Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 18776 del 30/09/2016


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Penale Sent. Sez. 4 Num. 18776 Anno 2017
Presidente: BLAIOTTA ROCCO MARCO
Relatore: CENCI DANIELE

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
BOCCUNI COSIMO N. IL 07/04/1980
BUONFRATE FRANCESCO N. IL 08/04/1959
CAPOZZA NICOLA N. IL 22/10/1981
CICCOLELLA PAOLO N. IL 19/03/1965
D’ANCONA GIOVANNI N. IL 01/07/1983
D’ANCONA VINCENZO N. IL 31/10/1981
MODEO GIULIO N. IL 25/10/1983
NARDELLI MASSIMO N. IL 26/11/1975
PALMIERI MICHELANGELO N. IL 16/01/1987
PASTORE PASQUALE N. IL 05/07/1965
PORTACCI LUCIA N. IL 31/05/1975
POTENZA ANTONIO N. IL 18/06/1961
RUTA LEONARDO N. IL 28/12/1974
TRILLO GIOVANNA N. IL 29/07/1978
VIGGIANI ANTONIO N. IL 29/04/1982
avverso la sentenza n. 67/2015 CORTE APPELLO di LECCE, del
20/07/2015
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 30/09/2016 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. DANIELE CENCI
FU-t r I
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. 55A
che ha concluso per

Data Udienza: 30/09/2016

sentite le conclusioni del Procuratore Generale, dott.ssa Paola Filippi, che ha
chiesto il rigetto di tutti i ricorsi, escluso quello di Francesco Buonfrate, in
relazione al quale ha concluso chiedendo dichiararsi l’inammissibilità;

udito, per l’imputato Giulio Modeo, l’avvocato Alfredo Gaito, del Foro di
Roma, anche in sostituzione dell’avv. Giuseppe Lecce, del Foro di Taranto, che si
è riportato ai motivi di ricorso, chiedendone l’accoglimento;
udito, per l’imputata Giovanna Trillo, l’avvocato Oronzo Rochira, del Foro di

udito, per gli imputati Giovanni D’Ancona e Domenico D’Ancona, l’avvocato
Luigi Esposito, del Foro di Taranto, che si è riportato ai motivi di ricorso,
chiedendone l’accoglimento;
udito, per gli imputati Francesco Buonfrate, Vincenzo D’Ancona, Pasquale
Pastore e Lucia Portacci, l’avvocato Salvatore Maggio, del Foro di Taranto, che si
è riportato ai motivi di ricorso, chiedendone l’accoglimento;
udito, per l’imputato Massimo Nardelli, l’avvocato Giuseppe Sernia, del Foro
di Taranto, che si è riportato ai motivi di ricorso, chiedendone l’accoglimento;
udito, per l’imputato Leonardo Ruta, l’avvocato Biagio Leuzzi, del Foro di
Taranto, che si è riportato ai motivi di ricorso, chiedendone l’accoglimento;
udito, per l’imputato Antonio Viggiani, l’avvocato Salvatore Maggio, del Foro
di Taranto, in sostituzione dell’avv. Gaetano Vitale, del Foro di Taranto, che si è
riportato ai motivi di ricorso, chiedendone l’accoglimento;
udito, per l’imputato Michelangelo Palmieri, l’avvocato Andrea Melpignano,
del Foro di Bari, che si è riportato ai motivi di ricorso, chiedendone
l’accoglimento;
udito, infine, per l’imputato Paolo Ciccolella, l’avvocato Massimo Saracino,
del Foro di Taranto, che si è riportato ai motivi di ricorso, chiedendone
l’accoglimento.

RITENUTO IN FATTO

1.La Corte di appello di Lecce il 20 luglio 2015, parzialmente riformando la
sentenza emessa il 31 marzo 2014 all’esito di giudizio abbreviato dal G.u.p. del
Tribunale di Lecce, ha confermato la condanna, per quanto in questa sede rileva,
nei confronti di: 1) Cosimo Boccuni; 2) Francesco Buonfrate; 3) Nicola Capozza;
4) Paolo Ciccolella; 5) Giovanni D’Ancona; 6) Vincenzo D’Ancona; 7) Giulio
Modeo; 8) Massimo Nardelli; 9) Michelangelo Palmieri; 10) Pasquale Pastore;
11) Lucia Portacci; 12) Antonio Potenza; 13) Leonardo Ruta; 14) Giovanna Trillo;

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Bari, che si è riportato ai motivi di ricorso, chiedendone l’accoglimento;

e 15) Antonio Viggiani; tutti variamente accusati dei reati di cui agli artt. 74 e 73
d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, con oggetto eroina e cocaina.
In particolare la Corte territoriale:
quanto a Cosimo Boccuni, detto Mimmo, ha rigettato l’appello, sicché
l’imputato risulta condannato per i reati di cui ai capi N ed O (entrambe violazioni
dell’art. 73 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309), fatti contestati come commessi,
rispettivamente, nel mesi di marzo-aprile 2008 ed il 25 aprile 2008, in
continuazione tra di loro, stimato il primo più grave;
quanto a Francesco Buonfrate, ha ridotto la pena inflitta in primo grado;

n. 309 del 1990), con permanenza sino a maggio 2008 ed oltre, ed U (art. 73
d.P.R. n. 309 del 1990), nel mese di maggio 2008; con recidiva reiterata,
specifica ed infraquinquennale; con la continuazione tra loro, stimato più grave il
primo;
quanto a Nicola Capozza, ha ridotto la pena; Capozza risulta, pertanto,
condannato per il reato di cui al capo Q (art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990),
contestato come commesso tra aprile e maggio 2008, con recidiva reiterata,
specifica ed infraquinquennale;
quanto a

Paolo Ciccolella,

ha rideterminato la pena, riconosciuta la

continuazione con il reato già giudicato con sentenza irrevocabile del G.u.p. di
Taranto n. 213 del 16 marzo 2009; Ciccolella risulta, pertanto, condannato per i
reati di cui ai capi A (art. 74 d.P.R. n. 309 del 1990), con permanenza sino a
maggio 2008 ed oltre, e P (art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990), nel mese di aprile
2008; con la recidiva reiterata specifica infraquinquennale, in continuazione tra
di loro e con l’ulteriore già in giudicato, stimato il reato associativo più grave;
quanto a Giovanni D’Ancona, ha rideterminato la pena inflitta, riqualificato
l’unico reato allo stesso ascritto al capo W (art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990),
contestato come commesso dal 1° al 15 marzo 2008, in violazione del comma 5
dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990, esclusa la sussistenza della recidiva
contestata;
quanto a Vincenzo D’Ancona, detto Enzo, ha rideterminato la pena inflitta
e ha riqualificato il reato ascritto al capo W) in violazione del comma 5 dell’art.
73 del d.P.R. n. 309 del 1990; Vincenzo D’Ancona risulta, in conseguenza,
condannato per i reati di cui ai capi A (art. 74 d.P.R. n. 309 del 1990), C (art. 73
d.P.R. n. 309 del 1990), con permanenza sino a maggio 2008 ed oltre, e W
(come, appunto, riqualificato), commesso dal 1° al 15 marzo 2008; con recidiva
reiterata, specifica ed infraquinquennale ed aumento per la continuazione,
stimato più grave il reato di cui al capo A);

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Buonfrate risulta, dunque, condannato per i reati di cui ai capi A (art. 74 d.P.R.

quanto a Giulio Modeo, ha rigettato l’appello; Modeo risulta, pertanto,
condannato per i reati di cui ai capi A (art. 74 d.P.R. n. 309 del 1990), con
permanenza sino a maggio 2008 ed oltre, con il ruolo di promotore, ed R (art. 73
d.P.R. n. 309 del 1990), tra novembre 2007 e maggio 2008; con la recidiva
reiterata, specifica ed infraquinquennale ed aumento per la continuazione,
stimato più grave il reato associativo;
quanto a Massimo Nardelli, ha rideterminato la pena inflitta, qualificato
l’unico reato allo stesso ascritto al capo W), dal

10 al 15 marzo 2008, in

violazione del comma 5 dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990, con recidiva

quanto a Michelangelo Palmieri,

detto Michele, ha rigettato l’appello;

Palmieri risulta, pertanto, condannato per i reati di cui ai capo A (art. 74 d.P.R.
n. 309 del 1990), con permanenza sino a maggio 2008 ed oltre, ed L (art. 73
d.P.R. n. 309 del 1990), nei mesi di marzo, aprile e maggio 2008; con la recidiva
specifica ed infraquinquennale e con aumento per la continuazione, stimato più
grave il reato di cui al capo A;
quanto a Pasquale Pastore, ha ridotto la pena; l’imputato risulta pertanto
condannato per i reati di cui ai capi A (art. 74 d.P.R. n. 309 del 1990), con
permanenza sino a maggio 2008 ed oltre, e V (art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990),
da febbraio a maggio 2008, con la reiterata, specifica ed infraquinquennale ed
aumento per la continuazione, stimato più grave il reato di cui al capo A;
quanto a Lucia Portacci, ha rigettato l’appello; la donna risulta, pertanto,
condannata per i reati di cui ai capi A (art. 74 d.P.R. n. 309 del 1990), con
permanenza sino a maggio 2008 ed oltre, F ed S (entrambe violazioni dell’art. 73
d.P.R. n. 309 del 1990), rispettivamente il 3 maggio 2008 e tra novembre 2007
e maggio 2008; con aumento per la continuazione, stimato più grave il reato di
cui al capo A;
quanto ad Antonio Potenza, ha rigettato l’appello; Potenza risulta, perciò,
condannato per i reati di cui ai capi A (art. 74 d.P.R. n. 309 del 1990), con
permanenza sino a maggio 2008 ed oltre, ed I (art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990),
nei mesi di marzo ed aprile 2008; con aumento per la continuazione, stimato più
grave il reato di cui al capo A;
quanto a Leonardo Ruta, detto Leo, ha rigettato l’appello; Ruta risulta,
pertanto, condannato per i reati di cui ai capi A (art. 74 d.P.R. n. 309 del 1990),
con permanenza sino a maggio 2008 ed oltre, ed F e G (entrambe violazioni
dell’art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990), rispettivamente il 3 maggio 2008 e nei mesi
di aprile e maggio 2008; con aumento per la continuazione, stimato più grave il
reato di cui al capo A;

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reiterata, specifica ed infraquiquennale;

quanto a Giovanna Trillo, detta Gianna, ha rideterminato la pena inflitta a
Giovanna Trillo, previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche
prevalenti; Trillo risulta, pertanto, condannata per i reati di cui ai capi A (art. 74
d.P.R. n. 309 del 1990), con permanenza sino a maggio 2008 ed oltre, ed L (art.
73 d.P.R. n. 309 del 1990), nei mesi di marzo, aprile e maggio 2008, con
diminuzione per le attenuanti generiche stimate prevalenti sull’aggravante
contestata al capo A ed aumento per la continuazione con l’ulteriore illecito;
quanto, infine, ad

Antonio Viggiani,

detto Antonello o Chicco, ha

rideterminato la pena, esclusa la recidiva; Viggiani risulta condannato per i reati

2008 ed oltre, C, D, E, F, O, U e V (violazioni dell’art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990),
capi collocati temporalmente tra dicembre 2007 e maggio 2008, ritenuto il primo
più grave e con aumento per la continuazione con gli ulteriori illeciti, senza
recidiva;
tutti, con applicazione della diminuente per il rito premiale prescelto.

2. Ricorrono per la cassazione della sentenza, personalmente (Francesco
Buonfrate, Giovanni D’Ancona, Vincenzo D’Ancona, Lucia Portacci ed Antonio
Potenza) o tramite difensore di fiducia (i rimanenti dieci imputati), deducendo
violazione di legge e/o difetto motivazionale.

2.1. Seguendo l’ordine degli imputati contenuto in sentenza, si prende le
mosse dal ricorso nell’interesse di Cosimo Boccuni, condannato per i reati di cui
ai capi N ed O dell’editto.
2.1.1. Si deduce, in primo luogo, la inutilizzabilità, per violazione dell’art.
266, comma 2, cod. proc. pen., di parte delle intercettazioni ambientali dalle
quali è stata tratta la prova della responsabilità dell’imputato: con specifico
riferimento ai progressivi nn. 689 e 693 del decreto n. 193/2008, si ritiene,
infatti, che mancassero, al momento delle captazioni, indizi che fosse in corso la
commissione di reati nei luoghi di privata dimora. Tanto si desumerebbe: sia da
quanto affermato dal G.i.p. nell’ordinanza applicativa della custodia in carcere, in
particolare alla p. 127, ove si legge, testualmente, «seppure con riferimento alla
contestazione di cui al capo A [i.e.: art. 74 d.P.R. n. 309 del 1990], che non “può
individuarsi con certezza il luogo dove è stato perfezionato l’accordo criminoso a
mezzo del quale si è dato vita alla contestata associazione”» (così alla p. 3 del
ricorso); sia dalla contemporaneità tra la effettuazione delle intercettazioni
relative a Boccuni telefoniche (giorni 24 e 25 aprile 2008) e di tipo ambientale (il
25 aprile 2008), contemporaneità da cui si desumerebbe in via logica che, al
momento dell’attivazione delle ambientali, gli inquirenti non avessero in mano

di cui ai capi A (art. 74 d.P.R. n. 309 del 1990), con permanenza sino a maggio

elementi per ritenere sussistente lo svolgimento di attività in luoghi di privata
dimora; sia per non esservi

«alcuna traccia […] della valutazione della

fondatezza del motivo in forza del quale ritenere che nei luoghi in cui si sono
verificate le intercettazioni di comunicazioni tra presenti (nel caso di specie tra il
Marinò e la moglie del Boccuni) si svolgesse l’attività criminosa» (così alla p. 4
del ricorso).
2.1.2. Si denunzia, poi, difetto di motivazione in ragione di contraddittorietà
ed illogicità che emergerebbero dallo stesso testo della sentenza impugnata.

A), è stato condannato per due ipotesi ex art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990 (capi N,
contestato come commesso nei mesi di marzo e di aprile 2008, ed O, contestato
come commesso il 25 aprile 2008), non avendo i giudici di merito attribuito la
giusta considerazione alla dichiarazione dall’imputato di essersi effettivamente
recato il 25 aprile 2008 in Brindisi per svolgere mansioni di “corriere” della
droga, ma di essere tornato senza, tuttavia, ricevere né trasportare nulla, non
avendo trovato nessuno.
Sarebbe contraddittoria – si assume – la condanna per il capo N, dopo avere
assolto l’imputato dalla contestazione di associazione, a proposito della quale
Boccuni, benché assolto dal G.u.p. dalla relativa imputazione, pone la questione
circa l’esatta linea di confine tra la fattispecie associativa ed il concorso di
persone nel reato di cui all’art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990.

2.2. L’intera impugnazione svolta nell’interesse di

Francesco Buonfrate,

condannato per i capi A) ed U, consiste, evocate le categorie della violazione di
legge (art. 606, comma 1, lett. b, cod. proc. pen.) e del vizio motivazionale (art.
606, comma 1, lett. e, cod. proc. pen.), nell’affermazione che la Corte di appello
non avrebbe «valutato in maniera logica le risultanze istruttorie, posto che
difettavano gli elementi integrativi del reato e che le circostanze emerse sono
state valutate contraddittoriamente»

(così alla pagina unica che contiene il

ricorso).

2.3. Il ricorso nell’interesse di Nicola Capozza, riconosciuto colpevole del
reato descritto al capo Q, si affida a quattro motivi.
2.3.1.

