Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 18987 del 31/01/2014


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 18987 Anno 2014
Presidente: DUBOLINO PIETRO
Relatore: CAPUTO ANGELO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
DE FELICE ANTONIO N. IL 05/10/1955
avverso la sentenza n. 4322/2012 CORTE APPELLO di NAPOLI, del
07/03/2013
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 31/01/2014 la relazione fatta dal
Consigliere
Dott. ANGELO CAPUTO
. .

Udito, per la p e civile, l’Avv
Udit i difens r Avv.

Data Udienza: 31/01/2014

Udito il Sostituto Procuratore generale della Repubblica presso questa Corte
di cassazione dott. E. Delehaye, che ha concluso per l’annullamento senza rinvio
per prescrizione.
Udito per il ricorrente l’avv. F.

eNDPIELz, @
in sostituzione dell’avv. A.R. Briganti,

che si associa alle conclusioni del P.G.

RITENUTO IN FATTO

parziale riforma della sentenza del Tribunale di Napoli del 09/11/2011,
qualificate le condotte per le quali era intervenuta condanna ai sensi degli artt.
476, 61, primo comma, n. 9, cod. pen., ha dichiarato non doversi procedere nei
confronti di Antonio De Felice in ordine a tutte le imputazioni ascritte, ad
eccezione di quella relativa alla pratica n. 2917 del 24/02/2005, per essere i
reati estinti per prescrizione; la Corte di appello, quindi, ha rideterminato la pena
per il reato di cui alla pratica indicata, ha dichiarato l’imputato interdetto dai
pubblici uffici per la durata della pena principale e ha confermato nel resto la
sentenza impugnata, condannando l’imputato alla rifusione delle spese sostenute
dalla parte civile nel grado.
La condotta oggetto dell’imputazione, riqualificata dalla Corte di merito
quale falsità materiale in atto pubblico aggravata, si riferisce alla predisposizione
da parte dell’imputato, quale assistente della Polizia Municipale di Napoli, delle
missive di “trasmissione informativa di reato” di cui a molteplici pratiche (e, in
particolare, alla pratica n. 2917 del 24/02/2005, l’unica in relazione alla quale il
reato ascritto all’imputato non è stato dichiarato estinto per prescrizione all’esito
del giudizio di appello) attestanti falsamente che l’informativa era stata redatta
da “Ufficiale di P.G.” della 4a Unità Operativa laddove la firma in calce alla
dizione “L’Uff. di P.G.” era stata in realtà realizzata mediante fotocopiatura (o
scannerizzazione) di altra firma e conseguente “collage” apposto in calce alla
missiva, recante un “timbro” con la dicitura “Comune di Napoli – Polizia
Municipale 4a Unità Operativa” non in uso presso l’ufficio.
In ordine alla questione pregiudiziale sollevata dalla difesa circa la mancata
acquisizione al fascicolo del dibattimento delle missive di trasmissione in
originale, la Corte di merito rileva che gli atti acquisiti in fotocopia sono quelli
trasmessi alla Procura della Repubblica, idonei a produrre effetti e, quindi,
equiparati agli atti in originale, essendo fotocopie di quelli, sicché le valutazioni
vanno effettuate su tali atti non essendoci alcuna ragione idonea ad inficiare un
apprezzamento pieno e completo.

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1. Con sentenza deliberata il 07/03/2013, la Corte di appello di Napoli, in

Gli esiti del dibattimento, osserva ancora la sentenza impugnata, hanno
offerto piena dimostrazione della responsabilità dell’imputato, che, nonostante
avesse solo la qualifica di agente di polizia giudiziaria e gli fosse stato
esplicitamente vietato di compiere sequestri di iniziativa, ha continuato ad
effettuare tali atti in assenza di delega e al di fuori del territorio di competenza,
attribuendo falsamente la paternità delle missive di trasmissione delle
informative ad ufficiali di polizia giudiziaria e, in particolare, al maggiore Fusco.
Richiamate le deposizioni rese dalla teste Colucci e dal maggiore Fusco e

