Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 18635 del 18/11/2014


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Penale Sent. Sez. 6 Num. 18635 Anno 2015
Presidente: CONTI GIOVANNI
Relatore: LEO GUGLIELMO

SENTENZA

sul ricorso proposto dal Pubblico ministero nel subprocedimento cautelare
concernente la società

Vescovi Renzo s.p.a.

avverso la ordinanza del Tribunale di Pistoia, in funzione di giudice dell’appello
cautelare, in data 1373:15PM

13131.U-14

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta in camera di consiglio dal consigliere Guglielmo Leo;
udito il Procuratore generale, in persona del sostituto dott. Aldo Policastro, che
ha chiesto annullarsi con rinvio il provvedimento impugnato;
udito il Difensore della società Vescovi Renzo s.p.a., avv. Enrico Panelli, che ha
chiesto rigettarsi il ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Pistoia, con
provvedimento del 30/05/2013, aveva disposto, ai sensi dell’art. 49 del d.lgs. n.

Data Udienza: 18/11/2014

231/2001, il ripristino della misura cautelare a suo tempo applicata nei confronti
della Vescovi Renzo s.p.a. (d’ora in poi semplicemente «Società»), cioè
l’interdizione per sei mesi a contrattare con la Pubblica Amministrazione delle
regioni Toscana e Liguria.
La misura interdittiva era stata adottata in relazione all’illecito amministrativo
di cui agli artt. 5, comma 1, lettera a),

21 e 25 del citato decreto legislativo,

correlato ai reati di cui agli artt. 81 cpv., 110, 319, 319 bis, 321, 353, comma 2,
cod. pen., ascritti a Roberto Vescovi quale socio di maggioranza ed institore della

Era stato per altro accordato – ai sensi dell’art. 49, comma 1, del d.lgs. n.
231/2001 – un periodo di sospensione della misura, al fine di consentire
l’adozione delle misure idonee ad escludere l’applicazione delle sanzioni
amministrative di cui all’art. 17. Tuttavia il Giudice per le indagini preliminari,
alla scadenza del periodo, aveva ritenuto inadeguate le misure in concreto
assunte dalla Società, ed aveva appunto disposto, in applicazione del comma 3
dell’art. 49, il ripristino della misura interdittiva.
Dal canto proprio il Tribunale di Pistoia, in funzione di giudice dell’appello
cautelare, aveva in seguito annullato il provvedimento, confutando il giudizio di
insussistenza delle condizioni indicate al comma 1 dell’art. 17. Quanto al
risarcimento del danno, era stata considerata satisfattiva l’istituzione, ad opera
della Società, di un fondo di accantonamento per euro 120.000,00, finalizzato a
garantire la futura eliminazione delle conseguenze dannose del fatto. Riguardo
all’adozione di un idoneo modello organizzativo, il Tribunale aveva valutato
positivamente le misure prese, negando in particolare che dovesse considerarsi
inadeguata la designazione del nuovo amministratore nella persona di Tommaso
Vescovi, fratello di Roberto (presunto autore dei reati) e figlio di Renzo. Quanto
infine alla messa a disposizione del profitto ricavato dall’illecito, in vista
dell’eventuale confisca, si era apprezzata l’istituzione di un secondo
accantonamento per 120.000,00 euro, somma equivalente al 10% degli importi
fatturati ed incassati dalla Società per i lavori relativi alle gare in contestazione,
che il Tribunale aveva considerato corrispondente al profitto conseguito, da
intendersi quale utile netto ricavato.
L’ordinanza di annullamento era stata impugnata dal Pubblico ministero, con
ricorso accolto da questa Suprema Corte, con sentenza n. 326/2014 del
28/11/2013.
È opportuno fin d’ora rilevare come la Corte avesse considerato fondati parte
soltanto dei motivi posti a sostegno dell’impugnazione. In particolare,
l’annullamento era stato disposto «per l’assorbente ed esaustivo profilo di non
essersi la società “efficacemente”, come impone il d.lgs. n. 231 del 2001, art.
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predetta Società.

17, lett. a), adoperata a risarcire integralmente il danno, ad eliminare le
conseguenze dannose o pericolose del reato». Ciò per altro rilevando come, nei
casi in esame, il giudice di legittimità possa sindacare i soli vizi derivanti da
violazione di legge e dunque, in punto di corrispondenza della motivazione al suo
modello legale, le sole fattispecie di mancanza grafica o sostanziale della
motivazione medesima. Per questa ragione la Corte aveva ricusato di «prendere
posizione» a proposito dei modelli organizzativi adottati dalla Società, ed in
particolare dell’avvenuta designazione di Tommaso Vescovi quale

