Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 19138 del 05/04/2013


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 19138 Anno 2013
Presidente: CARMENINI SECONDO LIBERO
Relatore: DI MARZIO FABRIZIO

SENTENZA

Sul ricorso proposto da
Franchetti Stefano, nato il giorno 3.9.1977
avverso la sentenza della Corte di appello di Roma, del 9.1.2012.
Sentita la relazione della causa fatta dal consigliere Fabrizio Di Marzio.
Udita la requisitoria del sostituto procuratore generale Aldo Policastro, il
quale ha concluso chiedendo che il ricorso sia rigettato

RITENUTO IN FATTO
1. Con la sentenza in epigrafe la Corte di appello di Nem& ha confermato la
sentenza di condanna dell’imputato Stefano Franchetti pronunciata in primo
grado per il delitto di rapina a mano armata.
2. Ricorre l’imputato contestando violazione di legge e vizio di motivazione: /

Data Udienza: 05/04/2013

- per aver ritenuto la Corte di appello a carattere minaccioso la condotta
ascritta all’imputato: ossia di puntare qualcosa alla nuca della vittima
pronunciando la frase “prendo la macchina”;
– per avere la Corte territoriale ritenuto integrata l’aggravante dell’uso
dell’arma pur non essendo stato appurato cosa fosse stato puntato alla nuca
della vittima e dietro l’insufficiente rilievo che nella automobile della stessa
era stato successivamente rinvenuto un coltello non appartenente alla

– per avere la Corte territoriale ritenuto integrata l’aggravante delle più
persone riunite pur essendosi risolto il contributo del complice dell’imputato
nel salire a bordo dell’autovettura una volta sottratta la stessa alla vittima;

per avere la Corte territoriale fondato la propria decisione sul mero

riconoscimento fotografico da parte della vittima, il quale non costituirebbe
prova.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è manifestamente infondato.
Quanto alla contestazione relativa al valore probativo del riconoscimento
fotografico, è sufficiente rammentare che il riconoscimento fotografico
operato in sede di indagini di polizia giudiziaria non è regolato dal codice di
rito e costituisce un accertamento di fatto utilizzabile in giudizio in base ai
principi di non tassatività dei mezzi di prova e del libero convincimento del
giudice; la certezza della prova non discende dal riconoscimento come
strumento probatorio, ma dall’attendibilità accordata alla deposizione di chi
si dica certo dell’individuazione (Cass. sez. V 10.2.2009, n. 22612).
Inoltre, questa Corte ha ripetutamente affermato che ricorre il vizio di
motivazione illogica o contraddittoria solo quando emergono elementi di
illogicità o contraddizioni di tale macroscopica evidenza da rivelare una
totale estraneità fra le argomentazioni adottate e la soluzione decisionale
(Cass. 25 maggio 1995, n. 3262). In altri termini, occorre che sia mancata
del tutto, da parte del giudice, la presa in considerazione del punto
sottoposto alla sua analisi, talché la motivazione adottata non risponda ai
requisiti minimi di esistenza, completezza e logicità del discorso
argomentativo su cui la decisione è fondata e non contenga gli specifici
elementi esplicativi delle ragioni che possono aver indotto a disattendere le
critiche pertinenti dedotte dalle parti (Cass. 15 novembre 1996, n. 10456).

vittima;

Queste conclusioni restano ferme pur dopo la legge n. 46 del 2000 che,
innovando sul punto l’art. 606 lett. e) c.p.c., consente di denunciare i vizi di
motivazione con riferimento ad “altri atti del processo”: alla Corte di
cassazione resta comunque preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti
a fondamento della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi o
diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, ritenuti
maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa,

sia intrinsecamente razionale e capace di rappresentare e spiegare l’iter
logico seguito, (ex plurimis: Cass. 1° ottobre 2008 n. 38803). Quindi, pur
dopo la novella, non hanno rilevanza le censure che si limitano ad offrire
una lettura alternativa delle risultanze probatorie, dal momento che il
sindacato della Corte di cassazione si risolve pur sempre in un giudizio di
legittimità e la verifica sulla correttezza e completezza della motivazione
non può essere confusa con una nuova valutazione delle risultanze
acquisite. La Corte, infatti, deve limitarsi a verificare se la giustificazione del
giudice di merito sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una
plausibile opinabilità di apprezzamento (v. Cass. 3 ottobre 2006, n. 36546;
Cass. 10 luglio 2007, n. 35683; Cass. 11 gennaio 2007, n. 7380) e tale da
superare il limite del ragionevole dubbio. La condanna al là di ogni
ragionevole dubbio implica, infatti, in caso di prospettazione di
un’alternativa ricostruzione dei fatti, che siano individuati gli elementi di
conferma dell’ipotesi ricostruttiva accolta, in modo da far risultare la non
razionalità del dubbio derivante dalla stessa ipotesi alternativa, con la
precisazione che il dubbio ragionevole non può fondarsi su un’ipotesi
alternativa del tutto congetturale seppure plausibile (v. Cass. sez. IV,
17.6.2011, n. 30862; sentenza Sezione 1^, 21 maggio 2008, Franzoní, rv.
240673; anche Sezione 4^, 12 novembre 2009, Durante, rv. 245879).
La motivazione è invece mancante non solo nel caso della sua totale
assenza, ma anche quando le argomentazioni addotte dal giudice a
dimostrazione della fondatezza del suo convincimento siano prive di
completezza in relazione a specifiche doglianze formulate dall’interessato
con i motivi d’appello e dotate del requisito della decisività (Cass. 17 giugno
2009, n. 35918).

dovendosi essa limitare a controllare se la motivazione dei giudici di merito

I

Nessuno di tali vizi ricorre nel caso di specie, dal momento che il giudice di
appello ha esposto un ragionamento argomentativo coerente, completo e
privo di discontinuità logiche giungendo per tale via ad una adeguata
ricostruzione dei fatti e a una corretta qualificazione giuridica degli stessi.
Deve in particolare segnalarsi che la Corte territoriale ha correttamente
desunto la prova del reato sulla scorta di logiche conclusioni fondate sul
riconoscimento fotografico della vittima; sulla narrazione dei fatti da parte

nella automobile oggetto di rapina.
Quanto alla contestazione relativa alla sussistenza dell’aggravante delle più
persone riunite, non avendo la stessa costituito motivo di appello, non può
ammissibilmente essere sollevata in questa sede.
Di talché nemmeno è riscontrabile la pur lamentata violazione di legge.
2. Ne consegue, per il disposto dell’art. 616 c.p.p., la condanna del
ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché al versamento, in
favore della Cassa delle ammende, di una somma che, considerati i profili di
colpa emergenti dal ricorso, si determina equitativamente in euro 1000.
PQM
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e al versamento in favore della Cassa delle ammende
della somma di C 1.000,00.

Roma, 5.4.2013

della stessa, sul rinvenimento del coltello – non appartenete alla vittima –

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