la Corte di appello qualifica i fatti oggetto di imputazione come falsità materiali, e
non ideologiche, in atto pubblico, sottolineando che De Felice non rivestiva la
qualifica di ufficiale di polizia giudiziaria, come correttamente argomentato dalla
sentenza di primo grado: proprio la consapevolezza di non rivestire tale qualifica
ha indotto l’imputato a depositare le missive da inoltrare all’autorità giudiziaria,
apponendo agli atti artatamente predisposti firme non leggibili o riproducendo la
grafia del maggiore Fusco. Escluso che gli atti di cui alle imputazioni fossero
assistiti da fede privilegiata, la Corte di merito sottolinea la sussistenza della
circostanza aggravante di cui all’art. 61, primo comma, n. 9, cod. pen., avendo
l’imputato agito con abuso dei poteri e in violazione dei doveri inerenti ad una
pubblica funzione.
La richiesta difensiva di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, osserva
ancora la Corte di appello di Napoli, deve essere disattesa, in quanto la finalità di
dimostrare che l’imputato, essendo stato responsabile dell’Unità Operativa,
aveva goduto di una sorta di prorogatio dei poteri non può essere raggiunta,
essendo chiaramente smentita dalle risultanze istruttorie, dovendosi ribadire
che, qualora l’imputato avesse agito nella convinzione di rivestire ancora tale
qualifica, non avrebbe avuto la necessità di ricorrere alle condotta contestata,
ossia alla apposizione di firme false.
Confermata la sussistenza del delitto di cui all’art. 468 cod. pen., la Corte di
merito esclude la fondatezza della doglianza relativa alla violazione dell’art. 546
cod. proc. pen.: il giudice di primo grado ha provveduto alla correzione
dell’errore in cui era incorso all’atto del deposito della motivazione della
sentenza, in cui era indicato un dispositivo difforme da quello letto in udienza,
l’unico al quale deve farsi riferimento.
Tenendo conto del periodo di sospensione del corso della prescrizione pari a
sei mesi e nove giorni (tre mesi e venticinque giorni, nel giudizio di primo grado;
due mesi e quattordici giorni, nel giudizio di secondo grado) e considerata
l’insussistenza delle ipotesi di cui all’art. 129, comma 2, cod. proc. pen. alla luce
delle argomentazioni espresse in relazione alla disamina dei vari motivi di

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confermato per quest’ultimo il giudizio di attendibilità espresso dal primo giudice,

appello, la prescrizione stessa è maturata per i reati relativi a tutte le pratiche di
cui all’imputazione fino a quella del 20/02/2005 (per il quale l’estinzione è
intervenuta il 02/03/2013): l’unico reato per il quale la prescrizione non si è
perfezionata è quello relativo alla pratica n. 2917 del 24/02/2005.

2. Avverso l’indicata sentenza della Corte di appello di Napoli ha proposto
ricorso per cassazione, nell’interesse di Antonio De Felice, il difensore avv.
Antonio Rocco Briganti, articolando nove motivi di seguito enunciati nei limiti di