titolo di risarcimento ovvero costitutive del profitto: in proposito il Tribunale
aveva sviluppato una motivazione compiuta e non implausibile, con ciò restando
escluso il denunciato vizio di violazione della legge.
Una tale violazione, piuttosto, era stata riscontrata in punto di effettivo
risarcimento del danno, a prescindere dalla sua determinazione quantitativa, non
parendo alla Corte sufficiente la costituzione di un accantonamento a riserva
indisponibile, certificata dal collegio sindacale, comunicato agli enti comunali,
persone danneggiate dal reato, solo dieci giorni prima della scadenza del periodo
di sospensione. In sintesi, la legge richiederebbe una «diretta consegna alle
persone danneggiate […] delle somme costitutive del risarcimento del danno
prodotto ovvero con modalità che garantiscano la presa materiale della somma
risarcita su iniziativa del danneggiato senza la necessità di una ulteriore
collaborazione per la traditio dell’ente risarcente». Inoltre, poiché la disciplina in
esame richiede non solo un’azione risarcitoria compiuta, ma anche l’eliminazione
delle conseguenze dannose o pericolose del reato, o comunque una efficace
attivazione in tal senso», l’ente interessato sarebbe sempre chiamato ad «una
determinazione del danno e delle conseguenze non per iniziative unilaterali, ma
in virtù di una collaborazione o comunque contatto tra parti contrapposte, tale da
doversi ritenere efficace l’essersi adoperato preteso dalla disposizione
richiamata». Nel caso di specie – ha proseguito la Corte – la condotta della
società era consistita nell’offrire dieci giorni prima della scadenza del tempo di
sospensione della misura una somma determinata unilateralmente, senza alcuna
possibile interlocuzione da parte degli enti territoriali danneggiati dalla condotta
costitutiva di reato. Ciò tra l’altro era stato attuato nei soli confronti dei Comuni,
senza alcuna attività volta all’individuazione dei soggetti privati in ipotesi
danneggiati attraverso le condotte di turbata libertà degli incanti.
La Corte di legittimità, dunque, aveva annullato il provvedimento impugnato,
chiamando il Giudice del rinvio «alla verifica degli impegni come sopra
individuati».

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9)\t

amministratore, nonché a riguardo della quantificazione della somme dovute a

2. Il giudizio di rinvio è stato definito dal Tribunale di Pistoia con il
provvedimento oggi in considerazione.
Il Tribunale per altro, esplicitamente e motivatamente, ha ritenuto di non
esaminare l’ordinanza sottoposta al suo vaglio mediante l’originario appello del
Pubblico ministero, ravvisando, a fronte di una espressa istanza difensiva in tal
senso, le condizioni per una revoca della misura in atto, in forza della
sopravvenuta carenza delle esigenze cautelari in vista delle quali la misura

2.1. Dopo avere argomentato circa la propria «competenza» a provvedere
sull’istanza difensiva, il Tribunale ha osservato per un primo verso che le
circostanze in precedenza apprezzate quali fattori costitutivi della fattispecie
regolata dall’art. 17 del d.lgs. n. 231/2001 (adozione di un nuovo modello
organizzativo, sostituzione dell’amministratore, istituzione di più fondi di
accantonamento) potrebbero essere valutate anche, in prospettiva non
pregiudicata nella fase rescindete, quali misuratori del concreto rischio della
commissione di nuovi illeciti da parte della Società. Per altro verso, rispetto alle
precedenti fasi del subprocedimento, sarebbero sopraggiunti nuovi elementi atti
a tranquillizzare circa il futuro comportamento della Vescovi. A parte la nomina
del nuovo amministratore (che la Cassazione ha escluso possa venir svalutata
pregiudizialmente in base al solo rapporto di parentela con il precedente), si è
infatti registrato l’impegno della Società a costituire un

trust sulla base delle

disposizioni contenute nella Convenzione de l’Aia in data 1/7/1985, al fine di
garantire effettività al risarcimento del danno ed alla rimozione delle
conseguenze dannose o pericolose dell’illecito.
In altre parole, l’oggetto del giudizio non è stata l’idoneità degli elementi
indicati a concretare le condizioni preclusive indicate al comma 1 dell’art. 17 del
d.lgs. n. 231/2001, ma la valenza di quegli stessi elementi sul piano della
prognosi cautelare.
Seguono, nel provvedimento impugnato, un’ampia analisi delle misure
adottate dalla Società dopo le contestazioni, ed il giudizio secondo cui tali
misure, per la loro efficacia, varrebbero ragionevolmente ad escludere il rischio
di reiterazione degli illeciti. Si è osservato, tra l’altro, che la situazione di fatto
sarebbe ormai diversa da quella esistente all’epoca del provvedimento genetico,
essendo stati arrestati e comunque rimossi dagli incarichi i funzionari coi quali i
dirigenti della Società avevano stretto i presunti rapporti corruttivi.
Il Tribunale ha infine aggiunto che il concreto ripristino della misura
determinerebbe effetti privi del necessario carattere di proporzionalità, poiché,
nel ritenuto «contesto storico e di fatto», non vi sarebbe una reale funzionalità di

stessa era stata a suo tempo adottata.

prevenzione speciale e resterebbe per converso compromessa «definitivamente
la prosecuzione dell’attività imprenditoriale, con tutte le negative conseguenze
sul piano occupazionale».

