Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 18924 del 20/01/2017


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 18924 Anno 2017
Presidente: CAVALLO ALDO
Relatore: GALTERIO DONATELLA

SENTENZA

sul ricorso proposto da
PELLICCIO FABIO, nato a Torre del Greco il 29.7.1971
SWIECIAK KAMILA, nata in Polonia il 18.8.1976
BRANCACCIO SALVATORE, nato a Napoli il 4.3.1977
BITONTO DANIELE, nato a Napoli il 30.6.1971
DI RAFFAELE VINCENZA, nata a Napoli il 27.5.1959
DI RAFFAELE SALVATORE, nato a Napoli il 21.2.1958
MOSCARELLA IVANO, nato a Napoli il 28.6.1980

avverso la sentenza in data 18.5.2015 della Corte d’Appello di Firenze

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Donatella Galterio;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale
dott. Perla Lori che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;
udito il difensore di Bitonto Daniele, avv. Irma Conti, sostituto processuale
dell’avv. Raffaele De Simone, che concluso riportandosi ai motivi del ricorso;
udito il difensore di Brancaccio Salvatore, Moscarella Ivano, Di Raffaele
Salvatore e Di Raffaele Vincenza, avv. Francesco Pio Porta, che ha concluso
riportandosi ai motivi dei ricorsi

Data Udienza: 20/01/2017

RITENUTO IN FATTO

1.11 presente procedimento trae origine da un’indagine svolta negli anni
2010-2012 dalla Guardia di Finanza che aveva portato all’emersione, così come
contestato nei capi di imputazione, di una frode fiscale, riconducibile al fenomeno
delle “frodi carosello ” realizzata mediante una serie di operazioni volte a
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realizzare attività economiche fittizie che, utilizzando lo strumento del deposito
IVA all’interno del mercato dell’Unione Europea, dove la legislazione consente la

in Italia, e il ricorso a società cd. “cartiere”, prive cioè di operatività effettiva,
costituite al solo scopo di emettere fatture che altri soggetti utilizzano, mirano ad
evadere l’imposizione fiscale con il conseguimento di crediti di imposta. Con
sentenza pronunciata in data 12.3.2013 il GIP presso il Tribunale di Livorno,
aderendo alla ricostruzione dei fatti operata dall’accusa, ha così ricostruito lo
schema delle operazioni commerciali: la società svizzera Phoenix con sede in
Austria, i cui legali rappresentanti erano Fabio Pelliccio e la moglie Kamila
Swieciak importava, tramite la società Euroshopping i merci cinesi che venivano
inviate a Livorno e qui messe secondo quanto dichiarato alla dogana a deposito
IVA così da sottrarre temporaneamente la merce al pagamento del tributo;
successivamente la merce veniva estratta da tre società a responsabilità limitata,
la World Trade, la Elf e la Prinnatist, risultate,dagli accertamenti, non operative e
di fatto gestite dal Pelliccio, insieme alla moglie, la quale si limitava a collaborare
come mera esecutrice delle decisioni assunte dal marito, mediante auto
fatturazione; le suddette cartiere cedevano a loro volta la merce a tre società
italiane, la Ivan/Stools (di cui era I.r. Ivano Moscarella), la Bit Store (di cui era I.r.
Daniele Bitonto) e la High Max Tools (della quale era I.r. Vincenza Di Raffaele),
tra loro soggettivamente collegate essendone i legali rappresenti legati tra loro
da rapporti di parentela, le quali portavano a credito VIVA mai corrisposta alla
società venditrice ed acquistavano la merce ad un prezzo concorrenziale, senza
che sul loro costo venisse applicata VIVA. Ha pertanto ritenuto la penale
responsabilità, per quanto qui interessa, di tutti gli indagati per i reati di
contrabbando doganale, falso in atto pubblico per induzione, soppressione di
documenti ed evasione fiscale ai sensi degli artt. 2, 5, 8, 10 ed 11 d.lgs.
74/2000, infliggendo la pena della reclusione nella misura di 5 anni a Fabio
Pelliccio, di 3 anni a Kamila Swieciak ed Ivano Moscarella, di 3 anni e 4 mesi a
Salvatore Brancaccio, di 2 anni e 2 mesi a Daniele Bitonto e di 1 anno e 10 mesi
a Vincenza e Salvatore Di Raffaele e ha contestualmente disposto la confisca per
equivalente sui beni degli imputati senza limitazioni di valore.
Con sentenza pronunciata il 18.5.2015 la Corte d’Appello ha integralmente
confermato sia la penale responsabilità di tutti gli imputati sia il trattamento
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neutralizzazione dell’imposta sul valore aggiunto all’impresa acquirente residente