Si censura, in primo luogo, l’asserita nullità derivante da

indeterminatezza e da genericità del capo di accusa, sotto vari profili: non
essendo stati individuati i concorrenti nel reato, cui pure si fa riferimento
nell’editto; non essendo indicata la tipologia di stupefacente né la quantità,
elementi dai quali derivano importanti riflessi sanzionatori; essendo la condotta
contestata al capo Q, finalizzata – si legge nell’editto – a dare attuazione al

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Boccuni, infatti, pur assolto già in primo grado dal reato associativo (capo

delitto associativo di cui al capo A, accusa dalla quale Capozza è stato assolto;
indimostrata essendo la collocazione temporale nei mesi di aprile e di maggio
dell’anno 2008. Ebbene, alle denunziate lacune non avrebbe offerto risposta
esauriente – assume il ricorrente – né la sentenza di primo grado, che si sarebbe
limitata a fare insoddisfacente richiamo al contenuto della informativa di reato
redatta dalla polizia giudiziaria, né quella di appello.
2.3.2. Si censura, in secondo luogo, la condanna in relazione al capo Q, in
quanto emessa – si ritiene – sulla base di un unico indizio, ossia il contenuto di
una sola intercettazione telefonica (progressivo n. 796 del 2 maggio 2008,

del ricorrente sequestri né pedinamenti né identificati possibili acquirenti di
droga né rinvenuta la disponibilità di somme di denaro in quantità compatibili
con lo svolgimento di attività illecita.
Assume il ricorrente che, nell’assenza di elementi oggettivi, le propalazioni
di Capozza potrebbero essere mere vanterie e che, non essendo stato
identificato l’acquirente, tale “Enzo”, cui nella telefonata si fa cenno, non può
dirsi raggiunta la prova della responsabilità dell’imputato.
Inoltre, il passaggio motivazionale della sentenza di appello (pp. 56-57) in
cui si valorizzano i rapporti tra il ricorrente e l’interlocutore Emanuele Marinò
appare illogico e contraddittorio, in quanto si assume, prima, che Capozza non
sappia che la droga cedutagli da tale Stefanino provenga, in realtà, da Marinò,
per poi affermare che Capozza e Marinò erano in rapporti di affari nel campo
degli stupefacenti.
La unicità della conversazione avvenuta nel mese di maggio 2008 non
consentirebbe di affermare che l’attività criminosa si sia realizzata nei mesi di
aprile e di maggio 2008. Peraltro, il relativo motivo di impugnazione, già
proposto in appello ed incentrato sulla non probatorietà del contenuto della
telefonata in questione, avrebbe ricevuto una risposte che il ricorrente definisce
meramente “glossatoria” (così alla p. 5 del ricorso) del testo della sentenza di
primo grado.
2.3.3. Benché evidenziato in appello che la condotta descritta al capo Q,
proprio per la mancanza di informazioni su quantità e natura dello stupefacente,
ben avrebbe potuto configurare l’ipotesi attenuata di cui all’art. 73, comma 5,
d.P.R. n. 309 del 1990, la Corte territoriale avrebbe disatteso il relativo motivo
senza fornire alcuna spiegazione.
2.3.4. La recidiva reiterata, specifica ed infraquinquennale contestata dal
P.M. a Capozza sarebbe stata censurabilmente applicata, senza fornire alcuna
motivazione sul perché la stessa, di tipo facoltativo, non potesse essere esclusa
dal decidente in quanto – si assume – non indicativa, in concreto, di maggiore

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decreto n. 193/09 RIT), privo di riscontri, non essendo stati operati nei confronti

capacità a delinquere; dalla denunziata mancanza di motivazione deriverebbe
ulteriormente la nullità della sentenza impugnata.

2.4. Il difensore di Paolo Ciccolella, condannato in relazione ai capi A e P,
contestati come commessi, rispettivamente, con permanenza “sino al maggio
2008 ed oltre” e “nel mese di aprile 2008”, denunzia violazione di legge e difetto
motivazionale, articolando due motivi.
2.4.1.

Con il primo censura l’illogicità che deriverebbe dalla stimata

«dissonanza temporale tra le contestazioni di cui ai capi A) e P)» (così alla p. 2

criminale in un arco di tempo più ampio (dal 2007 ai primi mesi del 2008, come
si legge alla p. 2 della sentenza di primo grado), mentre il reato-fine sarebbe
collocato solo nell’aprile 2008 e, per di più, non contestato come commesso per
favorire il sodalizio criminoso: l’assenza

«di traccia di contestazione

dell’aggravante di cui all’art. 81 cp» (così alla p. 2 del ricorso) dimostrerebbe,
dunque, come sia illogico ed antigiuridico ritenere che Paolo Ciccolella, pur
facendo parte di un’associazione criminale finalizzata allo spaccio di droga, non si
sia reso autore di nessun episodio di spaccio, se non quello del mese di aprile
2008, non teleologicamente connesso, però, alla compagine associativa.
2.4.2. Con l’ulteriore motivo denunzia promiscuamente violazione di legge e
difetto motivazionale in relazione all’affermazione di penale responsabilità
dell’imputato siccome appartenente ad associazione ex art. 74 d.P.R. n. 309 del
1990.
Definisce il quadro indiziario nei confronti dell’assistito fumoso e privo di
imprescindibili riscontri oggettivi: anzi, l’unico riscontro oggettivo sarebbe
costituito dall’episodio di spaccio che ha condotto all’arresto dell’imputato il 29
aprile 2008, a proposito del quale, peraltro, la Corte sarebbe incorsa in grave
errore motivazionale, in quanto con riferimento a tale episodio, ormai accertato
in separato processo penale con la sentenza n. 213 del 2009 del G.u.p. del
Tribunale di Taranto, passata in giudicato, la Corte territoriale avrebbe omesso di
indicare le ragioni per cui tale fatto non sarebbe da considerare come isolato
episodio criminoso ma, invece, come indice della partecipazione ad associazione
ex art. 74 d.P.R. n. 309 del 1990; inoltre la sentenza richiamata non conterrebbe
alcun elemento da cui desumersi l’appartenenza associativa dell’imputato. La
sentenza impugnata sarebbe, ancora, priva di motivazione circa la provenienza
dal clan “Marino” della droga sequestrata a Ciccolella in occasione dell’arresto del
29 aprile 2008.
La decisione incorrerebbe in altri gravi errori: nel non tenere conto che mai
Paolo Ciccolella viene intercettato, ma che altri sono i soggetti loquenti; che

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dell’impugnazione), in quanto l’imputato avrebbe partecipato ad un’associazione

nessuna adeguata prova vi è in atti circa la certa identificazione del “Paolo” di cui
si parla nella conversazioni intercorse tra altri; nel non valutare che la maggior
parte delle conversazioni sono relative ad un periodo, dopo l’arresto del 29 aprile
2008, in cui il ricorrente era detenuto; nel considerare Ciccolella intraneo
all’associazione in quanto stabile acquirente di droga, mentre si tratterebbe, in
realtà, di un cronico abituale assuntore di droga, noto negli ambienti dello
spaccio ma soltanto per essere tossicodipendente e per vivere nella Bari vecchia.
Ulteriore illogicità deriverebbe dalla non coincidenza tra quantitativo di
droga che Marino avrebbe consegnato a Ciccolella – un chilogrammo – e quella

conseguenza, non può valere da riscontro alle ulteriori accuse mosse
all’imputato, come invece, ma erroneamente, ritenuto dalla Corte territoriale.
Le uniche due intercettazioni intercorse tra Marino e Ciccolella (progressivi
nn. 631 e 675) avrebbero contenuto generico e privo di valore indiziario, mentre
le altre intercorrerebbero tra altri soggetti: in ogni caso, la Corte di appello
avrebbe erroneamente affermato l’esistenza di numerose conversazioni tra
Ciccolella e gli altri imputati e non avrebbe fornito adeguata motivazione circa la
probatorietà del dato indiziario scaturente dai colloqui captati, che si assumono
essere privi di riscontri.
Il ricorrente richiama principio giurisprudenziale secondo il quale allorquando
la condotta consiste nella partecipazione ad un unico episodio criminoso, è – sì possibile la prova della responsabilità per il reato associativo ma essa deve
essere particolarmente rigorosa.
Insufficiente ed illogica sarebbe anche l’analisi della posizione del ricorrente
in relazione al tema delle sussistenza di una “cassa comune” per fronteggiare le
difficoltà economiche dei sodali arrestati, in quanto, nel caso di Ciccolella, il
riferimento operato in sentenza alla elargizione di soli 100,00 euro deporrebbe,
in ragione dell’esiguità dell’importo, più per un’offerta caritatevole che non per
un vero e proprio contributo elargito in un’ottica di solidarietà criminale e
sarebbe, in ogni caso, privo di riscontri, oltre che scarsamente compatibile con il
ritenuto ruolo di un certo spicco che si attribuisce allo stesso nell’associazione.
Infine, sottolineato che nella maggior parte delle conversazioni intercorse
tra altri ed intercettate si parla di un certo “Paolo”, senza tuttavia specificarne il
cognome o altro elemento che consenta con sicurezza di identificarlo proprio con
Paolo Ciccolella, si evidenzia che, mentre in alcune intercettazioni Marinò afferma
che Ciccolella è uno che lavora bene ed un ottimo pagatore, in altre, invece, è
definito come uno che ha lasciato una gran quantità di debiti: discende che non
si comprende – né la sentenza spiega – perché un’associazione criminale
dovrebbe sovvenzionare un grosso debitore.

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rinvenuta in occasione del suo arresto, il 29 aprile 2008, arresto che, in

2.5. Il motivo principale personalmente presentato da Giovanni D’Ancona,
condannato per il solo capo W, riqualificato in violazione dell’art. 73, comma 5,
d.P.R. n. 309 del 1990, con esclusione della recidiva, consiste nella omessa
motivazione circa la mancata concessione delle richieste attenuanti generiche; in
subordine, si eccepisce l’intervenuta prescrizione dell’illecito.

2.6. Nell’interesse di Vincenzo D’Ancona, condannato per i capi A, C e W,
quest’ultimo riqualificato in violazione dell’art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309 del

2.6.1. Con il primo si denunzia mancanza o inadeguatezza motivazionale in
relazione a tre temi, già proposti con l’appello, ai quali la sentenza di secondo
grado non avrebbe offerto risposta o non ne avrebbe offerto di soddisfacente,
essendosi limitata, secondo il ricorrente, a ripercorrere gli argomenti svolti dal
giudice di primo grado, temi inerenti:
a) il limitatissimo arco temporale, inferiore a tre mesi, e la esiguità numerica
dei singoli episodi contestati (tre), tali da non consentire, secondo il ricorrente, di
ritenere sussistente la continuità e la permanenza nell’associazione dell’imputato
e la necessaria affectio societatis;
b)

la non certa attribuibilità della paternità delle parole intercettate a

Vincenzo D’Ancona, talora indicato come “Enzo piccolo” e talaltra come “u’
cunigghiu”;
c) la genericità del capo di accusa.
In particolare: quanto all’appartenenza all’associazione, l’arresto di Vincenzo
D’Ancona, avvenuto in Bari il 19 marzo 2008, essendo stato colto in possesso di
droga, fatto che si assume estraneo al presente processo, non sarebbe elemento
idoneo a suffragare l’appartenenza associativa; l’attribuzione della voce proprio
al ricorrente sarebbe stata effettuata in difetto di qualsiasi criterio scientifico o
logico ma soltanto per essere la stessa già nota alle forze di polizia; quanto alla
genericità, l’oggetto delle cessioni di cui ai capi C e W, commesse peraltro in
concorso con persone non identificate, sarebbe stupefacente di qualità, oltre che
di quantità, imprecisata, mentre al capo A, ma contraddittoriamente, si assume
che oggetto del vincolo associativo sarebbe la cessione di eroina e di cocaina; le
parole usate nelle conversazioni intercettate sarebbero illogicamente considerate
dai giudici di merito come compatibili con il commercio di stupefacenti; il
contenuto delle captazioni sarebbe del tutto privo di riscontri di tipo oggettivo
(sequestri, controlli di polizia giudiziaria etc.) e sul punto mancherebbe, in ogni
caso, la rigorosa motivazione che è necessaria.

1990, con la recidiva, si deducono tre motivi di ricorso.

2.6.2. Anche il mancato riconoscimento, in relazione al capo C, dell’ipotesi
attenuata di cui al comma 5 dell’art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990, ritenuta invece
sussistente in appello in relazione al capo W, sarebbe privo di ogni motivazione.
2.6.3. La sentenza, infine, non terrebbe conto delle ragioni poste dalla
difesa a sostegno della richiesta di applicazione delle attenuanti generiche con
giudizio di equivalenza rispetto alla recidiva .
2.6.4. Con memoria del 14 settembre 2016 il difensore dell’imputato ha
richiamato giurisprudenza di legittimità ed ha svolto argomenti per sostenere: la
insussistenza in capo al ricorrente del dolo di partecipazione al reato associativo,

condotta materiale si esaurisce nella realizzazione di un solo reato fine (nel caso
di specie, il reato sub lett. C, in quanto la realizzazione dell’illecito di cui al capo
W, per le sue concrete caratteristiche, non sarebbe dimostrativa di affectio
societatis, avendo nell’occasione l’autore agito in piena autonomia e non essendo
l’attività di corriere automaticamente dimostrativa della volontà di partecipare
all’associazione; e, quanto specificamente al capo C, la necessità, ove non risulti
provata la qualità di droga, non rinvenuta materialmente, alla quale si fa
riferimento nelle telefonate (fenomeno detto della “droga parlata”) di ritenere, in
applicazione del principio del favor rei, che si tratti di droga leggera.
Si sostiene, inoltre, che il contenuto di due intercettazioni svolte tra altri
(cioè le nn. 170 del 20 marzo 2008 e 677 del 24 aprile 2008), da cui la Corte
territoriale trae elementi di prova a carico del ricorrente, non avrebbe il valore
dimostrativo che vi attribuisce la Corte di appello.

2.7. Nell’interesse di Giulio Modeo, che è stato condannato per i reati di
cui ai capi A (art. 74 d.P.R. n. 309 del 1990) ed R (art. 73 d.P.R. n. 309 del
1990), con la recidiva reiterata, specifica ed infraquinquennale, il difensore
denuncia erronea applicazione della legge penale e contemporaneamente
disapplicazione delle regole codicistiche sulla valutazione della prova e vizio di
motivazione a proposito:
1) della configurabilità del reato associativo;
2) dell’attribuibilità del ruolo apicale a Giulio Modeo;
3)della dosimetria della pena con specifico riferimento ai limiti di
concedibilità delle attenuanti generiche.
2.7.1.