3. Ricorre contro l’ordinanza il Pubblico ministero, argomentando sulla
tempestività della impugnazione (proposta nel termine di 15 giorni: Sez. 1,
Sentenza n. 3962 del 05/06/1997, rv. 207954) e deducendo violazione di legge

3.1. In primo luogo, il Tribunale avrebbe violato il disposto degli artt. 623 e
627 cod. proc. pen., eludendo i compiti che ad esso spettavano quale giudice del
rinvio, ed occupandosi di questioni affatto diverse.
La Corte di cassazione (supra) aveva annullato una ordinanza pertinente
all’integrazione (o non) delle condizioni di cui all’art. 17 del d.lgs. n. 231/2001,
quale presupposto per l’applicazione, rispettivamente, del comma 4 o del
comma 3 del successivo art. 49, ed aveva indicato espressamente al Tribunale
del rinvio l’oggetto ed il metodo della valutazione demandatagli. Come detto, il
provvedimento impugnato tratterebbe questioni diverse, interrompendo la
fisiologica progressione del giudizio conseguente all’annullamento.

3.2. In collegamento coi rilievi che precedono, sostiene il ricorrente che il
Tribunale non avesse titolo per occuparsi della permanenza delle condizioni
legittimanti il trattamento cautelare, questione diversa da quella introdotta con il
gravame e disciplinata, anche a livello procedimentale, dall’art. 50 del d.lgs. n.
231/2001.
Premesso che sulla ricorrenza delle esigenze cautelari sì sarebbe formato il cd.
«giudicato cautelare», non essendo stata a suo tempo impugnata l’ordinanza
genetica, il ricorrente assume che la Società avrebbe potuto e dovuto rivolgersi
al giudice della cautela, sollecitando la revoca della misura applicata, ciò che tra
l’altro avrebbe garantito il doppio grado del giudizio di merito sulla permanenza
delle esigenze di cautela. Una procedura elusa, attraverso la considerazione di
ammissibilità (e l’accoglimento) di una istanza estranea, in realtà, alla procedura
in corso.

3.3. Ancora, la legge processuale (combinato disposto degli artt. 49 e 50 del
d.lgs. n. 231/2001) sarebbe stata violata per l’omissione del necessario
provvedimento circa la sussistenza o non dei presupposti per il ripristino della
misura interdittiva.

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sotto molteplici aspetti.

Il ricorrente evidenzia come detta omissione abbia implicato quella
conseguente del provvedimento, a sua volta doveroso, sulla cauzione versata
dalla Società ex art. 49, comma 2, del d.lgs. n. 231/2000, la quale, una volta
accertato l’inadempimento delle condizioni indicate al precedente art. 17,
dovrebbe comunque essere versata alla Cassa delle ammende a prescindere
dalla prosecuzione o non del trattamento cautelare.
In questo senso il provvedimento impugnato sarebbe anche abnorme, avendo

3.4. Sostiene il Pubblico ministero che l’ordinanza de qua sarebbe assunta in
violazione di legge anche ammettendo una astratta competenza alla revoca della
misura da parte del giudice dell’appello cautelare.
Con il disposto degli artt. 49 e 17 del d.lgs. n. 231/2001, il legislatore della
materia avrebbe introdotto una particolare disciplina dei rischi e delle cautele,
consapevolmente incentrata, fra l’altro, su una logica specialpreventiva, di forte
pressione sul soggetto interessato a fini di rimozione precoce delle conseguenze
dannose del reato. Il legislatore, in altre parole, avrebbe stabilito che
l’abbandono del presidio cautelare sia subordinato ad una compiuta riparazione,
che dovrebbe tipicamente precedere l’accertamento sul merito della
contestazione. Teorizzando che il compimento solo parziale degli adempimenti
richiesti dalla procedura possa assumere rilievo in termini di prognosi favorevole
sui futuri comportamenti dell’ente, così come ha fatto il Tribunale, si darebbe
luogo ad un sostanziale svuotamento del sistema voluto dal legislatore, in
contrasto con la logica e con la lettera delle relative disposizioni.

3.5. Il Pubblico ministero ritiene che il provvedimento impugnato sia segnato
da vizi di legittimità, per il carattere palesemente incongruo o per la mancanza
assoluta della motivazione, anche in riferimento ai passaggi che riguardano la
valutazione sintomatica dei comportamenti tenuti dalla Società dopo la
contestazione cautelare.
In primo luogo si ricorda come la Corte di legittimità, con il provvedimento
rescindente, avesse escluso la possibilità che il fondo di accantonamento relativo
ad una somma di 120.000,00 euro (somma rimasta nella piena disponibilità della
Società) fosse considerato un efficace presidio dell’interesse dei danneggiati al
risarcimento ed alla rimozione delle conseguenze dannose del reato, ed avesse
stigmatizzato il carattere unilaterale dell’atteggiamento tenuto dalla Vescovi, sia
riguardo all’individuazione delle potenziali parti civili, sia riguardo alla
quantificazione del danno. Nondimeno, e con valutazione asseritamente illogica,
il Tribunale avrebbe considerato l’istituzione del fondo quale sicuro sintomo di
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determinato una stasi indebita del procedimento.

disponibilità alla riparazione e di resipiscenza dell’ente. Una conclusione
ingiustificata, a maggior ragione, considerando che nessuna seria interlocuzione
con i Comuni e con le società interessate sarebbe stata avviata dalla Vescovi
neppure dopo le univoche indicazioni desumibili dalla sentenza di annullamento
della Cassazione.