sanzionatorio, ed ha invece riformato la sentenza di primo grado contenendo la
confisca per equivalente nei limiti degli importi complessivi delle imposte evase
così come contestati. Avverso la suddetta sentenza tutti i suddetti imputati
hanno proposto ognuno autonomamente, per il tramite dei rispettivi difensori,
ricorso per Cassazione.
2. Fabio Pelliccio e Kannila Swieciak hanno articolato un unico ed identico
motivo con il quale censurano la sentenza impugnata per vizio di motivazione sul
punto relativo alla confisca sostenendo che pur essendo stata ridotta, rispetto

fatto non ne era stato indicato l’ammontare. In sintesi la censura si traduce nella
violazione del principio, già affermato dalla Corte di Cassazione con la sentenza
n.24965 del 22.4.2015 secondo il quale il profitto, costituito dal risparmio
economico derivante dalla sottrazione degli importi evasi alla loro destinazione
fiscale non coincide con l’importo indicato in fattura, dovendo invece essere
individuato nel risultato contabile ricavabile da tutti gli elementi attivi e passivi
indicati dal dichiarante, oltre al fatto che trattandosi di reati in concorso l’importo
risultava in tal modo oltremodo elevato.
3.

Daniele Bitonto ha censurato la sentenza per i seguenti motivi: 1)

violazione di legge in relazione all’art.110 c.p. e vizio motivazionale per essere
stata la propria responsabilità fondata sul solo elemento oggettivo, ovverosia
sulla posizione di intermediario nelle frodi carosello per il ruolo svolto all’interno
della Bit Store ef sul presunto vantaggio economico ricavabile dal
commercializzare merci prive di ricarico IVA senza che nulla fosse stato dedotto
sull’elemento soggettivo, ovverosia sul dolo di concorso che postula la
dimostrazione che il soggetto sia stato in grado di rappresentarsi l’evento nella
sua portata illecita, non essendo sufficiente il mero richiamo all’interesse
personale; 2) violazione di legge in relazione agli artt. 62-bis e 133 c.p. e vizio
motivazionale per mancata dosimetria della pena inflitta sulla base delle stesse
motivazioni a tutti gli imputati, arbitrariamente accomunati malgrado le diverse
posizioni giuridiche, il diverso vissuto, essendo ad esempio l’imputato
incensurato, ed il diverso ruolo rivestito.
4. Vincenza Di Raffaele e Salvatore Di Raffaele hanno articolato un unico
identico motivo con il quale censurano la sentenza impugnata sotto vari profili:
1) per essere stati ritenuti corresponsabili della frode fiscale esclusivamente sulla
base del ruolo di legali rappresentanti dai medesimi ricoperto rispettivamente
nella High Max Tool e nella Ivantools sul presupposto che l’eventuale disinteresse
dell’amministratore alla gestione sociale da parte di terzi che operino in sua vece
ponendo in essere operazioni illecite ne comporta in ogni caso la riconducibilità al
legale rappresentante per violazione del dovere di vigilanza, sostenendosi invece
che nessuna dimostrazione era stata data sui contatti commerciali tra la società