Quanto al primo dei tre profili, evidenzia il ricorrente che

esisterebbero numerosi dubbi circa la configurabilità o meno di un’associazione
effettivamente operante, tenuto conto che la stessa sarebbe stata attiva per
poco più di sei mesi, da fine novembre 2007 a maggio 2008, mentre l’eventuale
partecipazione di Modeo si sarebbe arrestata al febbraio-marzo 2008, che il

11

dovendo essere la relativa dimostrazione particolarmente rigorosa allorquando la

ristretto arco temporale in cui si sarebbero verificate le ipotesi di reato
“falsificherebbe”, sulla base di consolidate massime di esperienza, la tesi
accusatoria, non consentendo di ravvisare gli elementi costitutivi del reato
associativo, e che difetterebbe, in ogni caso, la prova dell’elemento soggettivo in
capo a Modeo, cioè la coscienza e la volontà di far parte di un’associazione e di
attivarsi per realizzare un comune programma criminoso proteso alla
realizzazione di una serie indeterminata di delitti in materia di stupefacenti.
Il problema centrale del processo starebbe, infatti, ad avviso del ricorrente,
nella verifica se a Giulio Modeo debba addebitarsi soltanto il concorso nel reato di

consapevole, ad un sodalizio criminoso.
Richiamata giurisprudenza di legittimità, secondo cui «Ricorre il vizio della
mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione della
sentenza se la stessa risulti inadeguata nel senso di non consentire l’agevole
riscontro delle scansioni e degli sviluppi critici che connotano la decisione in
relazione a ciò che è stato oggetto di prova ovvero di impedire, per la sua
intrinseca oscurità od incongruenza, il controllo sull’affidabilità dell’esito
decisorio, sempre avendo riguardo alle acquisizioni processuali ed alle
prospettazioni formulate dalle parti» (Sez. 6, n. 7651 del 14/01/2010, Mannino,
Rv. 246172), si censura la sentenza impugnata poiché, anche alla luce di quanto
dedotto dalla difesa e di quanto risposto dalla Corte territoriale, mancherebbe
una soddisfacente informazione fattuale da cui potersi logicamente inferire, sulla
base di attendibili regole di esperienza, il nucleo essenziale della condotta
partecipativa,

ergo:

la stabile compenetrazione del soggetto nel tessuto

organizzativo del sodalizio.
In particolare, si sottolinea come a febbraio-marzo 2008 fosse già maturato,
come si desume pacificamente dalle intercettazioni richiamate, dal contenuto
della comunicazione di notizia di reato della polizia giudiziaria del 3 maggio
2010 (p. 201), facente parte del materiale utilizzabile atteso il rito prescelto, e
dalle stesse motivazioni delle sentenze sia di primo (p. 41) che di secondo grado
(p. 77), un raffreddamento dei rapporti tra Modeo e Marinò; ciò che, unitamente
al fatto che, mentre la condotta associativa contestata al capo A è cessata a
marzo 2008, quella di violazione dell’art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990 contestata al
capo R si è protratta sino a maggio 2008, proverebbe l’autonomia della condotta
del ricorrente. Dimostrazione ulteriore sarebbe fornita dal contenuto della
conversazione intercettata del 1° maggio 2008 (n. 778 del decreto 193/2008
rit), riferita alla p. 44 della sentenza di primo grado, dove Marinò si lagna
dell’atteggiamento quasi ostile di Modeo e racconta al suo interlocutore di avere
saputo che Modeo avrebbe messo in guardia Francesco Boccuni dal dare la droga

12

cui all’art. 73 d.p.R. n. 309 del 1990 ovvero la partecipazione, cosciente e

a Marinò, definito un “bidonista”, cioè una persona inaffidabile. La valenza
liberatoria di tale specifico passaggio, peraltro sottolineata dalla difesa alla p. 5
dei propri motivi nuovi in appello, sarebbe stata totalmente ignorata dalla Corte
territoriale.
Si richiamano, poi, precedenti giurisprudenziali che sottolineano che quando
la condotta si esaurisca nella partecipazione ad un unico episodio criminoso può
affermarsi la responsabilità per il reato associativo ma che la prova della
partecipazione deve essere particolarmente puntuale e rigorosa e che descrivono
il criterio distintivo tra delitto associativo e concorso di persone nel reato, da

concorso di persone nel reato, si concretizza in via meramente occasionale ed
accidentale, essendo diretto alla commissione di uno o più reati determinati,
mentre nell’altro caso è diretto all’attuazione di un più vasto programma
criminoso, per la commissione di una serie indeterminata di delitti.
Evidenzia, infine, che, date le analogie tra reati associativi e concorso di
persone, la diversità di elementi si deve necessariamente tradurre in una
diversità qualitativa e strutturale dell’accordo criminoso, e che la circostanza che
l’associazione non comporti necessariamente un’organizzazione di tipo complesso
e sofisticato, non fa venire meno l’esigenza di dimostrare adeguatamente che
ciascuno degli associati abbia effettivamente fornito quell’impegno permanente e
continuativo a svolgere un determinato compito, che costituisce il tratto
distintivo della fattispecie associativa, per concludere che l’appartenenza di un
soggetto ad un sodalizio può essere – sì – dimostrata anche sulla base della
partecipazione ad un solo reato-fine, ma ciò in via non di regola quanto di
eccezione, quando cioè risulti dimostrato che il ruolo svolto e le modalità
dell’azione siano state tali da evidenziare la sussistenza del vincolo,
dimostrazione che mancherebbe nella sentenza impugnata.

2.7.2. Circa l’attribuibilità del ruolo apicale a Modeo, le censure al riguardo
già svolte nell’atto di appello e nei motivi nuovi appaiono al ricorrente essere
state dalla Corte di appello superficialmente valutate, alla stregua delle
considerazioni che di seguito si riassumono.
Anzitutto, il ruolo di Modeo pare marginale già nella prima parte della
sentenza, non essendo presente nell’elenco delle intercettazioni stimata
maggiormente rilevanti ed essendogli attribuito il capo B, dal quale era stato
assolto in primo grado.
Il compito di promotore ed organizzatore sarebbe ricavato dalla suggestiva,
ma arbitraria, concatenazione di episodi contenuta in sentenza, priva però di
decisiva forza probante: in particolare, quanto all’incontro del 3 gennaio 2008
presso l’ippodromo tra Modeo e Biancofiore per la presunta fornitura di una non

13

individuarsi nel carattere dell’accordo criminoso, nel senso che esso, nel caso di

precisata, né in qualità né in quantità, sostanza drogante, la semplicistica
attribuzione alla presenza fisica di Modeo del ruolo di alter ego di Marinò, con lo
stesso intercambiabile, non terrebbe conto di emergenze processuali (riferite alla
p. 78 della sentenza di secondo grado ed alla p. 40 di quella del G.u.p.) secondo
cui, in realtà, Modeo non doveva partecipare all’incontro ma venne chiamato solo
all’ultimo momento e che lo stesso è parente di Marinò, che all’epoca si fidava di
Modeo, essendo il deterioramento dei rapporti tra i due collocato più avanti nel
tempo, ossia a febbraio-marzo 2008 (come si legge alla p. 41 della sentenza di
primo grado).

quale nei successivi incontri Biancofiore e Trillo avrebbero sempre preteso la
presenza di un capo come Marinò non accontentandosi mai della presenza di altri
associati (p. 78), fornirebbe ulteriore conferma del ruolo di minor rilevo di
Modeo e denoterebbe contraddittorietà ed illogicità motivazionale, essendo
emerso che sono proprio gli interlocutori-fornitori di droga a riconoscere in
Marinò, e non già in Modeo, la “stoffa”, per così dire, del capo.
Gli ulteriori elementi di prova che la Corte territoriale (pp. 79-81 della
sentenza impugnata) trae da conversazioni di Marinò non tengono conto del già
sottolineato risentimento e della diffidenza verso Modeo, stati d’animo che
avrebbero certamente imposto un vaglio più penetrante sulla attendibilità della
fonte di prova, non potendosi escludere che Marinò fosse a conoscenza delle
indagini in corso, dato che già sin dal 19 marzo 2008 era stato arrestato
Vincenzo D’Ancona.
Ancora: l’affermazione da parte della Corte di appello che almeno sino al 28
febbraio 2008 Modeo era inserito nell’associazione di Marinò, desunta dal
colloquio intercettato in cui Marinò informa la moglie Lucia che la mattina stessa
è venuto Giulio che ha promesso di portare oggi o domani il resto dei soldi, così
intendendo che i rapporti economici fossero ancora in corso (p. 81 della sentenza
di secondo grado), non tiene conto dell’obiezione difensiva, già svolta in appello
e delle piste alternative nell’occasione rappresentate, essendo stato evidenziata
la mancanza di qualsiasi prova circa la provenienza illecita del denaro del quale
si parla
Sempre in appello, in particolare nei motivi nuovi (alla p. 2), si era
sottolineato che la sentenza di primo grado (alle pp. 12-13) riconduce la rete di
corrieri, la gestione delle spese legali, il mantenimento delle famiglie degli
associati e la disponibilità di uomini e mezzi al protagonismo di Marinò, non già
di Modeo.
Si evidenzia, infine, sotto il profilo di una grave carenza di motivazione,
l’assenza sia di qualsiasi puntuale e personalizzante riferimento a Modeo da
14

Il successivo passaggio motivazionale della sentenza di appello, secondo il

parte dei soggetti intercettati, anche nelle situazioni di maggiore fibrillazione del
gruppo, come ad esempio l’arresto di D’Ancona, sia di ogni comportamento di
Modeo descritto in sentenza come riconducibile a quello di un capo, apparendo
piuttosto il ricorrente, come già segnalato negli scritti difensivi, come un mero
“manovale”, che non dà ordini e che non si interessa alle sorti ed alle vicende
della consorteria criminale.
2.7.3. Quanto al trattamento sanzionatorio, si censura la motivazione della
sentenza di appello, additata ad inconferente e a meramente apparente, che ha
negato il riconoscimento delle attenuanti generiche, nonostante la conclamata

2008) sulla base dell’asserzione che a novembre 2007 non è, in realtà, iniziata la
condotta del’imputato che si protraeva già da tempo, essendo la stessa già

«in

corso di svolgimento anche se non è stato accertato esattamente da quando»
(così alla p. 84), valorizzando, in ultima analisi, non già un dato dimostrato ma
una mera ricostruzione retroattiva sfornita di qualsiasi base probatoria, con
conseguente violazione della ratio stessa dell’istituto di cui all’art. 62-bis cod.
pen., come evidenziata in pronunzie, della Consulta e di legittimità, richiamate.

2.8. Il difensore di Massimo Nardelli, che è stato condannato, previa
derubricazione, per il solo capo W, si affida a due motivi di ricorso.
2.8.1. Con il primo deduce sostanzialmente omissione di pronunzia: la Corte
territoriale non avrebbe, infatti, tenuto in considerazione né le deduzioni
difensive svolte in appello relativamente al contenuto di una telefonata (la n.
2483 del 15 marzo 2008), in cui Vincenzo D’Ancona riferisce a Giovanni
D’Ancona che Massimo sarebbe estraneo alla vicenda della perdita di fornitura di
droga, così “scagionandolo” dalla responsabilità per l’episodio in cui Massimo, per
fuggire ai “falchi” della polizia giudiziaria, avrebbe gettato lo stupefacente, né le
spiegazioni offerte dallo stesso imputato in relazione all’effettivo significato del
termine “pannelli” , erroneamente ritenuto dai giudici significare droga.
2.8.2. Si denunzia, inoltre, mancanza ed illogicità della motivazione in
relazione al quantum di pena base applicata, definita come lontana dal minimo
edittale, malgrado l’avvenuto riconoscimento dell’ipotesi attenuata di cui al
comma 5 dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990.

2.9. Nell’interesse di Michelangelo Palmieri, condannato per i capi A ed L,
si deduce promiscuamente la ritenuta violazione delle lettere b), c) ed e) dell’art.
606, comma 1, cod. proc. pen.
2.9.1.

Si denunzia, in primo luogo, che la Corte territoriale avrebbe

totalmente disatteso gli argomenti svolti in appello dalla difesa, adottando una

15

brevità del periodo di partecipazione associativa (da novembre 2007 a febbraio

motivazione che sarebbe del tutto sovrapponibile a quella del G.u.p., con
particolare riferimento: alla violazione di legge posta in essere, per avere il
giudice di primo grado, prima, e, poi, la Corte di appello confuso il concorso di
persone nel reato di cessione di droga o di detenzione a fine di cessione con
l’ipotesi associativa ex art. 74 d.P.R. n. 309 del 1990, di cui non ricorrerebbero
gli estremi; alla mera sussistenza di due soli episodi di spaccio, disancorati da
ogni profilo di appartenenza associativa, come emergerebbe dal contenuto delle
intercettazioni; all’assenza di ogni motivazione a proposito del ruolo rivestito e
del contributo realizzato da Michelangelo Palmieri a favore dell’associazione.
La sentenza di secondo grado avrebbe, poi, erroneamente

riconosciuto la sussistenza della recidiva, pur in presenza di un solo precedente,
datato nel tempo e non specifico, per il quale l’imputato ha ottenuto la misura
alternativa alla detenzione da parte del Tribunale di sorveglianza di Bari, recidiva
che in ogni caso non sarebbe concretamente espressiva di maggiore pericolosità.
2.9.3. Mediante memoria intitolata “motivi aggiunti”, pervenuta il 30 agosto
2016, il difensore ha ribadito, anche mediante richiamo di giurisprudenza di
legittimità, le censure già svolte, cui ha aggiunto, per la prima volta, le seguenti:
la sentenza sarebbe nulla perché frutto di un mero “copia ed incolla” informatico;
sarebbe ulteriormente nulla per non avere tenuto in alcuna considerazione gli
argomenti svolti in appello mediante apposita memoria di discussione; la recidiva
non avrebbe dovuto essere tenuta in considerazione sussistendo una causa di
estinzione del reato o della pena che comporterebbe anche l’estinzione degli
effetti penali della condanna (così all’ultima pagina della memoria).

2.10. Nell’interesse di Pasquale Pastore, condannato per i capi A e V, si
denunzia la ricorrenza di violazioni di legge e di difetti motivazionali.
2.10.1. Sotto il profilo dell’an della responsabilità penale, si contesta, in
primo luogo, la illegittimità della condanna per partecipazione ad associazione
finalizzata allo spaccio, di cui non sussisterebbero i presupposti, potendo, al più,
ipotizzarsi un semplice concorso di persone nel reato ex art 73 d.P.R. n. 309 del
1990. La Corte di appello avrebbe respinto le censure meramente riportandosi
alle valutazioni di primo grado, non offrendo risposta alle seguenti osservazioni:
la coincidenza temporale tra momento finale del pactum sceleris (maggio 2008)
e commissione dei reati satellite contrasterebbe con il carattere indeterminato
del programma criminale, poiché dalla identità temporale deve desumersi che il
patto non può essere durato oltre l’epoca della commissione dei singoli reati; la
consorteria sarebbe completamente priva di organizzazione; mancherebbe la
prova della consapevolezza e volontà da parte degli imputati di prendere parte
ad una associazione stabile e strutturata, volta alla commissione di una serie

16

2.9.2.

indeterminata di reati in materia di stupefacenti; la totalità degli elementi di
accusa sarebbe fondata esclusivamente sul contenuto di intercettazioni, prive di
riscontri di tipo oggettivo, ad esempio sequestri o esiti di perquisizioni, in
particolare a carico di Pastore (in difformità da quanto si legge alla p. 27 della
sentenza impugnata), che possano suffragare le risultanze delle informazioni
captate.
Inoltre, ad avviso del ricorrente le telefonate valorizzate alle pp. 35-45 della
sentenza di secondo grado non vedono come protagonista Pastore, ma altre
persone, né a lui si fa alcun riferimento, fatta eccezione per una – la n. 874 del 7

un certo “Pasquale”, la cui identificazione in Pasquale Pastore, però, non
sarebbe provata: discende che, diversamente da quanto, ma in maniera che si
stima illogica, ritenuto nella sentenza impugnata, le telefonate non avrebbero
rilevanza probatoria per la sussistenza dell’associazione di cui al capo A della
rubrica.
La mancanza di alcuni elementi qualificanti, tra i quali la conoscenza tra
alcuni membri della presunta associazione e di una cassa comune tra i sodali,
deporrebbero per la derubricazione da fattispecie associativa a concorso ex art.
110 cod. pen. nel reato di cui all’art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990 o, quantomeno,
ad ipotesi attenuata di cui al comma 6 dell’art. 74 d.P.R. n. 309 del 1990, anche
in relazione ai modesti quantitativi di stupefacente addebitabili ai presunti
associati.
Sarebbe illogica e contraddittoria la motivazione (alle pp. 97 e ss.),
difettando ogni riferimento a specifici elementi di prova riguardanti la posizione
dell’odierno ricorrente ed essendo illegittimo, come accaduto, ricavare
l’appartenenza associativa dalla mera realizzazione di un reato scopo (capo V).
2.10.2. Quanto alle telefonate da cui la Corte ha ricavato la prova della
colpevolezza di Pasquale Pastore, riportate in sentenza (alle pp. 97 ss.),
avvenute tra Pastore e Marinò, tra Pastore e Antonello Viggiani e tra Marinò e la
moglie Lucia, se ne sottolinea il ristretto arco temporale rispetto alla lunga
durata delle indagini: ne discenderebbe la necessità di escludere

l’affectio

societatis in capo al ricorrente.
Si osserva che, in ogni caso, le telefonate riportate, siccome ritenuto nella
stessa motivazione di sentenza, non fanno esplicito riferimento al commercio di
stupefacenti; inoltre – evidenzia il ricorrente – esse non hanno un linguaggio
allusivo e, quanto al termine “documenti” che in alcune di esse (28 e 29 febbraio
2008 e 5, 6, 10 e 13 marzo 2008) compare, l’imputato ha già spiegato
nell’interrogatorio di garanzia che si trattava non già di droga ma di documenti
relativi alla situazione lavorativa della moglie di Marinò, Lucia Portacci, la quale

17

maggio 2008 – tra Emanuele Marinò e la moglie Lucia Portacci, in cui si parla di

per ottenere un finanziamento per l’acquisto di un’auto, doveva falsamente
apparire assunta da Pastore. Sarebbe, dunque, illogica la sentenza (pp. 99 e 101
e ss.) nel non avere ritenuto plausibile tale interpretazione alternativa, pur
motivatamente avanzata in appello e con produzione di documenti relativi alla
pratica di finanziamento.
Quanto alla telefonata del 7 maggio 2008, progressivo n. 874, tra Marinò e
la moglie, Lucia Portacci, essa non proverebbe, diversamente da quanto ritenuto
in sentenza (p. 104), che Pastore sia stato uno stabile acquirente di ingenti
quantitativi procurati dal gruppo Marinò e successivamente commercializzati, in

Pastore; in ogni caso, la telefonata, al più, potrebbe costituire indizio del singolo
reato contestato al capo V ma non della partecipazione all’associazione sub A.
2.10.3. La motivazione sarebbe, infine, assente o illogica con riferimento
alla individuazione della severa pena inflitta ed al mancato riconoscimento delle
circostanza attenuanti generiche, essendosi il giudice di appello in sostanza,
secondo il ricorrente, “appiattito” sulle valutazioni del giudice di primo grado.