3.6. Contraddittoria ed illogica sarebbe la motivazione del provvedimento
impugnato anche nella parte in cui assegna rilievo ad una «mera intenzione»

l’eventualità che detta intenzione non venga attuata, assegnando in proposito un
effetto incentivante alla mera eventualità di una imprecisata ed improbabile
riattivazione del trattamento cautelare.

3.7. Sarebbe stata illegittima, da parte del Tribunale, la valorizzazione
dell’unico adempimento formalmente realizzato dalla Società, e cioè l’adozione di
un Modello di organizzazione e gestione mirato a prevenire nuovi fatti di
corruzione o turbativa d’asta. Una scelta criticata, «a maggior ragione», di fronte
alla scelta gestionale di lasciare immutata, nella sostanza, la catena di comando,
designando in luogo del precedente amministratore, colpito da misura personale,
il fratello di questi.

3.8. L’argomento fondato sui cambiamenti intervenuti nella composizione
degli organi amministrativi coinvolti nelle condotte illecite ascritte all’ente
sarebbe inconferente, considerata tra l’altro l’intervenuta cessazione delle
cautele e la perdurante partecipazione della Società a gare pubbliche.
Sarebbe poi contraddittoria l’osservazione che accredita l’idea di episodi
maturati grazie allo specifico rapporto con alcuni pubblici ufficiali, piuttosto che
d’un ricorso sistemico della Società ad espedienti corruttivi. L’ordinanza
applicativa della misura avrebbe documentato esattamente il contrario, ed il
Tribunale, cadendo appunto in una contraddizione, ne avrebbe richiamato
adesivarnente la motivazione.

3.9. Con un apposito paragrafo, il ricorrente stigmatizza l’omessa
considerazione, nel provvedimento impugnato, di argomenti e fatti che l’Ufficio di
Procura aveva posto in specifica evidenza mediante una memoria scritta.
In sintesi, il riferimento attiene all’imputazione elevata nei confronti dei
componenti della famiglia Vescovi (che controllano completamente la Società)
per un delitto associativo, finalizzato proprio alla commissione di un numero
indeterminato di delitti contro la pubblica amministrazione, in particolare
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99-

)

manifestata dall’ente (cioè quella di istituire un trust) ed al tempo stesso ipotizza

connessione con il compimento di gare pubbliche, ed attraverso un dominio di
fatto esercitato nel territorio pistoiese. Il Pubblico ministero aveva inoltre
segnalato come, nelle more del subprocedimento, la Società fosse stata
chiamata a rispondere di ulteriori 13 gare, nelle quali aveva prevalso sulle
concorrenti ed aveva acquisito commesse per rilevantissimi importi.
Il provvedimento de quo andrebbe annullato anche per non aver tenuto alcun
conto degli argomenti in questione.

rilevando un presunto difetto di proporzionalità della misura applicata, che
produrrebbe effetti dannosi eccedenti le necessità cautelari.
La denunciata sproporzione, che il ricorrente nega comunque in fatto, avrebbe
al più legittimato una modifica od una attenuazione del trattamento cautelare,
così come disposto al comma 2 dell’art. 50 del d.lgs. n. 231/2001, ma non certo
la revoca disposta con il provvedimento impugnato.

4. Nelle more dell’odierna udienza il Difensore della Società ha depositato una
memoria difensiva ex art. 611 cod. proc. pen., chiedendo il rigetto del ricorso.

4.1. A titolo di premessa la parte nega il fondamento in fatto di alcune
affermazioni contenute nel ricorso, essenzialmente relative alla serietà degli
intenti di riparazione della Società interessata. In particolare, il trust di cui sopra
si è detto è stato istituito, nominando un

trustee

ed un guardiano

sostanzialmente indipendenti, dotando l’ente di una fideiussione a prima
richiesta per 360.000,00 euro, comunicando il fatto ai Comuni ed alle società
concorrenti nelle procedure in contestazione (limitatamente alle seconde
classificate).

4.2. Sempre in linea generale, la parte ricorda come il ricorso per cassazione
contro i provvedimenti assunti in sede di appello cautelare sia limitato alla
violazione di legge, anche per effetto della specifica indicazione contenuta
nell’art. 52 del d.lgs. n. 231/2001. Ricorda, nel contempo, come la
giurisprudenza delle Sezioni unite di questa Corte abbia esteso la rilevanza del
vizio di motivazione, oltre il caso della mancanza grafica, alle sole ipotesi di
anomalie tanto radicali da rendere incomprensibile l’itinerario logico seguito dal
giudice (il riferimento concerne Sez. U, Sentenza n. 25932 del 29/05/2008,
Ivanov, rv. 239692).
Il ricorrente, pur citando la giurisprudenza in materia, avrebbe denunciato
proprio e solo vizi irrilevanti, perché pertinenti alla logica ed alla congruenza
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9)5)

3.10. Motivazione illegittima, infine, sarebbe quella che il Tribunale ha svolto

della motivazione, e dunque non sindacabili nella prospettiva dell’art. 125 cod.
proc. pen.