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/f(-

alla pronuncia del primo giudice, agli importi complessivi delle imposte evase, di

importatrice delle merci dall’estero, le cartiere e gli imputati, onde non poteva
ritenersi in alcun modo accertato che costoro fossero a conoscenza del
meccanismo fraudolento ordito da terzi per evadere VIVA, né tantomeno che
fossero parte di un accordo con gli altri coimputati destinato a produrre utilità
reciproca, essendosi sul punto soltanto valorizzati elementi del tutto neutri come
nel caso della Vincenza Di Raffaele il rinvenimento in una casella di posta
elettronica, di cui costei aveva negato la paternità, di una fattura emessa da
Primatist indirizzata alla High Max Tools; 2) in relazione all’affermazione secondo

cartiere), operanti in regime di esenzione IVA, sarebbero operazioni non reali
perché avvenute fra soggetti diversi da quelli effettivi, non potendo desumersi da
fatture soggettivamente inesistenti la mancanza oggettiva della prestazione,
senza che peraltro fosse stata tenuta in alcun conto la doglianza sollevata con i
motivi di appello sulla circostanza che la coincidenza dei codici identificativi degli
articoli provenienti dal venditore cinese con quelli rinvenuti presso le proprie
società non costituiva, così come affermato dalla sentenza di primo grado, prova
dell’identità della merce trattandosi invece di codici identificativi di una categoria
omogenea di articoli comuni a tutti gli operatori; 3) in relazione alla mancata
riduzione della pena in considerazione del ruolo marginale rivestito da entrambi
nell’ambito delle operazioni incriminate.
5. Ivano Moscarella ha anch’egli svolto un unico pluriarticolato motivo con il
quale contesta la sussistenza di un vizio motivazionale, declinato sub specie di
motivazione omessa od illogica, sui seguenti punti: 1) sulla sussistenza di un
accordo tra la società importatrice delle merci dall’estero, le cartiere e l’imputato,
destinato a produrre utilità reciproca, del tutto neutro essendo l’unico elemento
valorizzato al riguardo costituito dal rinvenimento in una casella di posta
elettronica, di cui costui aveva negato la paternità, di una fattura emessa da
Primatist indirizzata alla High Max Tools; 2) sull’elemento soggettivo del reato,
ovverosia sulla consapevolezza da parte propria di acquistare la merce
dall’intermediario al fine di precostituire uno schermo atto ad eludere VIVA,
costituente dolo specifico; 3) sui codici identificativi delle merci; 4) sulla
riconducibilità di fatture soggettivamente inesistenti alla fattispecie incriminata
dall’art.2 d. Igs. 74/2000; 5) sulla richiesta riduzione della pena, sugli ultimi tre
punti svolgendo contestazioni identiche a quelle articolate da Vincenza e
Salvatore Di Raffaele.
6. Anche Salvatore Brancaccio ha articolato un unico motivo con il quale
deducendo il vizio motivazionale ha contestato la mancata dimostrazione della
propria responsabilità tratta dai soli contatti intrattenuti con il Moscarella, con il
quale vi è pure un rapporto di parentela, ed ha altresì articolato censure di
contenuto analogo a quelle svolte daNi Raffaele e dal Moscarella.
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la quale le operazioni asseritamente illecite con i venditori intermedi (le cd.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. I motivi articolati dal Brancaccio, dal Moscarella, dai Di Raffaele e dal Bitonto,
traducendosi in censure sovrapponibili le une con le altre, possono essere
esaminati congiuntamente.
Ai fini di un puntuale inquadramento della questione occorre premettere che il