2.11. Il ricorso nell’interesse di Lucia Portacci, condannata in relazione ai
capi A, F ed S, è strutturato su due motivi, entrambi denunzianti pretesa
violazione di legge e difetto motivazionale.
2.11.1. Si censura, in primo luogo, l’iter motivazionale che ha condotto
all’affermazione della penale responsabilità della donna in relazione al reato
associativo, sulla base di una “mole impressionante” di intercettazioni tra la
donna ed il marito, poi deceduto, Emanuele Marinò.
Si sottolinea, infatti, che l’elevato numero di contatti si spiegherebbe in
maniera piana con il vincolo di coniugio e che dalla serena lettura di tutto il
materiale istruttorio emergerebbe solo ed esclusivamente la identità di moglie
del capo di un’associazione criminale, capo che dalle telefonate risulta prendere
da solo le decisioni, che poi comunica a Lucia Portacci, senza coinvolgimento
decisionale della donna, in sostanza mera spettatrice passiva delle decisioni del
coniuge, talora persino in disappunto con l’uomo.
Non sarebbe suffragata da prove la convinzione, manifestata nella
motivazione della sentenza impugnata, circa il ruolo muliebre di custode della
contabilità e della partizione degli introiti tra gli affiliati. Nemmeno l’episodio,
additato ad esemplare dalla Corte di appello, dello smarrimento di circa un chilo
e mezzo di droga da parte di Leonardo Ruta risulta significativo, nell’ottica
accusatoria, condivisa dai giudici di merito, in quanto, ad avviso del ricorrente,
anche nella circostanza è l’uomo a prendere ogni iniziativa, mentre la donna
manifesta – sì – il suo rammarico per la scelta di collaboratori inadeguati da

18

quanto non vi è alcuna dimostrazione che “Pasquale” di cui si parla sia proprio

parte di Emanuele ma senza, tuttavia, sortire alcun effetto sulle di lui risoluzioni;
inoltre, è pur vero che la donna lo accompagna nelle ricerca del prezioso carico
ma soltanto perché a ciò richiesta ed in un’unica occasione.
La sentenza, inoltre, non terrebbe conto delle molteplici telefonate da cui
emerge che l’uomo agisce in assenza di un ruolo della moglie ed addirittura
all’insaputa della stessa.
Infine, da un passaggio testuale della sentenza di appello (p. 110) si
desume che Marinò manifesta malessere per avere disatteso un consiglio della
moglie. Ne discende, ad avviso del ricorrente, che si imporrebbero due sole

se non lo era, come si legge nel passo richiamato, conseguirebbe che esce
ulteriormente dimostrata l’estraneità della stessa al vincolo associativo.
2.11.2.

Sotto il profilo del trattamento sanzionatorio, la decisione si

limiterebbe a negare il riconoscimento delle generiche con mere clausole di stile,
senza vagliare tutti gli elementi concreti che deporrebbero invece per la
concessione del beneficio: l’assoluta incensuratezza della donna; l’assenza di
carichi pendenti o comunque di rimarchi per fatti sia antecedenti che successivi a
quelli per cui è processo; il coinvolgimento nei fatti ad opera del marito; l’essersi
costantemente dedicata alla crescita dei quattro figli avuti dall’uomo.

2.12. Antonio Potenza, condannato in relazione ai capi A ed I, con ricorso
personalmente presentato si affida a due motivi, entrambi evocanti violazione di
legge e difetto di motivazione.
2.12.1. Si denunzia, anzitutto, difetto totale di motivazione in relazione alla
condanna intervenuta per il capo I, avendo il giudice di secondo grado, ad avviso
del ricorrente, omesso di rispondere al motivo di appello già incentrato sulla
mancanza totale di motivazione in ordine allo specifico capo, reiterando la Corte
di appello il medesimo vizio in cui era già incorso il G.u.p.
2.12.2. La condanna per partecipazione ad associazione ex art.74 d.P.R. n.
309 del 1990 deriverebbe, poi, da erronea applicazione di legge e sarebbe
affetta da mancanza e da illogicità della motivazione.
Antonio Potenza è stato ritenuto svolgere l’attività di “corriere” della droga:
ebbene, si sottolinea nel ricorso, anche mediante richiami giurisprudenziali di
legittimità: che lo svolgimento di tale attività non costituisce, di per sé ed
automaticamente, la prova della partecipazione al reato associativo; che Potenza
ha avuto rapporti solo con Viggiani e con Marinò e mai con altri; che la durata
del contributo, come espressamente ritenuto in sentenza (alla p. 118), è di soli
otto giorni (dal 21 al 29 marzo 2008); che per svolgere i viaggi ha utilizzato la
propria vettura; che nelle telefonate non si adopera un linguaggio criptico.

19

alternative: o la donna era in grado di influenzare il marito oppure non lo era; e

Posto che il contenuto delle telefonate intercettate, seppure non
abbisognevole di riscontri, va valutato con rigore ed attenzione e che studi di
sociologia e di psicologia giuridica hanno dimostrato che non sempre chi parla
al telefono dice la verità, l’affermazione di penale responsabiltà di Antonio
Potenza sarebbe fondata su di un impianto probatorio instabile, non tale da
fornire rassicurante dimostrazione al di là, come codicisticamente prescritto, di
ogni ragionevole dubbio.

2.13. Il ricorso nell’interesse di Leonardo Ruta, condannato in relazione ai

legge e difetto motivazionale.
2.13.1. Con il primo si censura l’affermazione di penale responsabilità in
relazione al capo A, siccome alla condanna per associazione ai sensi dell’art. 74
d.P.R. n. 309 del 1990 si perverrebbe adottando una motivazione
manifestamente illogica e contraddittoria, pur in assenza di prova circa
l’appartenenza di Ruta ad un sodalizio criminoso.
La Corte di appello riproporrebbe acriticamente (alle pp. 119-122) la
motivazione di primo grado, malgrado – si ritiene – la insufficienza, segnalata
vanamente in appello, del quadro probatorio, peraltro attribuendo valenza per
l’affermazione di responsabilità in relazione al capo A ad un unico ed isolato
episodio, in data 3 maggio 2008, ammesso dall’imputato.
Mancherebbe la consapevolezza di Ruta di contribuire e di partecipare
attivamente ad un sodalizio organizzato, oltre che la prova di qualsiasi contatto
di Ruta con persone diverse da Marinò, il quale – si evidenzia – così poca fiducia
riporrebbe in Ruta da ipotizzare che lo stesso si fosse appropriato di stupefacente
anziché credere che avesse perso la sostanza in ragione dell’intervento della
Polizia: ciò dimostrerebbe ulteriormente la illogicità e la contraddittorietà della
sentenza, che alla p. 121 parla di “reciproco affidamento” tra Marinò e Ruta.
2.13.2. Con il secondo motivo si denunzia ulteriormente violazione di legge
e difetto motivazionale quanto ai criteri valutativi di cui all’art. 133 cod. pen.
adoperati dal giudice di appello in relazione all’art. 69 cod. pen., poiché la
motivazione della sentenza (p. 122) relativa al giudizio di bilanciamento tra
attenuanti generiche e recidiva sarebbe apodittica e sostanzialmente assente,
anche tenuto conto che l’imputato sarebbe meritevole di un giudizio di
prevalenza delle attenuanti perché ha reso confessione e perché è un
consumatore-spacciatore.

2.14. Il ricorso avanzato nell’interesse di Giovanna Trillo, condannata in
relazione ai capi A ed L, è articolato in cinque motivi.
20

capi A, F e G, si affida a due motivi di ricorso, entrambi denunzianti violazione di

2.14.1. Preliminarmente si deduce la nullità assoluta della notificazione del
decreto di citazione per il giudizio di appello all’imputata, la quale aveva eletto
domicilio, mediante dichiarazione resa all’ufficio matricola del carcere al
momento della liberazione, il 16 dicembre 2012, in Bari – Carbonara alla via
Vittorio Veneto n. 144, mentre la notifica dell’atto in questione è stata, si ritiene
del tutto erroneamente, tentata in Ceglie del Campo – Bari alla via Vecchia
Stazione n. 9 e, una volta non rinvenuta la destinataria a tale indirizzo, al
difensore per l’assistita mediante pec (acronimo di posta elettronica certificata).
Non avendo l’imputata avuto notizia del processo in appello e non avendo

da ritenersi nulli per nullità della

vocatio in iudicium;

si allega pertinente

documentazione.
2.14.2. Si censura, in secondo luogo, il rigetto da parte della Corte di
appello della eccezione che era stata già proposta dalla difesa a proposito della
ritenuta inutilizzabilità, di tipo patologico, del compendio intercettativo.
La motivazione resa dalla Corte territoriale al riguardo sarebbe in violazione
di legge, illogica e contraddittoria e non offrirebbe risposta alla doglianza, a suo
tempo avanzata, incentrata sulla mancanza o insufficienza motivazionale del
provvedimento di urgenza, di quello di convalida e dei successivi di proroga sia
quanto all’utilizzo di impianti noleggiati di ditte private sul presupposto della
indisponibilità da parte della Procura della Repubblica di idonee apparecchiature
sia quanto alla indicata, ma non adeguatamente spiegata, inidoneità degli
impianti pubblici rispetto alle esigenze investigative prospettate. Si sottolinea
anche che, fermo che l’attività di ascolto è avvenuta in Procura, non si avrebbe
nel caso di specie alcuna certezza di dove sia, in realtà, avvenuta l’attività di
registrazione delle conversazioni.
2.14.3. Con l’ulteriore motivo si denunzia la nullità, per genericità, della
richiesta di rinvio a giudizio del P.M. e di tutti gli atti successivi. La genericità
atterrebbe sia al profilo contenutistico che temporale delle condotte contestate ai
capi A ed L di imputazione.
La estrema vaghezza, appunto temporale oltre che contenutistica in senso
stretto, degli addebiti, non tale, secondo la ricorrente, da consentire l’esercizio
del diritto di difesa e costituente nullità insanabile, avrebbe comportato
l’attribuzione di condotte di significato penale all’imputata pur dopo la morte del
marito, Vincenzo Biancofiore, avvenuta in data 9 marzo 2008, momento
temporale oltre il quale, invece, come ritenuto espressamente alla p. 110 della
sentenza di primo grado (oltre che in altri atti giudiziari richiamati: ordinanza di
custodia in carcere, provvedimento del Tribunale per il riesame e sentenza della
Cassazione nel procedimento cautelare), si sarebbe, invece, interrotto ogni

21

partecipato al relativo giudizio, l’intero processo e la sentenza emessa sarebbero

rapporto della donna con Marinò e con D’Ancona; in ogni caso, la massima
estensione del contributo associativo della donna sarebbe temporalmente
collocabile tra il 1° ed il 9 marzo 2008; con ogni conseguente dubbio sulla
efficacia causale dell’apporto all’associazione derivante da un ipotetico contributo
di durata così breve.
La Corte territoriale avrebbe erroneamente risposto alla censura in
questione, in parte travisando i fatti rispetto alle emergenze investigative ed
istruttorie e in altra parte minimizzando, ma – si ritiene – illegittimamente, il
significato della corretta delimitazione temporale delle contestazioni.

– un rapporto processuale (non già per effetto della genericità della
contestazione, ma) per radicale difetto genetico della contestazione stessa, che
si ritiene indefinita, la situazione creatasi non potrebbe essere sanata a posteriori
né mediante richiamo da parte dei giudici di merito di singoli ioci processuali né
mediante evocazione delle categorie della non contestazione o della possibilità di
difesa in concreto, con la conseguenza che l’azione penale sarebbe stata, nei
confronti di Giovanna Trillo, solo apparentemente esercitata.
2.14.4. Si denunzia, poi, violazione di legge e mancanza, contraddittorietà
ed illogicità della motivazione, per avere la Corte territoriale, solo richiamando il
materiale intercettato, attribuito un ruolo in seno all’associazione alla donna,
mentre le intercettazioni, il cui contenuto in parte si richiama nel ricorso,
dimostrerebbero, invece, secondo la lettura che ne offre il ricorrente, l’assenza
di ogni consapevole volontà di contribuire al sodalizio, posto che Giovanna Trillo
era meramente connivente, ergo: non punibile rispetto alla condotta posta in
essere dal marito, Vincenzo Biancofiore, morto il quale (in data 9 marzo 2008) si
sarebbero interrotti i contatti; né – e significativamente – da alcuna
intercettazione risulta che gli associati abbiano in alcun modo aiutato
economicamente la vedova, e ciò in contrasto con la regola di solidarietà
operante nell’associazione, come dimostrato dall’episodio del 7 maggio 2008
(richiamato alla p. 62 della sentenza di appello) in cui Marinò rammenta la
promessa a suo tempo fatta di aiutare economicamente la famiglia di Paolo
Ciccolella in caso di arresto.
Si sottolinea anche: che la donna avrebbe avuto, al più, un ruolo
assolutamente marginale ed in un arco temporale assai ristretto, che il richiamo
da parte dei giudici di merito, a rafforzamento del costrutto accusatorio, di
sequestri avvenuti dopo il marzo 2008 appare inconferente, in quanto la donna
da tale data aveva cessato ogni contatto con i presunti associati; che i termini
“autovetture”, “cavalli”, “libretti” significanti, secondo i giudici di merito, con
affermazione che si stima congetturale, droga, ben avrebbero potuto indicare

22

)AiL,

Non essendosi validamente instaurato – si assume da parte della ricorrente

altre attività oggetto di illecite vicende, quali ricettazione di auto, corse truccate
aut similia.
2.14.5.

Con specifico riferimento, infine, al capo L, la denegata

derubricazione, invocata dalla difesa, dell’illecito in violazione dell’art. 73, comma
5, d.P.R. n. 309 del 1990, costituirebbe illogica disparità di trattamento rispetto
alla riqualificazione operata, invece, dalla stessa Corte di appello del capo sub
lett. C addebitato a Vincenzo D’Ancona, la cui posizione sarebbe stata – si
afferma – deteriore rispetto alla donna, il cui agire sarebbe stato apoditticamente
definito non di lieve entità, mentre D’Ancona, secondo quanto si legge nella

quotidianamente e per ben quattro mesi nell’interesse dell’associazione.