4.3. Ciò detto, assume il Difensore della Società che ben spettava al Tribunale
procedente la valutazione di attualità delle esigenze cautelari, sebbene si
trattasse di un giudizio di rinvio, poiché l’art. 627 cod. proc. pen. espressamente
conferisce al giudice del rinvio gli stessi poteri del giudice il cui provvedimento
sia stato annullato. D’altra parte, anche il sistema cautelare che concerne la

cautelari, prescrive (art. 50) che una misura venga immediatamente revocata,
anche d’ufficio, quando ne vengano meno le condizioni legittimanti, pure in forza
di fatti sopravvenuti.
La revoca si imporrebbe tanto in caso di sopravvenienza di nuovi fatti
sintomatici, tanto per l’emersione di circostanze non valutate al tempo del
provvedimento genetico.
In questa prospettiva certamente rientrerebbero gli adempimenti, previsti ad
altri fini, dall’art. 17 del d.lgs. n. 231/2001: se deve convenirsi sulla necessaria
completezza di tali adempimenti, perché la revoca sia disposta a norma dell’art.
49, analoga regola non potrebbe surrettiziamente essere introdotta nella
prospettiva dell’art. 50, ove i fattori per la formulazione della prognosi di
reiterazione non sono tipizzati (è citata una decisione conforme del Tribunale di
Firenze).
La giurisprudenza – prosegue il Difensore – ha indicato i fattori utili a
misurare la «personalità dell’ente», che consistono nelle politiche aziendali
pregresse, nella qualità dei modelli organizzativi adottati, nei cambiamenti
introdotti quanto al ceto dirigente dopo i fatti oggetto di contestazione.
Applicati al caso di specie, i criteri generali indicati dimostrerebbero la
legittimità del provvedimento impugnato: per un verso, la connotazione non
sistemica del presunto ricorso a pratiche illecite sarebbe affermata del tutto
ragionevolmente (contestazioni per 13 gare su 502); per altro verso, tutti i
comportamenti successivi agli illeciti, ampiamente richiamati, sarebbero
sintomatici dell’intento di pratiche nuove e legittime politiche aziendali.

4.4. Da ultimo, il Difensore esclude il fondamento dell’addebito di abnormità
del provvedimento impugnato, che si regge sull’assunto, ritenuto erroneo, che il
Tribunale avesse la possibilità ed anzi il dovere di ignorare l’istanza di revoca.
Tutti gli ulteriori motivi di ricorso sarebbero inammissibili, perché pertinenti al
merito della valutazione giudiziale, oltre che infondati.

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(9,

responsabilità degli enti, in armonia coi principi generali in materia di restrizione

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso del Pubblico Ministero è fondato, nei limiti di cui appresso si dirà. Il
provvedimento impugnato va dunque annullato con rinvio, affinché il Tribunale
dell’appello cautelare possa deliberare circa l’impugnazione sottoposta al suo
giudizio secondo i principi processuali che di seguito saranno enunciati.

pronunciarsi sulle censure mosse al provvedimento impugnato, sviando l’oggetto
del giudizio di gravame, e dunque lasciandolo, di fatto, privo di definizione.
Per cogliere la situazione con immediatezza è sufficiente ricordare, rinviando
per il resto all’esposizione già compiuta, che il Tribunale, quale giudice del rinvio,
avrebbe dovuto confermare od annullare l’ordinanza di ripristino della misura
cautelare sospesa dal Giudice per le indagini preliminari, occupandosi della
conformità al modello legale degli adempimenti riparatori posti in essere dalla
Società, secondo i principi di diritto enunciati dalla sentenza rescindente già
pronunciata da questa Corte. Avrebbe dovuto valutare, dunque, se la Vescovi
avesse completamente ed efficacemente realizzato, entro il termine assegnatole,
le attività riparatorie indicate all’art. 17 dello stesso decreto legislativo.
Come si è visto, ed invece, il Tribunale ha esplicitamente ricusato il
provvedimento, assumendone l’inutilità in forza della concomitante revoca
dell’originaria misura cautelare.

3. Nel tentativo di accreditare la legittimità del proprio agire, il Tribunale ha
sostanzialmente enunciato tre assunti, in stretto collegamento tra loro. Il primo è
che, nel procedimento di rinvio, il giudice procedente agisce con gli stessi poteri
che aveva il giudice responsabile del provvedimento annullato, salvo l’obbligo di
applicazione del principio di diritto enunciato in sede di legittimità. Il secondo è
che il giudice dell’appello cautelare avrebbe potere deliberante non solo riguardo
all’oggetto dell’impugnazione ma, quale responsabile della persistente attualità
delle condizioni legittimanti la restrizione

de libertate,

anche rispetto alla

legittimità della prosecuzione della cautela. Il terzo assunto, enunciato con
minore chiarezza, è che i motivi di gravame non circoscriverebbero il devolutum
in modo tassativo, dovendo estendersi la cognizione ai temi «intimamente
connessi».

