Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 19148 del 16/04/2013


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 19148 Anno 2013
Presidente: FIANDANESE FRANCO
Relatore: DI MARZIO FABRIZIO

SENTENZA

Sul ricorso proposto da
Ghigini Francesco, nato il 14.8.1967
avverso la sentenza della Corte di appello di Bologna, del 12.1.2012.
Sentita la relazione della causa fatta dal consigliere Fabrizio Di Marzio.
Udita la requisitoria del sostituto procuratore generale Roberto Aniello, il
quale ha concluso chiedendo annullamento seria rinvio della sentenza
impugnata per intervenuta prescrizione;
RITENUTO IN FATTO
1. Con la sentenza in epigrafe la Corte di appello di Bologna ha confermato
la sentenza del Tribunale di Piacenza del 8.4.2009, di condanna
dell’imputato per il delitto di cui all’art. 640 c.p. perché, in qualità di
promotore finanziario, abusando del mandato ricevuto dalla parte offesa

Data Udienza: 16/04/2013

T

relativo alla gestione di un portafoglio titoli, la traeva in inganno mostrando
rendiconti falsi sull’andamento degli investimenti effettuati.
2. Ricorre, assistito da difensore, l’imputato, contestando violazione di legge
e vizio motivazionale per la ritenuta penale responsabilità osservando: che
la banca presso cui lavorava l’imputato inviava rendiconti corretti ai propri
clienti, che dunque non avrebbero potuto essere indotti in inganno da quelli
falsi realizzati dall’imputato; che tale fatto era noto all’imputato, che dunque

stato provato il danno, non essendo emerso se gli ordini dei clienti fossero
stati o meno effettivamente determinati dall’inganno subito; che non si
rinverrebbe l’ingiusto profitto dell’imputato, infatti anche licenziato a seguito
dell’esito negativo degli investimenti.

CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è manifestamente infondato.
Questa Corte ha ripetutamente affermato che ricorre il vizio di motivazione
illogica o contraddittoria solo quando emergono elementi di illogicità o
contraddizioni di tale macroscopica evidenza da rivelare una totale estraneità fra
le argomentazioni adottate e la soluzione decisionale (Cass. 25 maggio 1995, n.
3262). In altri termini, occorre che sia mancata del tutto, da parte del giudice, la
presa in considerazione del punto sottoposto alla sua analisi, talché la
motivazione adottata non risponda ai requisiti minimi di esistenza, completezza e
logicità del discorso argomentativo su cui la decisione è fondata e non contenga
gli specifici elementi esplicativi delle ragioni che possono aver indotto a
disattendere le critiche pertinenti dedotte dalle parti (Cass. 15 novembre 1996,
n. 10456).
Queste conclusioni restano ferme pur dopo la legge n. 46 del 2000 che,
innovando sul punto l’art. 606 lett. e) c.p.c., consente di denunciare i vizi di
motivazione con riferimento ad “altri atti del processo”: alla Corte di cassazione
resta comunque preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento
della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi o diversi parametri di
ricostruzione e valutazione dei fatti, ritenuti maggiormente plausibili o dotati di
una migliore capacità esplicativa, dovendosi essa limitare a controllare se la
motivazione dei giudici di merito sia intrinsecamente razionale e capace di
rappresentare e spiegare l’iter logico seguito, (ex plurimis: Cass. 10 ottobre 2008
n. 38803). Quindi, pur dopo la novella, non hanno rilevanza le censure che si

non avrebbe potuto nutrire il dolo di truffa; che in ogni caso non sarebbe

i

limitano ad offrire una lettura alternativa delle risultanze probatorie, dal
momento che il sindacato della Corte di cassazione si risolve pur sempre in un
giudizio di legittimità e la verifica sulla correttezza e completezza della
motivazione non può essere confusa con una nuova valutazione delle risultanze
acquisite. La Corte, infatti, deve limitarsi a verificare se la giustificazione del
giudice di merito sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una
plausibile opinabilità di apprezzamento (v. Cass. 3 ottobre 2006, n. 36546; Cass.