2.1. Violazione dell’art. 476 cod. pen. e/o mancanza di motivazione: la
sentenza impugnata ha omesso la valutazione degli elementi probatori
evidenziati dall’atto di appello, elementi da cui si ricava che il ricorrente non solo
non si occupava della trasmissione degli atti di polizia giudiziaria, ma non aveva
alcun interesse alla redazione di false missive di trasmissione.
2.2. Violazione dell’art. 476 cod. pen. con riferimento alla equiparazione
delle copie fotostatiche agli originali: il diniego della Corte di merito di
acquisizione degli originali delle missive oggetto dell’imputazione è illegittimo e
illogico, poiché, nella materia in questione, l’acquisizione degli atti originali
rappresenta un obbligo ineludibile; nella pratica n. 2917 non vi è l’originale della
nota di trasmissione, bensì la sua fotocopia, che però non ha valore probatorio e
non può essere equiparata agli atti originali.
2.3. Vizio di motivazione con riferimento alla testimonianza del teste Fusco:
in ordine a tale testimonianza, la sentenza impugnata non ha argomentato circa
le specifiche deduzioni contenute nell’atto di gravame, mentre la ragione di
interesse del Fusco, immotivatamente esclusa, è ravvisabile nella necessità di
allontanare da sé qualsiasi sospetto circa le “irregolarità” emerse nel
compimento di atti del suo ufficio.
2.4. Mancanza di motivazione in ordine alle molteplici problematiche poste
nei motivi di appello in ordine alla riconducibilità del fatto all’imputato: la
sentenza impugnata non ha considerato specificamente le doglianze difensive
omettendo la puntuale verifica dei temi probatori introdotti dall’appello.
2.5. Mancanza di motivazione in ordine alla questione della “prorogatio”
delle funzioni di ufficiale di polizia giudiziaria dell’imputato. La motivazione della
sentenza impugnata ha eluso il problema posto dalla difesa, secondo cui
l’imputato rivestiva, quando lavorava alle dipendenze di Fusco, la qualifica di
ufficiale di polizia giudiziaria.
2.6. Violazione dell’art. 476 cod. pen. e/o mancanza di motivazione in ordine
alla configurabilità del reato con riferimento ad una copia fotostatica. La missiva
di trasmissione datata 24/02/2005 ritenuta materialmente falsa è un copia

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cui all’art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen.

fotostatica inviata alla Procura della Repubblica unitamente agli atti di polizia
giudiziaria riconducibili al ricorrente. Invano è stata richiesta l’acquisizione
dell’originale (certamente esistente) avendo la Corte di appello ritenuto l’idoneità
della copia fotostatica a produrre effetti, dovendo pertanto essere equiparata agli
atti originali: di conseguenza, il giudizio di responsabilità si basa su un atto
intrinsecamente privo di valore probatorio che non può integrare gli estremi del
delitto di cui all’art. 476 cod. pen., sicché viene eccepita l’insussistenza del reato
e, in subordine, la mancanza di motivazione, sulle ragioni per le quali non è stata

2.7. Violazione dell’art. 476 cod. pen. La missiva di trasmissione, che
“accompagna” i processi verbali contenenti la descrizione delle attività di polizia
giudiziaria, non ha natura di atto pubblico, attesa la sua valenza esclusivamente
endoprocedimentale.
2.8. Violazione degli artt. 130, 127 e 546 cod. proc. pen. Il dispositivo della
sentenza di primo grado riportata all’atto del deposito della motivazione
contrastava sotto vari profili con quello letto in udienza; dopo il deposito dell’atto
di appello, il giudice di primo grado ha emesso ordinanza di correzione ex art.
127 cod. proc. pen., ordinanza, tuttavia, illegittima in quanto emessa da un
giudice non legittimato.
2.9. Violazione degli artt. 157 ss. cod. pen. Il solo reato per il quale la
sentenza impugnata ha confermato la pronuncia di condanna è stato commesso
il 24/02/2005, sicché, anche considerando la sospensione del termini di
prescrizione disposta nel corso del giudizio di merito nei limiti indicati dalla Corte
di appello (sei mesi e nove giorni), il termine di prescrizione è maturato il
05/03/2013, laddove la sentenza di secondo grado è stata pronunciata il
07/03/2013. In ogni caso, i rinvii del giudizio di primo grado in conseguenza dei
quali è stata disposta la sospensione della prescrizione (udienze del 16/09/2009
e 10/03/2019) non potevano legittimamente determinare questo effetto. Anche
con riferimento al giudizio di appello, è illegittima la sospensione disposta
all’udienza del 06/12/2013 (recte, 06/12/2012).

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è fondato nei termini di seguito indicati.

2. Il primo motivo è inammissibile. La sentenza impugnata, per un verso, ha
illustrato, richiamando in particolare la deposizione della teste Colucci, le
modalità attraverso le quali venivano trasmessi gli atti in questione e il ruolo
svolto dall’imputato; per altro verso, ha fatto riferimento alla volontà di De Felice

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accolta la richiesta di acquisizione dell’originale.

di continuare ad esercitare i suoi poteri, per affermare la sua posizione e
guadagnarsi meriti, travalicando i limiti e volando le regole imposte dalla
normativa e dai superiori gerarchici. Il motivo è, dunque, inammissibile per la
mancanza di correlazione tra le ragioni argomentative della decisione impugnata
e quelle poste a fondamento dell’impugnazione (Sez. 1, n. 4521 del 20/01/2005
– dep. 08/02/2005, Orru’, Rv. 230751).