10

991

2. Appare evidente, in particolare, come i Giudici territoriali abbiano omesso di

3.1. La legge stabilisce testualmente che il giudice del rinvio decide con gli
stessi poteri che aveva il giudice la cui decisione sia stata oggetto di
annullamento, salvo l’obbligo di conformazione al principio di diritto
eventualmente enunciato dalla Corte di cassazione (comma 2 dell’art. 627
c.p.p.). Deve quindi convenirsi con la Difesa della parte privata allorquando
rileva che il Tribunale pistoiese, dopo l’annullamento della sua ordinanza, era
chiamato a svolgere un ordinario giudizio di appello riguardo al ripristino di
efficacia della misura temporaneamente sospesa (sull’applicabilità del principio al

31/01/2012, rv. 251870).
Per altro, prima di affrontare il tema della consistenza effettiva dei poteri
indicati, pare opportuno notare che la sequenza tra giudizio rescindente e fase
rescissoria non può comunque giudicarsi irrilevante. L’obbligo di adeguamento al
principio di diritto costituisce chiara implicazione della continuità di oggetto del
giudizio. Tale oggetto – nonostante il necessario coordinamento con le esigenze
di permanente verifica della legittimità dello status cautelare – non può essere
completamente ribaltato, ché, altrimenti, verrebbe meno la stessa effettività del
potere di sindacato attribuito al giudice di legittimità. D’altra parte, la già citata
necessità di coordinamento non può scardinare, nel subprocedimento cautelare,
la portata del principio di preclusione, che garantisce com’è noto l’effettività del
contraddittorio e la preminenza del deliberato del giudice di grado superiore. Non
a caso, si è stabilito in giurisprudenza che «nel giudizio cautelare di rinvio non
possono essere dedotte dalle parti né rilevate d’ufficio per la prima volta cause di
inutilizzabilità o di nullità concernenti atti formati nelle fasi anteriori del
procedimento, atteso che la sentenza della Corte di cassazione, da cui origina il
giudizio stesso, determina una preclusione con riguardo a tutte le questioni non
attinte dalla decisione di annullamento» (Sez. 6, Sentenza n. 47564 del
14/11/2013, rv. 257470; in senso analogo Sez. 2, Sentenza n. 15757 del
01/04/2011, rv. 249939).
I rilievi che precedono pongono in evidenza una implicazione perfettamente
coincidente con la fisionomia tipica del giudizio di gravame (del quale la sentenza
di annullamento impone la ripetizione), e cioè che lo scorrere delle fasi
processuali non comporta mai, in nessun caso, il cambiamento di oggetto della
procedura, ed in particolare l’abbandono dei punti della decisione cui si
riferiscono le censure poste ad oggetto degli atti di impugnazione. Su quei punti
potranno eventualmente esercitare influsso fattori di carattere sopravvenuto,
come ad esempio un mutamento della legislazione, ma ciò non esclude che gli
stessi debbano essere definiti, sia pure, ed appunto, riscontrando la
sopravvenuta ininfluenza della questione originaria.

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go

subprocedimento cautelare, ad esempio, Sez. 6, Sentenza n. 4536 del

3.2. Come anticipato, la stabilità di oggetto costituisce anche la caratteristica
del giudizio cautelare di appello, a prescindere dal carattere primario o reiterato
della relativa celebrazione.
Il Tribunale richiama i termini di una questione fortemente dibattuta a
proposito del trattamento cautelare, cioè il raccordo possibile tra principi
fondamentali tutti rilevanti, come quello di costante attualità dei fattori di
legittimazione del provvedimento restrittivo e quelli di

ne bis in idem,

almeno nei suoi termini essenziali, e non certo nel senso di fatto accreditato dal
Tribunale.
In particolare si è stabilito che il principio di necessaria attualità delle
condizioni legittimanti la cautela – primariamente garantito dalla possibilità di
costante reiterazione delle istanze

de libertate

(senza che il principio di

preclusione ne paralizzi l’ammissibilità, in presenza di fattori sopravvenuti) consente alle parti processuali di riversare il

novum,

ove lo ritengano

conveniente, anche nell’eventuale giudizio impugnatorio in corso. Ciò comporta
per inciso un problema di duplicazione, che le Sezioni unite di questa Corte
hanno a suo tempo inteso risolvere secondo un criterio di improcedibilità della
domanda presentata per seconda (Sez. U, Sentenza n. 18339 del 31/03/2004,
Donelli, rv. 227357 e 227358). Qui rileva, soprattutto, il limite logico e giuridico
posto alla “libertà” di scelta della sede nella quale riversare gli elementi
sopravvenuti che, a giudizio della parte, dovrebbero orientare la decisione
cautelare. In particolare, la sede del giudizio impugnatorio può essere
privilegiata a patto che il novum si inserisca nel perimetro decisorio segnato dal
devolutum, e cioè nell’ambito dell’oggetto circoscritto per il giudizio medesimo,
e sempreché venga in concreto garantito alla parte avversa il diritto al
contraddittorio. La ragione è evidente, e risiede proprio nella necessità di non
sfigurare l’oggetto e la fisionomia del procedimento di gravame (sul limite del
devoluto quale fattore condizionante l’acquisizione di nuovi elementi nel giudizio
di appello cautelare, a parte la già citata decisione delle Sezioni unite, si possono
citare, tra le molte, Sez. 2, Sentenza n. 12245 del 14/02/2013, rv. 255539;
Sez. 4, Sentenza n. 40906 del 23/09/2008, rv. 241330; Sez. 1, Sentenza n.
26299 del 23/06/2006, rv. 235017; Sez. 2, Sentenza n. 6728 del 09/02/2006,
rv. 233159).
Dunque, occorre distinguere tra variazione della base cognitiva, sempre
consentita (alle condizioni anzidette), e mutamento di oggetto del giudizio
impugnatorio, inteso come abbandono del thema decidendum segnato dai motivi
e introduzione di nuovi punti per la decisione del trattamento cautelare, che deve
12

