Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 19143 del 08/04/2014


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 19143 Anno 2014
Presidente: SQUASSONI CLAUDIA
Relatore: FRANCO AMEDEO

SENTENZA
sui ricorsi proposti da Russo Antonio, nato a Napoli il 10.6.1977, e da Sileno Antonio, nato a Napoli il 25.6.1977;
avverso la sentenza emessa 1’11 luglio 2013 dal giudice per le indagini
preliminari del tribunale di Genova;
udita nella udienza in camera di consiglio dell’8 aprile 2014 la relazione
fatta dal Consigliere Amedeo Franco;
lette le conclusioni del Procuratore generale dott. Francesco Salzano, che
ha concluso per l’inammissibilità dei ricorsi;
Svolgimento de/processo
Con sentenza emessa 1’11 luglio 2013 ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen.,
il Gip del tribunale di Napoli applicò a Russo Antonio ed a Sileno Antonio, in
relazione al reato di cui all’art. 73, comma 1 bis, d.p.R. 309 del 1990, per avere detenuto a fini di spaccio circa un Kg. di sostanza stupefacente tipo cocaina, la
pena, concordata tra le parti, per il Russo di anni 3 di reclusione ed € 20.000 di
multa (p.b., con l’attenuante di cui all’art. 73, comma 7, anni 4 e mesi 6 ed €
30.000, ridotta ex art. 444), e per il Sileno di anni 2 di reclusione ed € 14.000 di
multa (p.b., con l’attenuante di cui all’art. 73, comma 7, ritenuta prevalente sulla recidiva, anni 3 ed € 21.000, ridotta ex art. 444).
Russo Antonio propone personalmente ricorso per cassazione deducendo
— erronea qualificazione giuridica del fatto perché nonostante il riconoscimento
della attenuante di cui all’art. 73, comma 7, gli è stata applicata una pena maggiore di quella del coimputato Sileno.
Sileno Antonio propone personalmente ricorso per cassazione deducendo
carenza di motivazione in ordine al mancato proscioglimento ex art. 129 cod.
proc. pen.

Data Udienza: 08/04/2014

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I ricorsi sono inammissibili e comunque manifestamente infondati.
Quanto al ricorso del Russo – con il quale in sostanza ci si lamenta della
congruità della pena – può ricordarsi che «Nel ricorso per cassazione, avverso
sentenza che applichi la pena nella misura patteggiata tra le parti, non è ammissibile proporre motivi concernenti la misura della pena, a meno che si versi
in ipotesi di pena illegale. La richiesta di applicazione della pena e l’adesione
alla pena proposta dall’altra parte integrano, infatti, un negozio di natura processuale che, una volta perfezionato con la ratifica del giudice che ne ha accertato la correttezza, non è revocabile unilateralmente, sicché la parte che vi ha
dato origine, o vi ha aderito e che ha così rinunciato a far valere le proprie difese ed eccezioni, non è legittimata, in sede di ricorso per cassazione, a sostenere tesi concernenti la congruità della pena, in contrasto con l’impostazione
dell’accordo al quale le parti processuali sono addivenute» (Sez. III,
27.3.2001, n. 18735, Ciliberti, m. 219852).
Nel caso di specie la pena applicata non può ritenersi illegale.
Quanto al ricorso del Sileno, va ricordato che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, facendo richiesta di applicazione della pena, l’imputato rinuncia ad avvalersi della facoltà di contestare l’accusa, o, in altri termini,
non nega la sua responsabilità ed esonera l’accusa dall’onere della prova; la sentenza che accoglie detta richiesta contiene quindi un accertamento ed un’affermazione implicita della responsabilità dell’imputato, e pertanto l’accertamento
della responsabilità non va espressamente motivato (Sez. Un. 27 marzo 1992,
Di Benedetto, m. 191.134); e che pertanto, nello speciale procedimento di cui
agli artt. 444 e segg. cod. proc. pen. la sentenza che applichi la pena «patteggiata» non può formare oggetto di ricorso per cassazione per mancanza di motivazione sui presupposti di fatto della responsabilità dell’imputato, poiché la sussistenza di essi viene da lui ammessa in modo implicito, ma univoco, nel momento stesso in cui egli richiede il patteggiamento o aderisce ad analoga richiesta
del P.M. (Sez. VI, 21 maggio 1991, Grimaldi, m. 188.084).
Inoltre, nel caso di sentenza di applicazione della pena su richiesta delle
parti, l’obbligo di motivazione non può non essere conformato alla particolare
natura giuridica della sentenza di patteggiamento, rispetto alla quale, pur non
potendo ridursi il compito del giudice a una funzione di semplice presa d’atto
del patto concluso tra le parti, lo sviluppo delle linee argomentative della decisione è necessariamente correlato all’esistenza dell’atto negoziale con cui l’imputato dispensa l’accusa dall’onere di provare i fatti dedotti nell’imputazione; ne
consegue che il giudizio negativo circa la ricorrenza di una delle ipotesi di cui
all’art. 129 cod. proc. pen. deve essere accompagnato da una specifica motivazione soltanto nel caso in cui dagli atti o dalle deduzioni delle parti emergano
concreti elementi circa la possibile applicazione di cause di non punibilità, dovendo, invece, ritenersi sufficiente, in caso contrario, una motivazione consistente nell’enunciazione — anche implicita che è stata compiuta la verifica
richiesta dalla legge e che non ricorrono le condizioni per la pronuncia di proscioglimento ex art. 129 cod. proc. pen. (Sez. Un., 27 settembre 1995, Serafino,
m. 202.270), il che nella specie si è appunto verificato, avendo la sentenza i –

Motivi della decisione

pugnata escluso la sussistenza dei presupposti per l’applicabilità dell’art. 129
cod. proc. pen.
Il motivo è anche generico perché non è stata nemmeno indicata la causa
di proscioglimento che non sarebbe stata presa in considerazione.
I ricorsi devono pertanto essere dichiarati inammissibili per manifesta infondatezza e genericità dei motivi.
In applicazione dell’art. 616 cod. proc. pen., segue la condanna di ciascun
ricorrente al pagamento delle spese processuali e, in mancanza di elementi che
possano far ritenere non colpevole la causa di inammissibilità dei ricorsi, al pagamento in favore della cassa delle ammende di una somma, che, in considerazione delle ragioni di inammissibilità del ricorso stesso, si ritiene congruo fissare in € 1.500,00.
Per questi motivi
La Corte Suprema di Cassazione
dichiara inammissibili i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento
delle spese processuali e della somma di € 1.500,00 in favore della cassa delle
ammende.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte Suprema di Cassazione, 1’8
aprile 2014.

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