3. I motivi enunciati ai punti 2.2. e 2.6 del Ritenuto in fatto denunciano

delle copie fotostatiche agli originali, sicché, anche per meglio mettere a fuoco la
portata delle doglianze (che nell’esposizione del ricorso risultano intrecciate), è
necessaria una loro trattazione congiunta. Attraverso tali motivi, il ricorrente
propone censure che hanno diverso carattere, penal-sostanziale e processuale.
La censura di carattere penai-sostanziale contesta la sussunzione della
fattispecie concreta nella norma incriminatrice di cui all’art. 476 cod. pen. e,
segnatamente, la considerazione sub specie di atto pubblico del documento una fotocopia – per il quale è intervenuta condanna. La censura è inammissibile
per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentative della decisione
impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione (Sez. 1, n. 4521 del
20/01/2005 – dep. 08/02/2005, Orru’, Rv. 230751): infatti, il riferimento operato
dalla sentenza impugnata alla equiparazione degli atti acquisiti in fotocopia agli
originali è accompagnato dal rilievo che la valutazione va effettuata sui primi in
assenza di qualsiasi ragione idonea ad inficiare «un apprezzamento pieno e
completo»; l’equiparazione, in altri termini, è operata non già sul piano
sostanziale dell’idoneità del documento/fotocopia ad integrare l’oggetto materiale
del falso, bensì su quello processuale, della sua valenza probatoria.
L’equiparazione prospettata dalla sentenza impugnata, dunque, si traduce nella
ritenuta idoneità della copia acquisita a costituire prova del fatto in questione:
tale prospettazione, pertanto, se rinvia alla censura di carattere processuale di
seguito esaminata, rende ragione dell’inammissibilità della censura di carattere
sostanziale.
La censura di carattere processuale contesta il valore probatorio attribuito,
disattendendo la richiesta di difensiva di acquisizione degli originali delle missive
oggetto di imputazione, alla copia fotostatica del documento in questione (parte
del ricorso richiamata sub 2.2.) e la mancanza di motivazione sulle ragioni per le
quali non è stata accolta l’istanza difensiva (parte del ricorso richiamata sub
2.6.). La censura è infondata, in quanto muove dal presupposto che le copia
fotostatiche non abbiano valore probatorio e che, quindi, non possano essere
equiparate agli atti originali. Tale presupposto è erroneo, alla luce

6

questioni collegate, che ruotano intorno al riferimento alla criticata equiparazione

dell’orientamento di questa Corte, condiviso dal Collegio, secondo cui la copia di
un documento, quando sia idonea ad assicurare l’accertamento dei fatti, ha
valore probatorio anche al di fuori del caso di impossibilità di recupero
dell’originale (Sez. 2, n. 36721 del 21/02/2008 – dep. 25/09/2008, Buraschi e
altro, Rv. 242083); infatti, il nuovo sistema processuale, non avendo accolto il
principio di tassatività della prova, consente al giudice – ex art. 189 cod. proc.
pen. – di assumere prove non disciplinate dalla legge, purché ne verifichi
l’ammissibilità e l’affidabilità, sicché il giudice ben può utilizzare come elemento

ad assicurare l’accertamento dei fatti (Sez. 3, n. 2065 del 22/01/1997 – dep.
05/03/1997, Winkler, Rv. 207104). In linea con questo orientamento, la Corte di
merito, rilevato che gli atti acquisiti sono quelli trasmessi alla Procura della
Repubblica, ha escluso la sussistenza di ragioni idonee ad inficiare
l’apprezzamento pieno e completo in relazioni alle valutazioni effettuate sulle
fotocopie.
Per le ragioni indicate, il secondo e il sesto motivo devono essere disattesi.