preclusione, devoluzione. La questione è stata per altro da lungo tempo risolta,

in linea di massima ritenersi preclusa. La stessa valutazione di attualità delle
esigenze di cautela, che la giurisprudenza riferisce talvolta espressamente al
giudice dell’appello (Sez. 6, Sentenza n. 19008 del 17/04/2012, rv. 252874), è
connessa all’immanenza del tema nel relativo procedimento («pur nel rispetto di
quanto devoluto»), e non può essere surrettiziamente evocata attraverso
l’irrituale proposizione di domande estranee all’oggetto del giudizio, a maggior
ragione quando si pretenda di farne discendere, come nella specie, il completo
abbandono dei temi originari e l’elusione, in sostanza, dell’impulso a correggere

È appena il caso di dire, naturalmente, che il sistema consente ugualmente la
più pronta reazione al mutamento delle condizioni e delle esigenze che
legittimano il trattamento cautelare, la quale consiste nella domanda di revoca
rivolta al giudice della cautela, cioè al giudice che procede. Il problema non è,
come sembrano ritenere il Tribunale procedente e la Difesa della Società,
l’effettività del principio stabilito all’art. 50 del d.lgs. n. 50/2001, che estende
alle persone giuridiche il requisito di perdurante attualità delle esigenze
assicurate mediante la cautela. Il problema è solo quello della sede in cui le
variazioni possono essere rappresentate, con efficacia eventualmente immediata
della relativa domanda.
La giurisprudenza citata nel provvedimento qui impugnato – che attiene ai
presupposti per l’applicazione di un provvedimento cautelare negato, nell’an o
nel quomodo, dal giudice di prime cure – non è risolutiva. Infatti, quando si
tratta – a seguito dell’impugnazione del pubblico ministero – di disporre una
limitazione della libertà personale o patrimoniale, superando un argomento
giudicato preclusivo nel grado antecedente del giudizio, si impone la verifica ad
ampio raggio delle condizioni legittimanti. Si avrebbe altrimenti il paradosso di
un effetto di accertamento e addirittura di consolidamento delle condizioni non
valutate, o valutate solo incidentalmente, dal giudice della (negata) cautela.
Questo pare il senso della giurisprudenza invocata (Sez. 6, Sentenza n. 6592 del
25/01/2013, rv. 254578; Sez. 6, Sentenza n. 35786 del 21/06/2012, rv.
254392), non potendosene al contrario desumere, secondo il Collegio, la
sostanziale vanificazione dei limiti del devolutum, in particolare quando il giudice
dell’appello cautelare non è richiesto di assumere ex novo un provvedimento di
restrizione.

3.3. Nel caso di specie il Tribunale di Pistoia deve ancora valutare se si
legittimasse o non, alla luce dei criteri legali enunciati nella sentenza di
annullamento con rinvio, il ripristino della misura cautelare sospesa ex art. 47
del d.lgs. n. 231/2001.

13

Ql9-)

che scaturisce dal giudizio di legittimità.

Per inciso, l’effetto devolutivo dell’impugnazione non aveva in alcun modo
riguardato il tema della ricorrenza delle esigenze cautelari, di talché, nel caso
concreto, risulta solo formale l’ossequio all’orientamento dominante, secondo
cui la valorizzazione del novum nel giudizio di gravame è condizionata dai limiti
tracciati dal principio di devoluzione.
D’altra parte – se può ammettersi che una misura cautelare non possa essere
applicata ex novo se non previa verifica dell’attualità delle condizioni legittimanti,
e se può ammettersi anche che lo stesso principio debba valere nel caso di

regole consentano un ribaltamento della procedura tale che ciascuno dei profili
posti in discussione lungo l’intero corso del giudizio perda ogni e qualsiasi rilievo.
Scopo del giudizio di rinvio, nel caso di specie, avrebbe dovuto essere e sarà,
in primo luogo, l’eliminazione del vizio determinatosi per l’erronea individuazione
degli elementi di fattispecie (avuto in particolare riguardo al concetto di efficace
e completa riparazione), verificando se il ripristino della misura cautelare
applicata si legittimasse (e, per quanto possa occorrere, si legittimi) in base alla
corretta nozione indicata dal giudice di legittimità.
Il tema delle esigenze cautelari avrebbe potuto e potrà assumere rilievo nei
soli limiti indicati, e cioè a fini di eventuale giustificazione della ripresa attuale ed
effettiva dell’inibitoria connessa alla misura applicata.