2.15. Il ricorso nell’interesse di Antonio Viggiani, condannato in relazione
ai reati contestati ai capi A, C, D, E, F, O, U e V, è articolato mediante lo sviluppo
di tre motivi, con i quali si invoca, promiscuamente, violazione di legge e difetto
motivazionale.
2.15.1. Richiamati, in primo luogo, gli indici costitutivi, come precisati dalla
elaborazione giurisprudenziale di legittimità, del reato associativo e la differenza
rispetto al mero concorso di persone nel reato, si assume essere totalmente
mancante ovvero gravemente lacunosa, essendo limitata alla mera elencazione
di episodi contestati e senza alcun effettivo apprezzamento degli elementi
indiziari, l’affermazione circa l’appartenenza di Viggiani ad un’associazione,
difettando tutti gli elementi costitutivi della fattispecie; e ciò in dispregio delle
doglianze difensive contenute nell’atto di appello, così permanendo, secondo la
tesi difensiva, tutte le lacune della sentenza di primo grado.
I fatti contestati al ricorrente potrebbero invece, al massimo, integrare
isolate ad autonome attività di detenzione e cessione, peraltro di lievissima
entità.
Discenderebbe, ad avviso del ricorrente, la nullità della sentenza
relativamente al capo A.
2.15.2. Richiamati i principi elaborati dalla giurisprudenza di legittimità a
proposito della necessaria prudenza che deve guidare il giudice nella
interpretazione del contenuto delle intercettazioni ed esclusa la sussistenza di
una massima di esperienza secondo la quale debba ritenersi che chi parli al
telefono dica sempre la verità, si assume che, quanto ai reati-satellite addebitati
a Viggiani, non vi siano fonti conoscitive diverse dalle conversazioni, non
essendo stati eseguiti sequestri né perquisizioni né assunte sommarie
informazioni che possano “dare corpo” a mere congetture e a presunzioni circa il
senso delle conversazioni e l’oggetto delle stesse, che potrebbero prestarsi a

23

sentenza, ritenuto responsabile dell’illecito riqualificato, avrebbe operato quasi

molteplici letture, prive di ogni razionale certezza (pp. 136 e ss. della sentenza
impugnata), in violazione della regola dell’ “oltre ogni ragionevole dubbio” ex art.
533, comma 1, cod. proc. pen., da parte della Corte di appello, che si sarebbe
limitata ad avallare le forzature già effettuate in primo grado.
2.15.3. Ulteriore – e finale – violazione di legge e difetto di motivazione si
ravviserebbe nel diniego del riconoscimento delle circostanze attenuanti
generiche, basato su di una motivazione (p. 139 della sentenza di appello) che si
addita a labile, carente ed anzi assolutamente mancante e, così, lesiva del diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Appare preliminarmente opportuno affrontare alcune questioni giuridiche,
da più parti sollevate, ponendo alcuni punti fermi.
1.1. Le difese di Giulio Modeo, di Michelangelo Palmieri, di Pasquale Pastore
e di Antonio Viggiani (oltre che, sia pure in maniera astratta e speculativa, quella
di Boccuni, attesa la mancanza di interesse per essere stato l’imputato
irrevocabilmente assolto dal G.u.p. dall’accusa associativa) hanno denunziato
una pretesa violazione o falsa o erronea applicazione di legge, che sarebbe
consistita nell’avere i giudici di merito confuso tra il concorso di persone ai sensi
dell’art. 110 cod. pen. nel reato di detenzione a fine di cessione di stupefacente e
la partecipazione ad associazione finalizzata alla detenzione di droga, ipotesi di
cui, nel caso di specie, difetterebbero, secondo i ricorrenti, i presupposti.
Tutti gli altri ricorrenti condannati per il reato di cui al capo A (cioè
Francesco Buonfrate, Paolo Ciccolella, Vincenzo D’Ancona, Lucia Portacci, Antonio
Potenza, Leonardo Ruta e Giovanna Trillo) hanno contestato, invece, la concreta
ricorrenza dei presupposti di cui all’art. 74 d.P.R. n. 309 del 1990.
Ebbene, occorre al riguardo tenere presente che «L’elemento aggiuntivo e
distintivo del delitto di cui all’art. 74 d.P.R. n. 309 del 1990 rispetto alla
fattispecie del concorso di persone nel reato continuato di detenzione e spaccio
di stupefacenti va individuato nel carattere dell’accordo criminoso, contemplante
la commissione di una serie non preventivamente determinata di delitti, con
permanenza del vincolo associativo tra i partecipanti, i quali, anche al di fuori dei
singoli reati programmati, assicurino la propria disponibilità duratura ed
indefinita nel tempo al perseguimento del programma criminoso del sodalizio»
(Sez. 4, n. 51716 del 16/10/2013, Amodio e altri, Rv. 257906) e che «Il criterio
distintivo tra il delitto di associazione per delinquere e il concorso di persone nel
reato continuato va individuato nel carattere dell’accordo criminoso, che
nell’indicata ipotesi di concorso si concretizza in via meramente occasionale ed

24

di difesa di Antonio Viggiani.

accidentale, essendo diretto alla commissione di uno o più reati determinati anche nell’ambito del medesimo disegno criminoso – con la realizzazione dei
quali si esaurisce l’accordo e cessa ogni motivo di allarme sociale, mentre nel
reato associativo risulta diretto all’attuazione di un più vasto programma
criminoso, per la commissione di una serie indeterminata di delitti, con la
permanenza di un vincolo associativo tra i partecipanti, anche
indipendentemente ed al di fuori dell’effettiva commissione dei singoli reati
programmati» (Sez. 2, n. 933 del 11/10/2013, dep. 2014, Debbiche Helmi e
altri, Rv. 258009; in termini, v. Sez. 5, n. 42635 del 04/10/2004, Collodo ed

Di tale summa divisio risulta ben consapevole la Corte territoriale (pp. 28 e
ss. e passim della sentenza impugnata), che fa, in effetti, corretta applicazione
del principio in questione nei singoli casi, come si vedrà in prosieguo.
1.2. Si è contestata, inoltre, la genericità delle ipotesi di accusa (difese di
Nicola Capozza, Vincenzo D’Ancona e Giovanna Trillo).
Rileva il Collegio che in primo grado si è celebrato un giudizio abbreviato:
nell’abbreviato, una volta instaurato il giudizio, non è consentito all’imputato
eccepire la nullità della richiesta di rinvio a giudizio per genericità ed
indeterminatezza del capo di imputazione (v., nell’ipotesi di abbreviato
incondizionato, Sez. 6, n. 13133 del 23/02/2011, Alfiero e altri, Rv. 249897;
Sez. 6, n. 32363 del 20/05/2009, F., Rv. 245191; Sez. 6, n. 23771 del
20/02/2009, Bilardi e altri, Rv. 245252; v. anche, nel caso di abbreviato
condizionato, Sez. 6, n. 21265 del 15/12/2011, dep. 2012, Bianco e altri, Rv.
252854).
1.3. Si è in presenza di “doppia conforme” di condanna che si assume, da
parte di un ricorrente (Paolo Ciccolella), essere viziata da travisamento della
prova.
Rileva, tuttavia, il Collegio che «In tema di motivi di ricorso per cassazione,
il vizio di travisamento della prova, desumibile dal testo del provvedimento
impugnato o da altri atti del processo purché specificamente indicati dal
ricorrente, è ravvisabile ed efficace solo se l’errore accertato sia idoneo a
disarticolare l’intero ragionamento probatorio, rendendo illogica la motivazione
per la essenziale forza dimostrativa del dato processuale /probatorio, fermi
restando il limite del “devolutum” in caso di cosiddetta “doppia conforme” e
l’intangibilità della valutazione nel merito del risultato probatorio (In applicazione
del principio, la Corte ha escluso che un incongruo riferimento a fattispecie di
reato diverse da quella in contestazione potesse determinare l’invalidità della
sentenza impugnata nella parte relativa al rigetto dell’eccezione di incompetenza
per territorio, essendo stato comunque correttamente individuato il giudice cui

25

altri, Rv. 229906).

spettava

la

cognizione

della

regiudicanda)»

(così

Sez.

6,

n.

5146

del

16/01/2014, Del Gaudio e altri, Rv. 258774; v. anche Sez. 4, n. 4060 del
12/12/2013, dep. 2014, Capuzzi e altro, Rv. 258438; Sez. 4, n. 5615 del
13/11/2013, dep. 2014, Nicoli, Rv. 258432; Sez. 1, n. 24667 del 15/06/2007,
Musumeci, Rv. 237207).
Si censurano, inoltre, da parte di alcuni (difesa di Nicola Capozza, Massimo
Nardelli e Michelangelo Palnnieri), vizi di motivazione integranti sostanziali
omissioni di pronunzia.

assumere rilevo allorché si sia in presenza di vere e proprie mancanze di risposta
– omissioni di pronunzia da parte della Corte territoriale – che non siano state,
nemmeno implicitamente risolte, e non già questioni inammissibili, poiché, in
buona sostanza, a questioni inammissibili non vi è un obbligo di risposta.
Ciò posto, non si rilevano nella specie travisamenti della prova e nemmeno
questioni non risolte, seppure implicitamente in via logica, dai giudici di merito,
le cui motivazioni si saldano, completandosi a vicenda.
1.4. Si contesta, inoltre, in più ricorsi il contenuto delle intercettazioni
(difesa di Nicola Capozza, Paolo Ciccolella, Vincenzo D’Ancona, Massimo Nardelli,
Michelangelo Palmieri, Lucia Portacci, Giovanna Trillo, Pasquale Pastore ed
Antonio Viggiani).
E’ noto che «In tema di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni,
l’interpretazione del linguaggio adoperato dai soggetti intercettati, anche quando
sia criptico o cifrato, costituisce questione di fatto, rimessa alla valutazione del
giudice di merito, la quale, se risulta logica in relazione alle massime di
esperienza utilizzate, si sottrae al sindacato di legittimità» (Sez. U, n. 22471 del
26/02/2015, Sebbar, Rv. 263715).
Inoltre, il contenuto delle conversazioni captate, pur dovendo essere
valutato con rigore, non ha necessità di riscontri (v., ex plurimis, Sez. 6, n. 8211
del 11/02/2016, Ferrante e altri, Rv. 266509; Sez. 5, n. 4572 del 17/07/2015,
dep. 2016, Annbroggio, Rv. 265747; Sez. 1, n. 37588 del 18/06/2014, Amaniera
ed altri, Rv. 260842; Sez. 6, n. 3882 del 04/11/2011, dep. 2012, Annunziata,
Rv. 251527; Sez. 5, n. 21878 del 26/03/2010, Cavallaro e altro, Rv. 247447).
Ne discende che vano risulta il tentativo dei ricorrenti di attribuire alle
telefonate significati differenti da quelli ritenuti dai giudici di merito nel doppio
grado o di trarre da spezzoni di conversazioni “altre” verità.
Del resto, la Corte di appello ha già condivisibilmente spiegato (alle pp. 2728 della sentenza) che, seppure in linea di principio non sempre il contenuto
delle intercettazioni può esser ritenuto genuino, potendo dubitarsi, per varie
ragioni, della sincerità degli interlocutori, tuttavia, nel caso di specie, gli

26

I vizi di motivazione prospettati nei ricorsi possono, in linea di massima,

elementi, per così dire, inquinanti della sincerità dei dialoghi prospettate
nell’interesse degli imputati si poggiano su affermazioni meramente ipotetiche,
prive di riferimento ad argomenti logici pregnanti, ergo: inaccoglibili.
1.5. In una pluralità di ricorsi (difesa di Giulio Modeo, Vincenzo D’Ancona,
Giovanna Trillo ed Antonio Potenza) è stata posta in luce criticamente la durata
temporale della partecipazione all’associazione, limitata nel tempo.
In linea di principio, dalla breve durata non può desumersi l’insussistenza
dell’associazione (infatti, «Ai fini della configurabilità del reato di partecipazione a
un’associazione per delinquere comune o di tipo mafioso, non è necessario che il

potendo, al contrario, ravvisarsi il reato anche in una partecipazione di breve
periodo»: Sez. 5, n. 18756 del 08/10/2014, dep. 2015, Buondonno e altri, Rv.
263698; in senso conforme, v. Sez. 1, n. 31845 del 18/03/2011, D. e altri, Rv.
250771; Sez. 6, n. 3685 del 17/11/1998, Cortes 3., Rv. 212682), salvo che,
come si vedrà a proposito della posizione di Antonio Potenza (punto n. 6 del
“considerato in diritto”), le concrete circostanze ed una estrema brevità della
durata non impongano una particolare attenzione giurisdizionale e,
correlativamente, un adeguato sforzo motivazionale.

2. Quanto, in particolare, alla posizione di Giulio Modeo (il ricorso nel cui
interesse è stato sintetizzato al punto n. 2.7. del “ritenuto in fatto”), condannato
in relazione ai capi A ed R e la cui posizione è descritta alle pp. 25-45 e 76-84
della sentenza di appello (è considerato promotore, per un certo periodo,
insieme a Marinò, dell’associazione: v. spec. p. 76) ed alle pp. 10-20, 38-48 e
157 di quella del Tribunale, osserva il Collegio quanto segue.
2.1. Quanto ai profili di doglianza incentrati sull’an delle contestazioni, essi,
abilmente strutturati, si incentrano sulla non lunga durata dell’operatività
dell’associazione, sulla ritenuta problematicità della prova dell’intraneità ad essa
di Giulio Modeo e del suo ruolo, sulla significatività del “raffreddamento” dei
rapporti tra Modeo e Marinò, sulla discrasia temporale tra limite finale
dell’attività associativa (marzo 2008) e del reato-scopo (maggio 2008) e sulla
necessità di rigorosa dimostrazione, soprattutto, della sussistenza del vincolo
associativo.
Nessuna delle doglianze svolte nel ricorso risulta, a ben vedere, persuasiva.
Della non necessità di una lunga durata del vincolo, ai fini della
configurabilità dell’associazione, si è già detto (al punto n. 1.5. del “considerato
in diritto”).
Le informazioni fornite dai giudici di merito (specc. pp. 76-84 della sentenza
impugnata e pp. 38-48 di quella del Tribunale) sono relativa ad una pluralità di

27

vincolo tra il singolo e l’organizzazione si protragga per una certa durata, ben

persone intercettate che, senza che emergano ragioni per ritenere che mentano,
indicano Modeo come pienamente coinvolto nel traffico di droga, con espresso
riferimento a quantità e a prezzi, ed in posizione di vertice. In una prima parte
delle vicenda, inoltre, certamente sino a gennaio 2008, i ruoli di Marinò e di
Modeo vengono, non illogicamente, ricostruiti come intercambiabili (p. 40 della
sentenza di primo grado).
La circostanza che a febbraio 2008 i rapporti tra i due diventino più freddi e
che da marzo a maggio 2008 Marinò nutra diffidenza verso Modeo (pp. 41-45
della sentenza del Tribunale) è stata, non incongruamente, interpretata come

intercettati – si incontrano e parlano di quantitativi di droga e dei relativi prezzi,
Marinò dando anche consigli a Modeo su come evitare i controlli della Guardia di
Finanza (p. 46 della sentenza del Tribunale), cointeressenza peraltro confermata
in altra intercettazione ambientale del mese di maggio 2008 tra Marinò e la
moglie (pp. 47-48 della sentenza del G.u.p.)
Entro tale cornice, non solo non si apprezza la decisività della denunziata
“sfasatura temporale” tra i capi A ed R, ma, quanto al ruolo di vertice del
ricorrente, la Corte di appello fornisce, in realtà, adeguata risposta a tutti i dubbi
del ricorrente, ricavando non solo dall’episodio dell’incontro presso l’ippodromo,
nel gennaio 2008, indubbiamente significativo, ma anche da tutta una serie di
informazioni ulteriori che si traggono da plurime telefonate richiamate (anche
nella sentenza di primo grado) il ruolo di Modeo come sostanzialmente
assimilabile a quello di Marinò, almeno sino a febbraio 2008; né vi è
inconciliabilità logica della posizione di promotore con il riconoscimento di un
ruolo superiore al capo né con la richiesta di Biancofiore e della Trillo di avere nei
successivi incontri sempre il vertice cioè Marinò (p. 81 della sentenza
impugnata).
La Corte territoriale non sottovaluta i sentimenti di Marinò verso Modeo a
partire da fine di gennaio 2008, posto che del raffreddamento dei rapporti tra
Marinò e Modeo si dà ampiamente atto in entrambe le sentenza di merito, già da
fine febbraio 2008. Ciò però, secondo la – non illogica – ricostruzione dei giudici
di merito, non determina la interruzione dei rapporti economici illegali, come si
desume dalle telefonate di fine aprile e dei primi di maggio (precisamente: 8
aprile e 14 maggio, pp. 81-83 della sentenza impugnata e pp. 46-48 di quella del
G.u.p.), in cui Marinò e Modeo parlano di droga: in particolare, nella prima
occasione, come si è già detto, gli interlocutori commentano i prezzi degli
stupefacenti e la scarsità degli stessi sulla piazza e Marinò mette in guardia
l’interlocutore sul fatto che nell’area delle case-parcheggio, a partire da una
certa ora, ci sono gli uomini della Guardia di Finanza; nella seconda, Marinò,