volto ad evadere l’imposta sul valore aggiunto posto in essere attraverso una
serie di operazioni commerciali aventi ad oggetto prestazione di servizi o
cessione di merci con l’interposizione fittizia di società cartiere tra il venditore
e l’acquirente finale al fine di ottenere crediti di imposta ai quali
corrispondono profitti anche molto elevati. Attraverso tale meccanismo intrinsecamente connesso al regime transitorio di applicazione dell’IVA agli
scambi tra soggetti passivi di imposta aventi sede in differenti paesi
dell’Unione Europea secondo il quale il cessionario della transazione
intracomunitaria viene ai fini del computo dell’imposta a debito, stante la
diversità delle aliquote vigenti nei differenti Stati membri, a sostituirsi al
cedente accollandosi i relativi oneri tra cui il versamento dell’imposta sul
valore aggiunto che potrà effettuare solo al momento in cui la stessa gli verrà
corrisposta dai successivi acquirenti nazionali (D.L. 331/1993, convertito
nella L.427/1993) – il venditore non versa VIVA, ma attraverso il soggetto
interposto che emette la fattura con VIVA senza tuttavia versarla, la merce
viene acquistata dal contribuente che invece la detrae. L’operazione illecita
così descritta si realizza, come nel caso in esame, attraverso l’emissione di
fatture per operazioni soggettivamente inesistenti con le quali si intendono
quelle che riferiscono l’operazione a soggetti diversi da quelli effettivi,
anch’esse ricomprese secondo la norma definitoria di cui all’art.1 d.lgs.
74/2000 nell’ambito delle “fatture per operazioni inesistenti”, avendo il
legislatore inteso colpire non soltanto la mancanza assoluta dell’operazione,
ma ogni tipo di divergenza tra realtà commerciale e risultanze documentali.
La divergenza in siffatto sistema riguarda i soggetti reali dell’operazione tra i
quali vengono interposti fittiziamente altri soggetti, le cd. società cartiere,
alle quali è affidato il compito del “lavaggio” dell’IVA: pertanto per quanto
concerne la operazione “apparente” non sorge tra le parti contraenti alcun
obbligo di natura fiscale, non potendo il fittizio cedente pretendere il
pagamento del prezzo e dell’IVA in rivalsa e, correlativamente, non
insorgendo a favore del cessionario alcun diritto alla detrazione della imposta
liquidata nella falsa fattura, mentre per quanto riguarda l’operazione “reale”,

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sistema delle frodi carosello si configura come un meccanismo fraudolento

condotta con il terzo-interponente, trattandosi di operazione per la quale è
stata omessa del tutto la fattura, alcun diritto alla detrazione IVA potrà
evidentemente essere esercitato dal cessionario (Sez. 3, n. 42994 del
07/07/2015 – dep. 26/1.0/2015, De Angelis, Rv. 265154).
Di tale meccanismo danno puntualmente conto i giudici di merito,
saldandosi la motivazione della sentenza impugnata con quella di primo
grado così da fornire un’unica e complessa trama argomentativa, a fronte
della quale le censure nosse dai ricorrenti che ripropongono gli stessi motivi

buona parte affette da genericità atteso che, così come prospettate, solo
apparentemente denunciano, in assenza di un reale confronto argomentativo
con le motivazioni sviluppate nella decisione censurata, un errore logico o
giuridico determinato.
Seguendo un coerente e rigoroso percorso motivazionale la sentenza
impugnata chiarisce come il meccanismo criminoso fosse strutturato su più
livelli per cui la merce, prima di giungere definitivamente alle cosiddette
imprese destinatarie finali (nel caso di specie, la Ivantools, la High Max Tools
e la Bit Store), è stata fatta oggetto di operazioni di compravendita, solo
cartolari, eseguite in sequenza e finalizzate esclusivamente alla creazione in
capo a queste ultime di un credito Iva utilizzato dalle medesime per
compensare il debito Iva da versare mensilmente all’erario. Lo schema della
frode prevedeva innanzitutto che la merce acquistata sul mercato cinese dalla
società austriaca Phoenix, di cui erano rappresentanti in Italia il Pelliccio e la
moglie Kamila Swieciak, venisse al momento di essere importata in Italia
posizionata temporaneamente in deposito presso la Dogana di Livorno in
regime di sospensione IVA, utilizzando cioè un meccanismo fiscale che
consente di differire il pagamento dell’imposta al momento di estrazione della
merce dal deposito, per poi venire estratta da tre società cartiere, la
Primatist, la World Trade e la Elf, tutte riconducibili al Pelliccio, che
procedendo attraverso l’autofatturazione, operazione fiscalmente neutra
essendo VIVA ivi riportata sia a debito che a credito, acquistavano
fittiziamente la merce senza corrispondere l’Iva. Attraverso questo passaggio
la società importatrice, mera scatola vuota, si liberava, attraverso il deposito
IVA dall’obbligo del pagamento della relativa imposta che trasferiva, previe
false dichiarazioni di cessione delle merci in deposito, sulle tre società fittizie,
le quali a loro volta neppure onoravano il pagamento dell’imposta su di esse
transitato a seguito della cessione. Queste ultime infatti cedevano la merce
alle società destinatarie finali – la Ivan Tools (di cui era legale rappresentante
Salvatore Di Raffale), la High Max Tools (di cui era legale rappresentante
Vincenza Di Raffale) e la Bit Store Group (di cui era amministratore Daniele
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articolati con l’appello, si appalesano destituite di fondamento, oltre che in