10 luglio 2007, n. 35683; Cass. 11 gennaio 2007, n. 7380) e tale da superare il
limite del ragionevole dubbio. La condanna al là di ogni ragionevole dubbio
implica, infatti, in caso di prospettazione di un’alternativa ricostruzione dei fatti,
che siano individuati gli elementi di conferma dell’ipotesi ricostruttiva accolta, in
modo da far risultare la non razionalità del dubbio derivante dalla stessa ipotesi
alternativa, con la precisazione che il dubbio ragionevole non può fondarsi su
un’ipotesi alternativa del tutto congetturale seppure plausibile (v. Cass. sez. IV,
17.6.2011, n. 30862; sentenza Sezione 1^, 21 maggio 2008, Franzoni, rv.
240673; anche Sezione 4^, 12 novembre 2009, Durante, rv. 245879).
La motivazione è invece mancante non solo nel caso della sua totale assenza, ma
anche quando le argomentazioni addotte dal giudice a dimostrazione della
fondatezza del suo convincimento siano prive di completezza in relazione a
specifiche doglianze formulate dall’interessato con i motivi d’appello e dotate del
requisito della decisività (Cass. 17 giugno 2009, n. 35918).
Nessuno di tali vizi ricorre nel caso di specie, dal momento che il giudice di
appello ha esposto un ragionamento argomentativo coerente, completo e privo di
discontinuità logiche giungendo per tale via ad una adeguata ricostruzione dei
fatti e a una corretta qualificazione giuridica degli stessi. La Corte territoriale ha
infatti in primo luogo rilevato come l’imputato inviasse falsi rendiconti ai propri
clienti, così tranquillizzandoli sull’andamento dei propri investimenti in realtà
fortemente negativo, lucrando conseguentemente le provvigioni (cfr. pp. 2-4
della sentenza impugnata). In tal modo ha dato risposta alle censure oggi
risollevate dalla difesa senza alcuna critica considerazione delle motivazioni
espresse dalla Corte territoriale, ed adducendo per di più rilievi anche illogici
(come quello sulla mancanza del dolo di truffa nell’invio di rendiconti falsi, o sulla
assenza di profitto per avere alla fine l’imputato perso il posto di lavoro).
Da ultimo il Collegio osserva che non possono trovare applicazione le norme sulla
prescrizione del reato, pur essendo maturati i relativi termini dopo la data del

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giudizio di appello e prima del presente giudizio di cassazione. Ciò dal momento
che – secondo la giurisprudenza delle Sezioni Unite di questa Corte l’inammissibilità del ricorso per cassazione dovuta alla mancanza, nell’atto di
impugnazione, dei requisiti prescritti dall’articolo 581 cod. proc. pen., ovvero alla
manifesta infondatezza dei motivi non consente il formarsi di un valido rapporto
di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare le
cause di non punibilità a norma dell’articolo 129 cod. proc. pen. (cfr.: Cass. Sez.

n. 32 del 22.11. 2000 dep. 21.12.2000 rv 217266).
Cosicché, essendo la prescrizione maturata in data successiva a quella della
pronuncia impugnata (ossia in data 24.3.2012), la stessa non può essere
dichiarata in questa sede.
2. Ne consegue, per il disposto dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al
pagamento delle spese processuali nonché al versamento, in favore della Cassa
delle ammende, di una somma che, considerati i profili di colpa emergenti dal
ricorso, si determina equitativamente in euro 1000.
PQM
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di euro 1000 alla Cassa delle ammende.
Così deliberato il 16.4.2013

Il Co sigliere estensore
(Fa izio Di Marzio
cAe 1-C

Il Presidente
(F anco Fian anese)

Un., sent. n. 21 del 11.11.1994 dep. 11.2.1995 rv 199903; Cass. Sez. Un., sent.

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