28

non ostativa all’appartenenza associativa, anche perché ad aprile 2008 i due –

parlando con altri, dà atto che Modeo gli aveva sconsigliato di assumere un
“collaboratore”, giudicandolo inaffidabile.
In ogni caso, si osserva che da più passaggi della sentenza di appello (v. pp.
77 e ss.) si ricava che Modeo viene trattato dagli altri come un soggetto con
ruolo decisionale.
Non emerge inconciliabilità logica, dunque, nel caso di specie, tra insorgenza
di ragioni sfiducia personale e prosecuzione della lucrosa collaborazione.
2.2. Quanto, infine, alla censura involgente il quia, definito inconferente e
meramente apparente (così alla p. 15 del ricorso), del diniego delle attenuanti

ragionamento svolto dalla Corte territoriale (alla p. 84), trascurando, tuttavia,
che sono stati congiuntamente valorizzati dal giudice di merito la gravità dei
fatti, la sussistenza di plurimi precedenti, risultanti dal casellario, e la mancata
emersione di «elementi positivi che militano nella direzione indicata dalla difesa
non potendo nemmeno valorizzarsi il periodo di tempo in cui Modeo ha ricoperto
il descritto ruolo direttivo nell’associazione […]»,

cui segue il censurato

ragionamento che costituisce, all’evidenza, mero argomento ad colorandum che,
per quanto impostato su basi, in effetti, incerte, costituisce comunque un mero
passaggio incidentale e non già l’essenza del ragionamento, altrove invece, come
si è riferito, logicamente poggiato.
Resistendo, dunque, la decisione dei giudici di merito alle riferite censure, il
ricorso proposto nell’interesse di Giulio Modeo non può trovare accoglimento.

3. Quanto alla posizione di Michelangelo Palmieri (circa il contenuto del
ricorso si rinvia al punto n. 2.9. del “ritenuto in fatto”), giudicato colpevole dei
reati di cui ai capi A ed L, la cui trattazione si rinviene alle pp. 25-45 ed 88-97
della sentenza impugnata (è considerato un fornitore, avendo contatti con
Marinò, Viggiani ed i vari “corrieri” ai quali via via, nel corso del tempo, è stato
affidato il compito di recarsi a Bari per acquistare la droga da destinare poi al
mercato tarantino: v. spec. p. 33) ed alle pp. 10-20, 60-75 e 157 della decisione
del G.u.p. del Tribunale, si impongono le seguenti considerazioni.
3.1. Del rapporto tra concorso di persone ex art. 110 cod. pen. nel reato di
cui all’art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990 ed associazione ai sensi dell’art. 74 d.P.R.
n. 309 del 1990, si è già detto in precedenza (al punto n. 1.1. del “considerato in
diritto”): va solo preso atto della apoditticità del rilievo difensivo sul punto.
Si osserva, inoltre, che la motivazione della Corte di appello, diversamente
da quanto asserito dal ricorrente, non è affatto sovrapponibile a quella di
secondo grado, ma è complementare alla stessa.

generiche, il ricorrente ha, in effetti, posto l’attenzione sull’ultima parte del

Sotto altro profilo di doglianza si pretende, in buona sostanza, ma
inammissibilmente, per le ragioni già esposte (v. punto n. 1.4. del “considerato
in diritto”), di attribuire un significato diverso da quello concordemente ritenuto
da parte dei giudici di merito alle conversazioni, peraltro nemmeno
specificamente indicate.
Quanto alla dedotta assenza di motivazione a proposito dell’importante ruolo
rivestito e del contributo realizzato da Michelangelo Palmieri a favore
dell’associazione, dalle richiamate pagine delle sentenze di secondo e di primo
grado si desume, invece, il contrario: al riguardo si fa specialmente riferimento

3.2. La Corte di appello, inoltre, anche mediante richiamo alla congrua
motivazione di primo grado, ha correttamente dato atto sia della sussistenza dei
presupposti per il riconoscimento della contestata recidiva, dal casellario
risultando Michelangelo Palmieri definitivamente condannato due volte per reati
contro il patrimonio, sia della espressività della stessa, in ragione della vicinanza
temporale, di maggiore pericolosità sociale.
3.3.

Quanto alle considerazioni svolte nei motivi aggiunti, anche a

prescindere dalla tardività poiché in realtà integranti, almeno in parte, motivi
non tempestivamente dedotti, deve, in ogni caso, osservarsi quanto segue.
Il semplice confronto grafico tra i testi conduce ad escludere che la sentenza
di secondo grado sia la mera fotocopia di quella del Tribunale; ove la censura,
peraltro non compiutamente articolata, fosse, invece, da intendersi come rivolta
alla motivazione della decisione di primo grado, essa sarebbe in ogni caso
inammissibile, mancando ogni termine di paragone del presunto “copia ed
incolla” informatico (l’ordinanza custodiale; o la domanda cautelare del P.M.; o la
informativa di polizia giudiziaria; ovvero i “brogliacci” delle intercettazioni);
peraltro, la Corte di appello ha già adeguatamente spiegato (alle pp. 26-27)
perché la sentenza di primo grado non debba considerarsi una mera fotocopia
dell’ordinanza di custodia in carcere.
Quanto agli argomenti asseritamente svolti in appello mediante apposita
memoria di discussione, essi non sono indicati né il contenuto è in qualsiasi
modo richiamato nel ricorso né la memoria è stata allegata dalla difesa:
consegue, in ogni caso, la declaratoria di inammissibilità, per genericità, del
motivo di ricorso sul punto.
In ordine alla censura involgente la recidiva, infine, è il presupposto del
ragionamento ad essere radicalmente mancante: dal casellario dell’interessato,
infatti, non risulta essersi verificata alcuna tra le cause di estinzione del reato o
della pena indistintamente ed aspecificamente evocate dal ricorrente, che possa,
in linea ipotetica, comportare l’estinzione degli effetti penali della condanna.

30

alle pp. 95-96 della sentenza di appello.

Va, in definitiva, rigettato il ricorso di Michelangelo Palmieri.

4.

Venendo al ricorso presentato nell’interesse di

Pasquale Pastore

(ricorso riassunto al punto n. 2.10. del “ritenuto in fatto”), che è stato
condannato per i reati descritti ai capi A e V, con motivazione che si rinviene alle
pp. 25-45 e 97-105 della sentenza impugnata (è ritenuto uno stabile acquirentespacciatore dell’organizzazione sul territorio di

Taranto, con il computo di

distribuire la droga a spacciatori di livello inferiore e anche ai consumatori finali:
v. spec. p. 33) ed alle pp. 10-20, 75-80 e 157-158 di quella del primo giudice, si

legge, è tutto, in realtà, incentrato sul piano del difetto motivazionale.
L’atto di impugnazione mira, in larga parte, al di là delle denunzie di
illogicità, ad attribuire alle fonti di prova intercettative un significato differente da
quello concordemente ad esse attribuito in doppio grado di merito.
Coglie nel segno il ricorrente allorché appunta l’attenzione sulla
inadeguatezza motivazionale a proposito del significato delle intercettazioni
aventi ad oggetto – apparentemente – documenti relativi all’acquisto di
un’automobile. Infatti, l’inaccessibilità (di cui si è detto al punto n. 1.4. del
“considerato in diritto”) da parte della S.C. all’effettivo significato del contenuto
delle intercettazioni non esclude, tuttavia, la possibilità di controllo di legittimità
sulla logicità e sulla congruità della motivazione, specie ove vi siano puntuali e
documentati rilievi difensivi, nella specie proposti sin dall’interrogatorio di
garanzia.
Ebbene, né la Corte territoriale (pp. 97-105 della motivazione) né il
Tribunale (pp. 79-83) hanno adeguatamente spiegato, pur a fronte delle
allegazioni documentali difensive incentrate sull’effettiva stipulazione di un
contratto di finanziamento dell’auto della moglie di Pasquale Pastore proprio nel
periodo in questione e nonostante l’assenza di espressioni inequivocabilmente
indicanti stupefacenti, il perché della ritenuta, peraltro in maniera tranciante,
inattendibilità della ricostruzione difensiva: si impone, pertanto, l’annullamento
con rinvio della sentenza, per nuovo esame circa l’intero compendio indiziario a
carico del ricorrente, essendo inscindibilmente intrecciati, nella concreta
situazione, i profili relativi ad entrambi i capi (A e V)contestati a Pastore.
Resta assorbita, ovviamente, l’ulteriore questione oggetto di ricorso,
incentrata sul trattamento sanzionatorio.

5. Quanto alla posizione di Antonio Viggiani, che ha riportato condanna in
relazione ai capi A, C, D, E, F, O, U e V, la relativa posizione viene affrontata alle
pp. 25-45 e 136-139 della sentenza impugnata (è ritenuto il “braccio destro” di

31

osserva che lo stesso, malgrado l’evocazione della categoria della violazione di

Emanuele Marinò: v. spec. p. 33), oltre che alle pp. 10-20, 142-155 e 158-159
di quella emessa in primo grado.
5.1. Esaminando i motivi di ricorso (sintetizzati al punto n. 1.15. del
“ritenuto in fatto”), quello proteso a dimostrare l’insussistenza della
contestazione associativa è fondato, a ben vedere, sulla mera rilettura delle
emergenze processuali, inammissibilmente proposta al giudice di legittimità, che
non è un Tribunale di terza istanza, per di più in presenza di doppia conforme di
merito.
Né si rileva omissione di pronunzia rispetto ai motivi di appello.

telefoniche nel giudizio di legittimità e della non necessità dei pretesi “riscontri”
al contenuto delle stesse (v. punto n. 1.4. del “considerato in diritto”).
5.3. La motivazione dei giudici di merito a proposito del diniego delle
attenuanti generiche è, non irragionevolmente né illegittimamente, basata sulla
elevata capacità delinquenziale emersa, sul numero e sulla gravità dei fatti.
In conclusione, il ricorso proposto nell’interesse di Antonio Viggiani deve
essere rigettato.

6. Alla posizione di Antonio Potenza, condannato per i reati di cui ai capi A
ed I, la sentenza di appello dedica le pp. 25-45 e 111-119 (è ritenuto un
“corriere” di droga: v. spec. p. 33); quella del Tribunale le pp. 10-20, 97-98 e
158.
6.1. Passando ad esaminare i motivi di ricorso (di cui si è detto al punto n.
2.12. del “ritenuto in fatto”), osserva il Collegio che il motivo di doglianza
incentrato sull’asserita carenza di motivazione – integrante al contempo
omissione di pronunzia, essendo stato il relativo vizio denunziato in appello – in
relazione al capo I non può trovare accoglimento, in quanto risulta per tabulas
che la Corte territoriale ha ampiamente argomentato il perché della condanna in
relazione a tale ipotesi (v. infatti le pp. 111-118 della sentenza impugnata, solo
in parte adesiva rispetto alla motivazione svolta in primo grado, ove si rinviene,
peraltro, la significativa informazione fattuale circa la «pacifica ammissione [da
parte dell’imputato Antonio Potenza] dell’addebito mossogli quanto al trasporto
di ben due chilogrammi di droga»: così, testualmente, alla p. 98 della sentenza
del G.u.p.).
6.2. Fondato, viceversa, è il motivo ulteriore, incentrato sulla prova circa la
partecipazione di Antonio Potenza all’associazione.
Infatti, le argomentazioni svolte dai giudici di merito (che pure premettono
che svolgere il ruolo di “corriere” di droga non può implicare automaticamente la
prova della intraneità al gruppo criminoso: pp. 118-119 della sentenza della

32

5.2. Si è già detto della inaccessibilità del contenuto delle intercettazioni

Corte di appello), secondo cui risultano decisivi il contributo offerto dall’imputato
al gruppo in quel determinato contesto e per un periodo significativo, seppure
breve, di otto giorni, dal 21 al 29 marzo 2008, la delicatezza del contributo
apportato, non affidabile ad estranei (pp. 118-119 della sentenza impugnata), le
circostanze che Antonio Potenza ha dimostrato prontezza, disponibilità e
competenza (p. 98 sentenza G.u.p.) e che è regola di comune esperienza quella
secondo cui non si affida un carico di ben due chili di droga, pericoloso e di
grande valore, ad una persona di cui non ci si possa fidare ciecamente (p. 98
sentenza G.u.p.), non appaiono soddisfacenti, specie a fronte del principio

Si è infatti – condivisibilmente – puntualizzato che «In tema di associazione
per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti, lo svolgimento dell’attività di
“corriere” per conto del sodalizio non costituisce, in sé ed automaticamente,
prova della partecipazione al reato associativo, qualora non venga dimostrato
che il soggetto agente, consapevole dell’esistenza di un sodalizio volto alla
commissione di una serie indefinita di reati nel settore degli stupefacenti,
aderisca volontariamente a tale programma ed assicuri la sua stabile disponibilità
ad attuarlo (Nella specie, la S. C. ha annullato con rinvio la decisione del giudice
di merito che aveva affermato la responsabilità per il reato associativo in base al
solo coinvolgimento dell’imputato in due spedizioni di droga, effettuate nell’arco
di dieci giorni)» (Sez. 6, n. 5150 del 16/01/2014, Nosa e altri, Rv. 258570).
Ebbene, a fronte della estrema brevità temporale del contributo
partecipativo, di soli otto giorni, delle emersione di contatti solo ed
esclusivamente con Viggiani e con Marinò, degli spostamenti effettuati con la
propria vettura e della mancata utilizzazione di un linguaggio criptico, i giudici di
merito non spiegano da dove traggano la sicura prova, cioè “al di là di ogni
ragionevole dubbio”, dello stabile incardinamento di Antonio Potenza
nell’associazione, oltre che della – sicura – commissione di un grave reato da
parte dello stesso.
Discende l’annullamento con rinvio, limitatamente al capo sub lett. A).