Bitonto), tutte però di fatto o gestite (come avveniva per per la Ivan Tools e
per la High Max) o comunque coordinate dal Brancaccio e dal Moscarella che
si affiancavano per la Bit Store Group al Bitonto – che la acquistavano ad un
prezzo altamente competitivo in quanto privo di tributi e al contempo si
precostituivano un credito tributario di fatto inesistente portando in
detrazione VIVA fittiziamente pagata dalle società cartiere sulle merci
acquistate con fattura.
Con argomentazioni, seppur sintetiche, ma comunque intrinsecamente

operazioni come sopra illustrate per quanto concerne le posizioni del
Brancaccio e del Moscarella, legati fra loro da legami di parentela, sulla base
delle intercettazioni telefoniche intervenute tra costoro ed il Pelliccio, che
oltre ad essere il rappresentante della Phoenix in Italia, era il gestore di fatto
delle intermediarie, evidenzianti la sostanziale gestione di fatto da parte dei
medesimi delle società High Max ed Ivan Tools, per conto delle quali
discutevano delle modalità di consegna delle merci importate dalla Cina
tramite la Phoenix presso la dogana di Livorno e della relativa distribuzione
tra le due società ed anche la Bit Store, che invece coordinavano nell’ambito
della intera operazione, nonchè dal controllo incrociato dei conti correnti
bancari facenti capo alla Primatist e alle società destinatarie finali che
evidenzia l’esatta corrispondenza tra i prezzi corrisposti da queste ultime alle
società filtro a quelli girati dalla Primatist alla Phoenix senza alcun ricarico.
Per quanto concerne il Bitonto i riscontri all’ipotesi accusatoria sono dati dai
rapporti di fornitura in relazione alla commercializzazione della merce
intercorsi a fasi alterne tra la Bit Store, di cui egli era amministratore, e le
altre due società destinatarie finali (essendo stato accertato sulla base della
documentazione contabile che in più di un’occasione ognuna delle tre società
era a sua volta fornitrice dell’altra), nonché dai corrispettivi versati alle
società cartiere per le merci sensibilmente inferiori a quelli di mercato. E’
evidente che è insita nella stessa gestione di fatto delle tre società, e
conseguentemente nella regia e supervisione delle operazioni commerciali
descritte, la piena consapevolezza in capo ai tre imputati del sistema
fraudolento complessivo, di cui la prova principe è data dall’esiguità del
prezzo di acquisto della merce rispetto a quello corrente, tale da consentirne
la rivendita con amplissimi margini di guadagno, comunque corrispondenti
all’entità dell’imposta sul valore aggiunto in tal modo evasa. Le operazioni
congegnate attraverso le cd. “frodi carosello” consentivano infatti alle tre
società cessionarie collocate al termine della filiera di acquistare allo stesso
prezzo dichiarato dalla società importatrice all’atto dell’importazione, in tal
modo potendo immettere sul mercato beni altamente competitivi per quanto
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logiche e puntuali, la Corte fiorentina ha ricostruito la dinamica delle

