10.2013 n. 45623]; 2) la concessione o meno delle
attenuanti generiche rientra nell’ambito di un giudizio di fatto rimesso alla
discrezionalità del giudice, il cui esercizio deve essere motivato nei soli
limiti atti a far emergere in misura sufficiente la sua valutazione circa
l’adeguamento della pena alla gravità effettiva del reato ed alla personalità
del reo [Cass. 28.10.2010/41365]

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