7. La posizione di Cosimo Boccuni, condannato per i capi N ed O, viene
affrontata alle pp. 45-48 e della sentenza di secondo grado ed a quelle 20-22 e
155 della sentenza del G.u.p.
7.1. La prima tra le due censure mosse nel ricorso nell’interesse di Boccuni
(di cui si è dato conto al punto n. 2.1. del ritenuto in fatto”) appare
genericamente strutturata, al limite dell’inammissibile, in quanto: inconferente
appare il richiamo operato ad un frammento testuale della motivazione
dell’ordinanza cautelare (peraltro non allegato), certamente non idoneo alla

33

affermato dalla S.C. in un caso avente forte affinità con quello in esame.

dimostrazione dell’assunto difensivo; privo di logica l’argomento incentrato sulla
contemporaneità delle operazioni di intercettazione telefonica ed ambientale, non
potendo certo l’autorizzazione a svolgere un tipo di attività escludere la
legittimità del ricorso all’altra; meramente apodittico l’assunto conclusivo sul
punto.
Rileva il Collegio che, in ogni caso, è principio condiviso e diffuso quello
secondo il quale è onere della parte che eccepisce l’inutilizzabilità dei risultati
delle intercettazioni non soltanto indicare specificamente l’atto che si assume
viziato ma anche curare che lo stesso sia materialmente acquisito al fascicolo

«In tema di intercettazioni di conversazioni e comunicazioni, è onere della
parte, che lamenti l’inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni, indicare
specificamente l’atto asseritamente affetto dal vizio denunciato e curare che lo
stesso sia comunque effettivamente acquisito al fascicolo trasmesso al giudice di
legittimità, anche provvedendo a produrlo in copia nel giudizio per cassazione
(Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto insufficiente a soddisfare l’onere in
questione la sola selezione e riproduzione di parti di atti nel ricorso ed ha perciò
limitato il proprio sindacato alla verifica della corretta applicazione dei principi di
diritto in materia)» (così Sez. 2, n. 24925 del 11/04/2013, Cavaliere ed altri, Rv.
256540; in termini identici, più recentemente, Sez. 3, n. 15828 del 26/11/2014,
dep. 2015, Solano Abreu e altri, al punto n. 3 del “ritenuto in diritto”);
«In tema di ricorso per cassazione, è onere del ricorrente, che lamenti
l’omessa o travisata valutazione dei risultati delle intercettazioni effettuate,
indicare l’atto asseritamente affetto dal vizio denunciato, curando che esso sia
effettivamente acquisito al fascicolo trasmesso al giudice di legittimità o anche
provvedendo a produrlo in copia nel giudizio di cassazione» (Sez. 2, n. 25315 del
20/03/2012, Ndreko e altri, Rv. 253073);
«Qualora venga eccepita in sede di legittimità l’inutilizzabilità dei risultati
delle intercettazioni, è onere della parte, a pena di inammissibilità del motivo per
genericità, indicare specificamente l’atto asseritam ente affetto dal vizio
denunciato e curare che tale atto sia comunque effettivamente acquisito al
fascicolo trasmesso al giudice di legittimità, anche provvedendo a produrlo in
copia nel giudizio di cassazione» (Sez. 5, n. 37694 del 15/07/2008, Rizzo, Rv.
241300);
«In tema di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni, qualora venga
eccepita in sede di legittimità l’inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni,
siccome asseritamente eseguite fuori dai casi consentiti dalla legge o qualora
non siano state osservate le disposizioni previste dagli artt. 267 e 268, commi
primo e terzo, cod. proc. pen. (art. 271, comma primo, cod. proc. pen.), è onere

34

f\

processuale. Infatti:

della parte indicare specificamente l’atto asseritamente affetto dal vizio
denunciato e curare che tale atto sia comunque effettivamente acquisito al
fascicolo trasmesso al giudice di legittimità, magari provvedendo a produrlo in
copia nel giudizio di cassazione. In difetto, il motivo sarebbe inammissibile per
genericità, non essendo consentito alla S. C. di individuare l’atto affetto dal vizio
denunciato» (Sez. 4, n. 32747 del 07/06/2006, Pizzinga, Rv. 234809).
Facendo applicazione nel caso di specie del principio richiamato, il primo
motivo di ricorso risulta radicalmente incondivisibile.
7.2. Parimenti da respingersi, siccome estremamente generico, l’ulteriore

difetto motivazionale, che deriverebbe, in realtà, solo dal non avere i giudici di
merito creduto alla versione, estremamente, riduttiva dell’imputato.

8.

Assolutamente vago ed apodittico,

ergo:

inammissibile, il ricorso

personalmente presentato da Francesco Buonfrate (che si è riferito al punto n.
2.2. del “ritenuto in fatto”), condannato in relazione ai capi A ed U: la relativa
posizione, infatti, è congruamente affrontata alle pp. 25-45 e 49-54 della
sentenza impugnata, ove lo stesso viene ritenuto uno stabile acquirentespacciatore dell’organizzazione sul territorio di

Taranto, con il compito di

distribuire la droga a spacciatori di livello inferiore e anche ai consumatori finali
(v. spec. p. 33), oltre che alle pp. 10-20, 22-24 e 156 della sentenza di primo
grado, che, in quanto statuizioni conformi, si integrano a vicenda.

9. Si passi ai motivi di ricorso nell’interesse di Nicola Capozza (sintetizzato
al punto n. 2.3. del “ritenuto in fatto”), nell’ordine in cui vengono posti dal
ricorrente. Va premesso che Capozza, la cui posizione è ricostruita alle pp. 54-58
della sentenza di secondo grado ed alle pp. 24-25 e 156 di quella del G.u.p., è
stato condannato per il solo capo Q.
9.1. La dedotta genericità del capo di accusa è destituita di fondamento, sia
per essersi l’imputato difeso in concreto (come correttamente ritenuto alle pp.
54-55 della sentenza della Corte di appello di Lecce) sia comunque in
applicazione del principio, di cui si è già detto (al punto n. 1.2. del “considerato
in diritto”), secondo cui, una volta richiesta ed ammesso l’abbreviato, non si può
poi contestare la genericità dell’editto
9.2. L’attribuzione del significato alle intercettazioni

è quaestio facti ed il

relativo contenuto non necessita di “riscontri” (ci si richiama integralmente a
quanto già precisato in linea generale al punto n. 1.4. del “considerato in
diritto”).

motivo di doglianza proposto dalla difesa di Boccuni, incentrato su un asserito

Nel caso di specie, risulta dalla motivazione della sentenza impugnata che le
intercettazioni relative a Capozza sono state valutate con il necessario rigore.
9.3. In relazione alla auspicata, anche nei motivi di appello (se ne dà atto
alla p. 4 della sentenza impugnata), riqualificazione del reato sub lett. Q in
violazione del comma 5 dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990, la valutazione
della Corte territoriale non è mancante ma è, invece, implicitamente contenuta
nella severa valutazione sulla gravità del fatto (svolta alla p. 58 della sentenza
impugnata), gravità che è desunta dallo svolgimento prolungato dell’attività, dal
carattere imprenditoriale della stessa, dalla quantità trattata e dai precedenti,

sul punto (alla p. 25 della sentenza di primo grado).
9.4. Quanto alla censura incentrata sulla mancanza di motivazione circa il
quia dell’applicazione (o della non disapplicazione) della recidiva, premesso che
«In tema di recidiva facoltativa, è richiesto al giudice uno specifico dovere di
motivazione sia ove egli ritenga sia ove egli escluda la rilevanza della stessa»
(così Sez. U, n. 5859 del 27/10/2011, dep. 2012, Marcianò, Rv. 251690), si è ed assai condivisibilmente – precisato che

«L’applicazione della recidiva

facoltativa contestata richiede uno specifico onere motivazionale da parte del
giudice, che, tuttavia, può essere adempiuto anche implicitamente, ove si dia
conto della ricorrenza dei requisiti di riprovevolezza della condotta e di
pericolosità del suo autore (Fattispecie nella quale la Corte ha ritenuto implicita
la motivazione della ritenuta recidiva, desumendola dal richiamo operato nella
sentenza alla negativa personalità dell’imputato, quale evincibile dall’altissima
pericolosità sociale della condotta da costui posta in esse» (così Sez. 6, n. 20271
del 27/04/2016, Duse ed altri, Rv. 267130); così come, del resto,

«Il rigetto

della richiesta di esclusione della recidiva facoltativa, pur richiedendo
l’assolvimento di un onere motivazionale, non impone al giudice un obbligo di
motivazione espressa, ben potendo quest’ultima essere anche implicita
(Fattispecie nella quale la Corte ha ritenuto implicita la motivazione sul diniego
della richiesta di esclusione della recidiva, desumendola dal richiamo operato
nella sentenza impugnata alla negativa personalità dell’imputato emergente dalla
gravità dei precedenti penali)» (così Sez. 2, n. 39743 del 17/09/2015, Del Vento
e altri, Rv. 264533; v. altresì, in termini, Sez. 2, n. 40218 del 19/06/2012,
Fatale e altri, Rv. 254341; Sez. 3, n. 22038 del 21/04/2010, F., Rv. 247634).
Discende il rigetto del ricorso.

10.

Non possono essere accolti nemmeno i motivi di ricorso proposti

nell’interesse di Paolo Ciccolella, riconosciuto colpevole dei reati di cui ai capi A
e P e la cui posizione è trattata alle pp. 25-45 e, soprattutto, 59-64 della

36

con conferma al riguardo della valutazione – espressamente – svolta dal G.u.p.

sentenza della Corte di appello (è ritenuto uno stabile acquirente-spacciatore
dell’organizzazione sul territorio di Taranto, con il computo di distribuire la droga
a spacciatori di livello inferiore e anche ai consumatori finali: v. spec. p. 33) ed
alle pp. 10-20, 25-28 e 156 di quella del Tribunale.
10.1. Quanto alla prima doglianza (tra quelle di cui si è dato atto al punto n.
2.4. del “ritenuto in fatto”), essa mostra la sua gracilità non appena si consideri,
a tacer d’altro, che la continuazione (definita dal ricorrente una circostanza
aggravante, con stravolgimento degli istituti del diritto penale sostanziale) tra i
capi A e P è stata riconosciuta sussistente in entrambi i gradi di merito; la

astrattamente conducente alle conseguenze che auspica il ricorrente.
10.2. In relazione alla seconda – cumulativa – doglianza, relativa al solo
profilo motivazionale pur sotto l’usbergo, solo apparente, di concorrente
violazione di legge, nessuno tra gli argomenti svolti, considerati isolatamente o
nel loro complesso, risulta avere una forza persuasiva tale da disarticolare
l’intero ragionamento probatorio che è svolto a proposito della posizione di
Ciccolella nelle, conformi, sentenze di merito (cfr. il principio affermato al
riguardo da Sez. 6, n. 5146 del 16/01/2014, Del Gaudio e altri, Rv. 258774; Sez.
4, n. 4060 del 12/12/2013, Capuzzi e altro, Rv. 258438; Sez. 4, n. 5615 del
13/11/2013, dep. 2014, Nicoli, Rv. 258432; Sez. 4, n. 19710 del 03/02/2009,
Buraschi, Rv. 243636; Sez. 1, n. 24667 del 15/06/2007, Musumeci, Rv.
237207). Infatti:
quanto al concreto contenuto delle intercettazioni, il ricorrente vorrebbe
attribuirvi un significato diverso da quello che ne traggono, concordemente, i
giudici di merito; e ben possono trarsi, come noto, elementi di condanna da
intercettazioni svolte tra persone diverse dall’imputato, del tutto indifferente
essendo che egli fosse detenuto allorché altri a lui fanno riferimento, ma deve
prendersi atto che la Corte territoriale ha, con motivazione congrua, attribuito
determinate affermazioni a Paolo Ciccolella e che la negatoria difensiva sul punto
appare meramente assertiva;
inoltre, il ricorrente è stato, non incongruamente, ritenuto un consumatorespacciatore e costante punto di riferimento per l’acquisto e per la successiva
rivendita di droga (pp. 33 e 59 della sentenza impugnata), il che non è
inconciliabile con la condizione di tossicodipendente, indifferente essendo, tra
l’altro, dove viva, elemento vanamente sottolineato in un’impugnazione che
presenta svariati profili di pieno merito;
la, pur modesta, somma di denaro messa disposizione in ragion dell’arresto
è stata – con motivazione logica ed adeguata (p. 62 della sentenza impugnata)

37

ritenuta “discrasia temporale” non è argomento, in ogni caso, nemmeno

- valutata dai giudici di merito collegata ad un patto e non già ad mero isolato
gesto caritatevole;
il fatto che nei colloqui tra altri associati di rilevante calibro Paolo Ciccolella
sia considerato “uno che lavora bene” ed “un ottimo pagatore” (se ne dà atto alle
pp. 61 e 63 della sentenza di appello ed alla p. 27 di quella di primo grado) non
è in contrasto con la presa d’atto dei debiti lasciati (di cui vi è menzione alle pp.
60 e 62 della sentenza di appello), in quanto gli stessi sono stati causati
dall’arresto, avvenuto il 29 aprile 2008, che ha impedito, secondo quanto

Discende il rigetto del ricorso.

11. Passando a trattare il ricorso di Giovanni D’Ancona, condannato per il
solo capo W, qualificato come violazione dell’art 73, comma 5, d.P.R. n. 309 del
1990, la sentenza impugnata ne affronta la posizione alle pp. 66-69 e quella di
primo grado alle pp. 29-30 e 156-157.
Ebbene, la questione sollevata, sia pure in via subordinata, da Giovanni
D’Ancona nel ricorso (impugnazione riassunta al punto n. 2.5. del “ritenuto in
fatto”: in via principale si censura la mancanza di motivazione circa la non
concessione delle attenuanti generiche invocate in appello) risulta fondata:
infatti, l’effetto estintivo del decorso del tempo si è realizzato il 13 aprile 2016
(fatto, riqualificato in violazione dell’art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309 del 1990,
commesso sino al 15 marzo 2008 + sette anni e sei mesi = 15 settembre 2015
+ 119 giorni di sospensione della prescrizione in appello dal 23 marzo 2015 +
altri 90 giorni di sospensione dall’adozione del dispositivo della sentenza
impugnata, e così sino al 13 aprile 2016; nessuna sospensione in primo grado).
Discende l’annullamento della condanna inflitta a Giovanni D’Ancona, che ha
comunque inteso non prestare acquiescenza alla condanna, non sussistendo
ragione alcuna per pronunziare sentenza assolutoria (in applicazione dei noti
principi posti da Sez. U, n. 35490 del 28/05/2009, Tettamanti, Rv. 244274-5:
«In presenza di una causa di estinzione del reato il giudice è legittimato a
pronunciare sentenza di assoluzione a norma dell’art. 129 comma secondo, cod.
proc. pen. soltanto nei casi in cui le circostanze idonee ad escludere l’esistenza
del fatto, la commissione del medesimo da parte dell’imputato e la sua rilevanza
penale emergano dagli atti in modo assolutamente non contestabile, così che la
valutazione che il giudice deve compiere al riguardo appartenga più al concetto
di “constatazione”, ossia di percezione “ictu oculi”, che a quello di
“apprezzamento” e sia quindi incompatibile con qualsiasi necessità di
accertamento o di approfondimento»; e «In presenza di una causa di estinzione
del reato, non sono rilevabili in sede di legittimità vizi di motivazione della

38

ritenuto dai giudici di merito, all’uomo di continuare a “lavorare” i.e. a spacciare.

sentenza impugnata in quanto il giudice del rinvio avrebbe comunque l’obbligo di
procedere immediatamente alla declaratoria della causa estintiva (In
motivazione, la S.C. ha affermato che detto principio trova applicazione anche in
presenza di una nullità di ordine generale)»).

12.