attiene al prezzo di rivendita in quanto non gravato dall’incidenza dell’imposta
sul valore aggiunto.
Univocamente con gli orientamenti pressoché unanimi della dottrina si è
ritenuto, muovendo dal criterio funzionalistico in forza del quale il dato
fattuale della gestione sociale deve prevalere sulla qualifica formalmente
rivestita, l’irrilevanza dell’etichetta per privilegiare il concreto espletamento
della funzione e la conseguente equiparazione degli amministratori di fatto a
quelli formalmente investiti della carica, la quale trova conferma anche sul

jieflé dal codice civile l’equiparazione al soggetto formalmente investito della
qualifica o titolare della funzione prevista dalla legge di chi esercita in materia
continuativa e significativa i poteri tipici inerenti alla qualifica o funzione.
Sebbene dettata in materia di reati societari, tale norma è stata ritenuta la
codificazione di un principio generale applicabile ad altri settori penali
dell’ordinamento, così come in campo civile e tributario, la qual viene in tal
modo ad incidere non solo sulla configurabilità del concorso
dell’amministratore di fatto nei reati commissivi, ma anche in quelli omissivi
propri, nel senso che autore principale del reato è proprio l’amministratore di
fatto. In ogni caso limitatamente alla responsabilità dell’amministratore di
fatto nei reati omissivi propri formalmente imputabili al prestanome, è stato
ripetutamente affermato da questa Corte in relazione ai reati tributari previsti
dal d. Igs. 74/2000 che l’amministratore di fatto risponde o quale autore
principale, in quanto titolare effettivo della gestione sociale, (Sez. 3, n.38780
del 14/05/2015, Biffi, Rv. 264971), o comunque perchè equiparato a quello
di diritto (Sez.4 n.24650 del 16/04/2015, Longoni, Rv. 263728, Sez. 3, n.
33385 del 05/07/2012, Gencarelli, Rv. 25326901).
La sussistenza del dolo da partecipazione è stata del resto diffusamente
argomentata dalla sentenza di primo grado, destinata a fondersi in un unicum
inscindibile con la pronuncia d’appello, secondo la quale “la prova della
combinazione dei consensi è in re ipsa”, traendo entrambe le parti
(importatore da una parte e cessionari finali dall’altra) un utile diretto dal
meccanismo frodatorio, il che è sufficiente ad escludere qualunque supposta
ignoranza delle altrui condotte: intanto il Pelliccio importava in evasione di
imposta in quanto sapeva, in forza di preventivi accordi, che alla fine della
filiera, che si snodava attraverso l’estrazione delle merci dal deposito IVA da
parte delle società interposte, si ponevano le tre società acquirenti cd.finali,
come tali definite rispetto alla complessiva operazione in contestazione; a
loro volta gli amministratori delle società acquirenti sapevano, in forza di
pregressi accordi con l’importatore, che sarebbero ad essi giunte merci a
prezzi estremamente vantaggiosi in quanto introdotte in Italia in evasione
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piano normativo nell’art.2639 c.c. che dispone per i reati societari previsti

dell’IVA sull’importazione, e che avrebbero creato, come poi hanno fatto, un
credito IVA fittizio da utilizzare in compensazione con VIVA addebitata al
cliente finale.
Trova invece fondamento nell’art.40, 2° comma c.p. la responsabilità di
Salvatore e Vincenza Di Raffaele, amministratori in carica rispettivamente
della Ivan Tools e della High Max Tools, ma a loro stessa detta meri
prestanome del Brancaccio e del Moscarella che amministravano in concreto
le suddette società. Sul punto i giudici di merito hanno ritenuto che entrambi