4. Il terzo e il quinto motivo sono inammissibili, in quanto sostanzialmente
deducono questioni di merito. Quanto al primo, la Corte di merito, tra l’altro, ha
sottolineato che la ricostruzione difensiva renderebbe incomprensibili le ragioni
della condotta di Fusco, che, essendo funzionario di polizia giudiziaria, era
pienamente legittimato e redigere e firmare le missive in questione; quanto alla
questione della “prorogatio”, la sentenza impugnata, anche richiamando quella di
primo grado, ha motivatamente escluso la sua configurabilità, sottolineando
come sia stata provata la piena consapevolezza dell’imputato di non essere più
titolare di funzioni di ufficiale di polizia giudiziaria. La linea argomentativa così
sviluppata è immune da cadute di consequenzialità logica, traducendosi il ricorso
nella sollecitazione ad una rivisitazione delle valutazioni svolte dalla Corte di
merito esorbitante dai compiti del giudice di legittimità.

5. Anche il quarto motivo è inammissibile in quanto carente del requisito
della specificità, risolvendosi nel generico richiamo ai motivi di appello e
nell’asserita insussistenza di elementi di prova a fondamento dell’attribuzione a
De Felice della falsificazione in questione.

6. Il settimo motivo è infondato, alla luce del consolidato orientamento di
questa Corte che riconduce nel novero degli atti pubblici gli atti interni e quelli
preparatori di una fattispecie documentale complessa (Sez. 5, n. 9358 del
24/04/1998 – dep. 13/08/1998, Tisato, Rv. 211440) e, più in particolare, gli atti

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di prova la copia, anziché l’originale, di un documento, quando essa sia idonea

interni in cui si concreta la corrispondenza tra due uffici quando essi abbiano
attitudine ad assumere rilevanza giuridica (Sez. 5, n. 73 del 28/09/1982 – dep.
07/01/1983, Malara, Rv. 156782).

7.

Deve essere parimenti disatteso l’ottavo motivo. In linea con

l’orientamento della giurisprudenza di legittimità, la Corte di appello ha
affermato la prevalenza del dispositivo letto in udienza rispetto al dispositivo
erroneamente riportato in calce alla motivazione (Sez. 3, n. 125 del 19/11/2008

alla quale avrebbe potuto essa stessa direttamente provvedere.

8. Il nono motivo di ricorso è, invece, fondato.
La Corte di appello ha dichiarato l’estinzione per prescrizione dei reati
commessi fino al 20/02/2005, rilevando che per il reato commesso in
quest’ultima data il termine di prescrizione è spirato il 02/03/2013 e che per il
reato relativo alla pratica n. 2917 del 24/02/2005 non è ancora maturato il
termine il termine di prescrizione. Al riguardo, deve rilevarsi che, sulla base degli
stessi calcoli operati dalla Corte di appello, il reato in questione risulta prescritto
il 06/03/2013, ossia prima della deliberazione della stessa sentenza di appello
(intervenuta il 07/03/2013). In ogni caso, dal periodo di sospensione del corso
della prescrizione nel giudizio di appello – indicato in due mesi e quattordici
giorni dalla sentenza impugnata – deve essere sottratto il periodo corrispondente
al rinvio dal 06/12/2012 al 05/02/2013, che, come risulta dall’esame degli atti, è
stato disposto in vista della decisione sulla riunione del processo in corso ad altri
pendenti nel medesimo grado, ossia per esigenze del processo connesse
all’esercizio del diritto di difesa. E’, dunque, confermata l’intervenuta prescrizione
del reato prima della deliberazione della sentenza di appello, che, pertanto, deve
essere annullata senza rinvio agli effetti penali per essere il reato estinto per
prescrizione, laddove, per le ragioni esposte, il ricorso deve essere rigettato agli
effetti civili.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata senza rinvio agli effetti penali perché il reato
è estinto per prescrizione. Rigetta il ricorso agli effetti civili.
Così deciso il 31/01/2014.

– dep. 08/01/2009, Bassirou, Rv. 242258), recependo la correzione dell’errore

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