In relazione al ricorso nell’interesse di

Vincenzo D’Ancona,

condannato in relazione ai capi A, C e W, qualificato quest’ultimo in violazione
dell’art, 73, comma 5, d.P.R. n. 309 del 1990 e la cui posizione è trattata alle pp.
25-45 e 69-72 della sentenza di appello (è ritenuto un “corriere” di droga: v.

quanto segue.
12.1. Si è già spiegato in linea generale (rispettivamente, al punto n. 1.2.
ed al punto n. 1.4. del “considerato in diritto”) per quale motivo non sia
deducibile la genericità della contestazione una volta che si stato richiesto ed
ammesso il giudizio abbreviato e come debba escludersi, salva l’ipotesi del
conclamato travisamento, che non si pone nel caso di specie, la possibilità di
contestare il significato delle intercettazioni, in quanto mera quaestio facti.
Ciò posto, il primo dei motivi di ricorso nell’interesse di Vincenzo D’Ancona
(che si sono sintetizzati al punto n. 2.6. del “ritenuto in fatto”) è, dunque, da
rigettarsi, in quanto il ricorrente mira a sovrapporre alla doppia valutazione
conforme operata dai giudici di merito, che il Collegio ritiene non incongrua né
illogica, un’altra, la propria, che stima soggettivamente preferibile.
Ed è appena il caso di evidenziare che è sufficiente, in linea di principio
(fatte salve le specificità del caso concreto, ove la parte alleghi seri elementi di
segno contrario), il riconoscimento da parte della polizia giudiziaria per attribuire
a taluno la paternità di una voce registrata:

«Ai fini dell’identificazione degli

interlocutori coinvolti in conversazioni intercettate, il giudice ben può utilizzare le
dichiarazioni degli ufficiali e agenti di polizia giudiziaria che abbiano asserito di
aver riconosciuto le voci di taluni imputati, così come qualsiasi altra circostanza o
elemento che suffraghi detto riconoscimento, incombendo sulla parte che lo
contesti l’onere di allegare oggettivi elementi sintomatici di segno contrario»
(Sez. 6, n. 13085 del 03/10/2013, dep. 2014, Amato e altri, Rv. 259478; in
senso conforme, v., tra le altre, Sez. 1, n. 35011 del 08/05/2013, Mavica, Rv.
257209; Sez. 6, n. 18453 del 28/02/2012, Cataldo e altri, Rv. 252712; Sez. 6,
n. 17619 del 08/01/2008, Gionta e altri, Rv. 239725).
12.2.

In relazione alle doglianze relative al mancato riconoscimento

dell’attenuante di cui al comma 5 dell’art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990 anche in
relazione al capo C, delimitato temporalmente dall’arresto, avvenuto il 19 marzo
2008, si prende atto che nell’occasione Vincenzo D’Ancona aveva con sé 200

39

spec. p. 33) ed alle pp. 10-20, 30-34 e 157 di quella di primo grado, si osserva

grammi di cocaina (v. p. 70 della sentenza impugnata) e che il giudice di primo
grado ha già – non illogicamente né illegittimamente – escluso expressis verbis,
proprio in ragione della quantità (p. 34), la possibilità di derubricazione
nell’ipotesi di minore gravità; a ciò si aggiunga che la Corte di appello ha
espressamente valorizzato il dato della reiterazione nel tempo delle condotte
ricomprese sub lett. C (pp. 70-71 della sentenza impugnata).
12.3. La Corte territoriale ha preso in considerazione la richiesta difensiva di
riconoscimento delle attenuanti generiche (se ne dà infatti atto alle pp. 7 e 72
della sentenza) ma ha ritenuto di non poterle concedere, sul rilievo della assenza

che nemmeno il difensore era stato in grado di indicarne alcuno (p. 72).
12.4. Quanto agli argomenti ribaditi nei motivi “nuovi” nell’interesse di
Vincenzo D’Ancona, valgono le considerazioni appena svolte.
Appare solo opportuno aggiungere, fermo il principio che la interpretazione
del significato di conversazioni intercettate è quaestio facti, il cui nuovo esame è
di regola precluso, ove logicamente motivato, alla S.C., che si prende atto che il
giudice di primo grado aveva, in ogni caso, congruamente spiegato (alla p. 33)
perché dovesse trattarsi di droga pesante, cocaina ed eroina, ed inoltre che
l’imputato è stato trovato in possesso proprio di cocaina (p. 70 della sentenza di
secondo grado).
Discende, in definitiva, il rigetto dell’impugnazione di Vincenzo D’Ancona.

13. Quanto al ricorso nell’interesse di Massimo Nardelli (di cui si è dato
atto al punto n. 2.8. del “ritenuto in fatto”), condannato in relazione al solo capo
W, riqualificato in violazione dell’art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990, la cui posizione
si rinviene alle pp. 85-86 della sentenza della Corte territoriale ad alle pp. 48-50
e 157 di quella di primo grado, il Collegio osserva quanto segue.
13.1. Va esclusa la denunziata omissione di pronunzia da parte della Corte
territoriale, che ha preso in effettiva considerazione la telefonata richiamata dal
ricorrente (la n. 2483 del 15 marzo 2008), insieme ad altre, per desumerne,
testualmente, che «da nessuna espressione [utilizzata] nella conversazione n.
2483 si evince anche la semplice convinzione di uno dei fratelli D’Ancona in
ordine alla estraneità del Nardelli alla vicenda della perdita della fornitura di
stupefacente legata all’inseguimento o comunque al paventato controllo da parte
di una pattuglia della Polizia di Stato. Stante il chiaro significato della
conversazione menzionata per ultima e di quella precedente avente il n. 2339, è
evidente, al contrario, che il Nardelli, considerato da entrambi gli interlocutori
come corresponsabile del “guaio” insieme con uno di loro, D’Ancona Giovanni,
per avere personalmente gettato per strada lo stupefacente, abbia in ogni modo

40

di elementi positivi in tal senso valorizzabili, precisando – significativamente –

cercato di ridimensionare davanti ai complici le sue responsabilità specie per
evitare di restituire da solo la somma di denaro anticipata da mappa Osvaldo»:
così, in maniera logica e congrua, alla p. 85 della sentenza impugnata.
L’impugnazione, sul punto, è dunque basata su di una pura questione di
fatto, inaccessibile al giudice di legittimità.
13.2. Quanto al profilo sanzionatorio, alle pp. 85-86 della decisione si indica
come pena base quella di due anni di reclusione e di 3.000,00 euro di multa, in
misura cioè inferiore al medio edittale (pari a due anni e tre mesi di pena
privativa della libertà personale e ad euro 568,05 di pena pecuniaria) e non certo

ben noto che «In tema di determinazione della pena, nel caso in cui venga
irrogata una pena al di sotto della media edittale, non è necessaria una specifica
e dettagliata motivazione da parte del giudice, essendo sufficiente il richiamo al
criterio di adeguatezza della pena, nel quale sono impliciti gli elementi di cui
all’art. 133 cod. pen.» (così Sez. 4, n. 46412 del 05/11/2015, Scaramozzino, Rv.
265283; v. anche, in termini, ex plurimis, Sez. 4, n. 21294 del 20/03/2013,
Serratore, Rv. 256197; Sez. 2, n. 36245 del 26/06/2009, Denaro, Rv. 245596).
Il ricorso va, perciò, rigettato.

14. Lucia Portacci è stata condannata in relazione alle accuse mosse ai
capi A, F ed S: la sua posizione viene analizzata alle pp. 25-45 e 105-111 della
sentenza di appello (è considerata stretta collaboratrice nell’attività criminosa del
capo dell’associazione, suo marito Emanuele Marinò: v. spec. p. 106) ed alle pp.
10-20, 80-97 e 158 di quella all’esito dell’abbreviato.
14.1.

Tanto

premesso,

l’impugnazione

proposta

personalmente

dall’imputata (e che si è riassunta al punto n. 2.11. del “ritenuto in fatto”) è
anch’essa, a ben vedere, tutta protesa ad attribuire alle fonti di prova
(intercettative) un significato, stimato dalla ricorrente preferibile, diverso da
quello concordemente ad esse attribuito, in maniera non incongrua né illegittima,
dai giudici del doppio grado di merito, i quali hanno, motivatamente, ritenuto che
che la donna sia non soltanto “angelo del focolare” e spettatrice passiva dei reati
posti in esser dal marito Emanuele Marinò ma vera e propria complice dello
stesso; né può seriamente attribuirsi valore di “elemento di disturbo” al
passaggio testualmente evocato (p. 110 della sentenza impugnata) di una
conversazione del 3 maggio 2008 in cui Marinò confida a Cosimo D’Arcangelo di
essere costretto a dire una bugia alla moglie circa l’affidamento di eroina a Ruta,
che ha perso la sostanza, temendo la di lei reazione, e, anzi, dimostra
logicamente, come espressamente ritenuto dalla Corte territoriale, il potere
decisionale della donna.

41

lontana dal minimo, come invece – arditamente – sostenuto dal ricorrente; ed è

14.2. Le censure svolte in punto di trattamento sanzionatorio non tengono
conto che la Corte di appello (alla p. 111 della sentenza), partita dal minimo
edittale, ha – e non illogicamente – dato atto non soltanto che non sono
rinvenibili negli atti elementi positivi valutabili ma anche che non può valorizzarsi
il solo stato di incensuratezza a fronte di un ruolo nell’associazione tutt’altro che
marginale e, al contrario, ritenuto, non illogicamente, di primo piano.
Consegue alle considerazioni svolte il rigetto del ricorso.

15. Leonardo Ruta è stato condannato per i reati di cui ai capi A, FeG e la

di appello (ritenuto un “corriere” di droga: v. spec. p. 33) ed alle pp. 10-20, 98108 e 158 della decisione di primo grado (il relativo ricorso è stato sintetizzato al
punto n. 2.13. del “ritenuto in fatto”).
15.1. Risulta adeguatamente illustrato dalla Corte di appello il quia della
responsabilità per il reato associativo (pp. 119-121), con motivazione autonoma
e non solo adesiva alla ricostruzione svolta in primo grado (alle pp. 98-108): in
particolare, dal contenuto delle conversazioni riferite dai giudici di merito
Leonardo Ruta dimostra di conoscere non solo Marinò ma anche Angelo De
Leonardo, Claudio Modeo, che è il padre di Giulio (pp. 120-121 della sentenza di
appello e p. 40 di quella del G.u.p.), ed Antonello Viggiani (pp. 101-102 della
sentenza di primo grado), in quanto o parla direttamente con essi o vi fa un, non
superficiale, riferimento; né vi è insanabile contraddittorietà (p. 121 della
sentenza di appello) tra avere Marinò considerazione di Ruta ed ipotizzare, in
formula di dubbio, un comportamento di “Leo” scorretto verso l’associazione per
spiegare la perdita di un ingente quantitativo di droga.
15.2. Le censure relativa al trattamento sanzionatorio non possono trovare
accoglimento, in quanto la Corte di appello ha adeguatamente giustificato (p.
122) il diniego delle invocate attenuanti generiche sia con l’assenza di elementi
di positiva valenza sia con il ruolo intra-associativa, espressamente definito di
notevole rilevanza, sia infine con la parzialità dell’ammissione della detenzione di
eroina in data 3 maggio 2008, allorché già esistevano al riguardo evidenti prove
di responsabilità.
Il ricorso di Leonardo Ruta va, in conseguenza, respinto.

16. La motivazione relativa a Giovanna Trillo, condannata per i capi A ed
L, si rinviene alle pp. 25-45 e 122-133 della sentenza impugnata (è considerata,
insieme al coniuge Vincenzo Biancofiore, deceduto il 9 marzo 2008, “fornitore”,
avendo contatti con il Marinò, il Viggiani ed i vari “corrieri” ai quali via via, nel
corso del tempo, è stato affidato il compito di recarsi a Bari per acquistare la

42
,

relativa posizione si rinviene alle pp. 25-46 e 119-122 della sentenza della Corte

droga da destinare poi al mercato tarantino: v. spec. p. 33), oltre che alle pp.
10-20, 108-142 e 158 di quella del Tribunale.
16.1. Deve preliminarmente prendersi atto che risulta fondata la questione
posta – ed adeguatamente documentata – in via principale dalla difesa di
Giovanna Trillo (del ricorso si è dato atto al punto n. 2.14. del “ritenuto in
fatto”).
Dall’accesso diretto del Collegio agli atti, consentito atteso il tipo di vizio
dedotto, risulta infatti che l’imputata, che aveva eletto domicilio, mediante
dichiarazione resa all’ufficio matricola del carcere all’atto della scarcerazione il 16

fissazione dell’udienza preliminare e di deposito della sentenza di primo grado
era sempre indicata come residente in Ceglie del Campo – Bari alla via Vecchia
Stazione n. 9 ma domiciliata in Bari – Carbonara alla via Vittorio Veneto n. 144,
dove peraltro aveva concretamente ricevuto entrambi gli atti; nel decreto di
citazione per il giudizio di appello la donna viene, invece, indicata come
domiciliata in Ceglie del Campo – Bari alla via Vecchia Stazione n. 9 (con la
specificazione “dom. dic”) ed ivi ricercata, senza esito positivo, dalla Polizia
Municipale di Bari (v. annotazione del 25 febbraio 2015), con conseguente
applicazione dell’art. 161, comma 4, cod. proc. pen. e notificazione mediante
posta elettronica certificata al difensore per la cliente, avvenuta il 9 marzo 2015.
Essendo evidente l’errore nella indicazione inserita nella citazione di
Giovanna Trillo per il giudizio in appello e non essendo la stessa comparsa in
secondo grado, la eccezione sollevata va accolta, con conseguente declaratoria di
nullità, non sanata, della vocatio in iudicium per l’appello (cfr., al riguardo, Sez.
U, n. 19602 del 27/03/2008, Micciullo, Rv. 239396; in conformità, Sez. 4, n.
7917 del 25/01/2016, Bianco, Rv. 266231; Sez. 4, n. 18098 del 01/04/2015,
Crapella, Rv. 263753): deve, conseguentemente, ritenersi la nullità dell’intero
giudizio di secondo grado e della sentenza emessa, limitatamente alla posizione
della ricorrente.
16.2. Ogni ulteriore questione posta dalla difesa di Trillo è assorbita.

17. In definitiva, il ricorso va accolto, nei termini sopra specificati, nei
confronti di Pasquale Pastore (con rinvio: v. punto n. 4 del “considerato in
diritto”), di Antonio Potenza (con rinvio: v. punto n. 6 del “considerato in
diritto”), di Giovanna Trillo (con rinvio: v. punto n. 16 del “considerato in diritto”)
e di Giovanni D’Ancona (senza rinvio: v. punto n. 11 del “considerato in diritto”).
Al rigetto dei ricorsi proposti da Cosimo Boccuni, Nicola Capozza, Paolo
Ciccolella, Vincenzo D’Ancona, Giulio Modeo, Massimo Nardelli, Michelangelo

43

dicembre 2012, in Bari – Carbonara alla via Vittorio Veneto n. 144, negli avvisi di

Palmieri, Lucia Portacci, Leonardo Ruta ed Antonio Viggiani consegue, per legge,
la condanna dei ricorrenti in questione al pagamento delle spese processuali.
Alle spese processuali, infine, oltre che al pagamento della somma indicata
in dispositivo in favore della cassa delle ammende (non sussistendo la situazione
impeditiva di cui alla sentenza n. 186 del 13 giugno 2000 della Corte
costituzionale), è tenuto l’imputato Francesco Buonfrate, il cui ricorso è stato
valutato inammissibile.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di D’Ancona
Giovanni perché il reato è estinto per prescrizione.
Annulla la stessa sentenza nei confronti di Trillo Giovanna e Pastore
Pasquale con rinvio alla Corte di Appello di Lecce.
Annulla la sentenza ridetta nei confronti di Potenza Antonio limitatamente al
reato di cui all’art. 74 del dpr 309/90, rubricato al capo A), con rinvio alla Corte
di Appello di Lecce; rigetta nel resto il ricorso.
Dichiara inammissibile il ricorso di Buonfrate Francesco e lo condanna al
pagamento delle spese processuali e della somma di euro 2000,00 alla cassa
delle ammende.
Rigetta i ricorsi di Boccuni Cosimo, Capozza Nicola, Ciccolella Paolo,
D’Ancona Vincenzo, Modeo Giulio, Nardelli Massimo, Palrnieri Michelangelo,
Portacci Lucia, Ruta Leonardo, Viggiani Antonio e li condanna tutti al pagamento
delle spese processuali.
Così deciso il 30/09/2016.

Il Consigliere estensore
Dmiele( Fenci

Il Presidente
Rocco Marco Blaiotta
–:

cz

P.Q.M.

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