di rappresentanti legali delle due società, così essendosi prestati a coprire,
attraverso la violazione del dovere di vigilanza che incombeva loro per effetto
della carica ricoperta, le condotte illecite dei reali amministratori. La linea
argomentativa così sviluppata dalla sentenza impugnata, immune da
qualsiasi caduta di consequenzialità logica e coerente al compendio
probatorio di riferimento, non è in alcun modo scalfita dalle argomentazioni
addotte in ricorso che si limitano a contestare in fatto l’inquadramento
giuridico della fattispecie, concentrandosi del tutto vanamente gli sforzi
difensivi sull’insussistenza di elementi probatori in ordine ai rapporti tra i due
imputati con le società cartiere così come con la società importatrice
dall’estero, e non invece sul mancato esercizio del dovere di controllo che
competeva loro ex lege, argomento questo del tutto tralasciato, e che invece
sarebbe stato l’unico spendibile al fine di sostenere che essi erano privi di
qualunque potere di ingerenza nella gestione delle società dai medesimi
formalmente amministrate. Non vi è perciò alcuna ragione per discostarsi dal
principio generale condivisibilmente affermato da questa Corte secondo il
quale il prestanome che, accettando la carica ha anche accettato i rischi ad
essa connessi, risponde comunque a titolo di dolo eventuale esponendosi alle
conseguenze dell’operato dei gestori reali e dunque alla possibilità che questi
pongano in essere, attraverso il paravento loro prestato con la carica
ricoperta, attività non legali, in base alla posizione di garanzia di cui all’art.
2392 cod. civ., in forza della quale l’amministratore deve conservare il
patrimonio sociale ed impedire che si verifichino danni per la società e per i
terzi. (cfr. Cass. 26 gennaio, 2006 n. 7208; Cass. 26 novembre 1999
Dragomir Rv 215199; Sez. 3, n. 22919 del 06/04/2006 – dep. 04/07/2006,
Furini, Rv. 234474; Sez. 3, n. 47110 del 19/11/2013 – dep. 27/11/2013, PG
in proc. Piscicelli, Rv. 258080 che ha precisato che in tema di reati tributari il
prestanome non risponde dei delitti in materia di dichiarazione previsti dal
D.Lgs. n. 74 del 2000, solo se è privo di qualunque potere o possibilità di
ingerenza nella gestione della società). Sussiste pertanto la responsabilità
dell’amministratore di diritto, a titolo di concorso nel reato di utilizzo di false
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rispondano dei reati loro ascritti per avere assunto consapevolmente la veste

fatturazioni, afferenti cioè a prestazioni inesistenti, con l’amministratore di
fatto non già ed esclusivamente in virtù della posizione formale rivestita
all’interno della società, ma in ragione della condotta omissiva dallo stesso
posta in essere, consistente nel non avere impedito, ex art. 40, comma
secondo, cod. pen., l’evento che aveva l’obbligo giuridico di impedire e cioè
nel mancato esercizio dei poteri di gestione della società e di controllo
sull’operato dell’amministratore di fatto, connaturati alla carica rivestita.
A fronte di tale ricostruzione dei fatti e della loro qualificazione giuridica,

argomentazione assolutamente pertinente, il codice identificativo che,
quand’anche riferito al genere degli articoli acquistati e non ai singoli prodotti,
non costituiva comunque argomentazione idonea ad escludere il dato
dirimente, dimostrato dall’intero compendio probatorio acquisito, relativo alla
concreta provenienza delle merci e al sistema fraudolento ad essa collegato.
Del pari irrilevante – in linea con il principio consolidato secondo il quale il
vizio motivazionale denunciabile in sede di legittimità deve essere comunque
decisivo, ovverosia idoneo ad incidere sul compendio indiziario così da
incrinarne la capacità dimostrativa – può ritenersi la fugace motivazione
fornita dalla Corte di merito a proposito del disconoscimento da parte del
Brancaccio e di Vincenza Di Raffaele dell’indirizzo di posta elettronica di due
fatture emesse dalla Primatist nei confronti della High Max, in quanto priva di
valore decisivo rispetto all’operazione complessiva, e ai numerosi riscontri
probatori acquisti.
In ordine, infine, alla contestata dosimetria del trattamento sanzionatorio
è sufficiente rilevare che la determinazione in concreto della pena costituisce
il risultato di una valutazione complessiva e non di un giudizio analitico sui
vari elementi offerti dalla legge, sicché l’obbligo della motivazione da parte
del giudice dell’impugnazione deve ritenersi compiutamente osservato, anche
in relazione alle obiezioni mosse con i motivi d’appello, quando egli, accertata
l’irrogazione della pena tra il minimo e il massimo edittale, affermi di ritenerla
adeguata o non eccessiva. Ciò dimostra, infatti, che egli ha considerato sia
pure intuitivamente e globalmente, tutti gli aspetti indicati nell’art. 133 cod.
pen. ed anche quelli specificamente segnalati con i motivi d’appello, ritenendo
ciò nondimeno di confermare le valutazioni del giudice di primo grado. (Cass.
Sez. 6, sent. n. 10273 del 20.5.1989 dep. 12.7.1989 Rv 181825. Conf. mass.
N. 155508; n. 148766; n. 117242). Anche sotto tale profilo la sentenza
impugnata, che fa peraltro esplicito riferimento al diverso contributo causale
apportato da ciascuno ed alla conseguente differenziazione del trattamento
sanzionatorio, risulta quindi immune da censure.

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di nessuna rilevanza è stato ritenuto dalla Corte fiorentina, con

2. In relazione al motivo articolato dal Pelliccio, insieme al quale va esaminato
quello svolto dalla Swieciak in quanto di identico contenuto, deve essere
rilevato in primo luogo la genericità della censura svolta che si limita ad
indicare in via astratta la non corrispondenza tra l’imposta evasa ed il profitto
conseguito dagli stessi imputati che dovrebbe invece essere identificato “nel
risultato contabile ricavabile dalla lettura complessiva di tutti gli elementi
attivi e passivi indicati dal dichiarante”, senza alcuna indicazione delle cifre
che evidenzierebbero la discrasia tra i due dati. Va tuttavia osservato che

importi IVA analiticamente elencati nelle fatture riportate nell’imputazione,
non viene invece indicato alcunché di specifico in ordine agli elementi passivi,
che peraltro ,quand’anche dedotti,non avrebbero alcuna rilevanza sul piano
fiscale tenuto conto che i soggetti emittenti le fatture risultano solo schermi
fittiziamente interposti ai fini dell’incriminata operazione fraudolenta,
ovverosia così come definite dalla stessa sentenza impugnata “società fittizie,
non operative e che non avevano mai assolto alcun obbligo fiscale”. Il
precedente giurisprudenziale invocato dal ricorrente (Sez. 3, 10.6.2015
n.24965) secondo il quale “il profitto illecito suscettibile di sequestro e di
confisca, derivante dalla fattura non è costituito dall’importo nella sua
totalità, ma dall’ammontare dell’imposta che lo stesso consente di evadere,
attraverso una indebita indicazione di elementi passivi fittizi nella
dichiarazione annuale” non scalfisce la sentenza impugnata la quale,
correttamente, non estende il sequestro all’importo totalizzato nella fattura
ma lo limita unicamente all’imposta sul valore aggiunto evasa. Peraltro, il
precedente richiamato afferiva alla ben diversa ipotesi in cui non soltanto
parte dell’imposta evasa era stata pagata, ma in cui la dichiarazione annuale
di imposta presentata dall’emittente consentiva di verificare gli elementi
passivi da computare nel risultato contabile complessivo.
Deve quindi in conclusione ritenersi che del tutto legittimamente la Corte
territoriale abbia disposto la confisca per equivalente nei confronti di soggetti
ritenuti responsabili di utilizzo di fatture inesistenti ai fini della dichiarazione
di imposta sul valore aggiunto in misura corrispondente agli importi
complessivi della imposta IVA evasa, con conseguente rigetto del motivo di
ricorso in esame.
3.

I ricorsi proposti da tutti gli imputati devono essere, conseguentemente,
rigettati. Segue a tale esito la condanna dei ricorrenti, a norma dell’art.616
c.p.p. al pagamento delle spese processuali.

11

mentre gli elementi attivi sono chiaramente individuabili corrispondendo agli

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Così deciso il 20 gennaio 2017

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