4. Riguardo a quanto appena si è detto circa l’attualità delle esigenze cautelari,
va escluso il fondamento della tesi propugnata dal ricorrente, secondo cui, nel
procedimento contro gli enti, il legislatore avrebbe introdotto ed ammesso solo
una modalità tipica di eliminazione del rischio di recidiva, e cioè l’attuazione delle
misure indicate all’art. 17 del d.lgs. n. 231/2001.
La tesi è sostanzialmente contraddetta dal tenore letterale del comma 1
dell’art. 50 del decreto, che pone in alternativa, quali fattori di revoca della
misura applicata, l’effettuazione degli adempimenti in questione e la mancanza
sopravvenuta delle condizioni indicate al precedente art. 45, tra le quali è
compreso il rischio di recidiva. La cessazione di tale rischio (ed a maggior
ragione la sua attenuazione) può quindi essere determinata anche da
comportamenti non conformi al “modello” tracciato con la previsione dell’art. 17,
e con il connesso meccanismo di sospensione del trattamento cautelare.
Se è vero che il sistema conferirebbe maggiore efficacia incentivante ai
meccanismi riparatori, ove condizionasse la revoca della misura alla loro piena
attuazione, è anche vero che una tale disciplina contrasterebbe con i principi
generali, ed in particolare con la necessità che il trattamento cautelare, in attesa
dell’accertamento definitivo di responsabilità, sia subordinato all’urgenza della
14

Qn

ripristino del trattamento dopo una sospensione – va comunque escluso che tali

sua applicazione e dei suoi effetti inibitori: un principio del quale l’art. 50 del
decreto costituisce il precipitato sullo specifico terreno della responsabilità da
reato degli enti. L’incentivazione degli adempimenti indicati all’art. 17 è affidata
solo in parte, del resto, all’effetto di sospensione che può derivarne in merito
all’applicazione del trattamento cautelare, trattandosi anche e soprattutto, per
l’ente interessato, di prevenire (con azione necessariamente preventiva)
l’irrogazione delle sanzioni interdittive in caso di affermazione della
responsabilità.

adempimenti e rinuncia alla cautela non si riproduce quando l’attenuazione od
esclusione del rischio di recidiva debbano essere desunte da fattori diversi. Può
aggiungersi – si tratta di considerazioni che dì volta in volta dovranno effettuarsi
sul piano del fatto – che la rilevanza di fattori alternativi, specie quando gli stessi
vengano proposti in luogo d’una piena e leale adesione al modello riparativo
delineato dalla legge, dovrà essere attentamente valutata nel suo significato di
effettiva, concreta e verificata eliminazione del rischio di recidiva.
Ma non può teorizzarsi, come appena si è detto, che ogni e qualsiasi fattore
diverso dal puntuale adempimento delle procedure sia irrilevante per
presunzione legale ed assoluta. È vero che l’art. 49, comma 3, stabilisce
senz’altro che il giudice ripristini la misura cautelare in caso di adempimento
intempestivo od incompleto. Ma la previsione attiene com’è ovvio al
subprocedimento di sospensione, caratterizzato da una propria logica e da una
propria autonomia, e non si estende a neutralizzare il senso inequivoco della
regola posta all’articolo seguente: si intende, dunque, che la misura deve essere
«ripristinata» sempreché il giudice, in accoglimento di una istanza di «revoca»
od anche d’ufficio, non ritenga che il trattamento non trovi ulteriore
legittimazione nelle condizioni di fatto sulle quali dovrebbe produrre in concreto i
suoi effetti.

5. Il provvedimento impugnato è dunque illegittimo per il

non liquet

sostanzialmente attuato riguardo all’appello contro l’ordinanza di ripristino della
misura cautelare deliberata, dal Giudice per le indagini preliminari, a mente
dell’art. 49, comma 3, del d.lgs. n. 231/2001.
Come poco sopra si è detto, la procedura di sospensione esprime una sua
logica e presenta una marcata autonomia nell’ambito del subprocedimento
cautelare, tanto che il legislatore ha richiesto, per garantire la serietà
dell’impegno a realizzare gli adempimenti dell’art. 17, il versamento di una

15

Naturalmente, l’automatismo che la legge instaura tra effettuazione degli

idonea cauzione, ed ha stabilito che detta cauzione venga incamerata dall’Erario
quando l’impegno stesso non risulta onorato dall’ente richiedente.
Una volta aperta, la procedura deve essere definita, non foss’altro per le
conseguenze che si determinano in merito alla restituzione od all’acquisizione del
denaro versato a titolo di cauzione. Se nel momento dell’ipotetico ripristino la
legittimazione della cautela risulta venuta meno, per ragioni diverse
dall’integrazione della fattispecie estintiva, ciò non implica che la garanzia
patrimoniale non debba operare. Si noti che, attraverso l’accoglimento della sua

un rilevante vantaggio di fatto, non altrimenti acquisibile, e cioè paralizza,
almeno momentaneamente, l’effetto inibitorio della misura applicata. È quindi del
tutto logico che la garanzia venga attuata a prescindere dalle vicende
indipendenti che, in ipotesi, potrebbero produrre un effetto di delegittimazione
della misura, ed in particolare dalla ipotizzata e solo sopravvenuta cessazione
delle esigenze cautelari originariamente individuate dal giudice.
Il giudice della cautela deve dunque definire la procedura, verificando
tempestività e completezza degli adempimenti, e disponendo comunque, per il
caso di esito negativo dell’accertamento, la devoluzione alla Cassa delle
ammende della cauzione prestata. Nello stesso caso, chiamato ad assumere la
decisione di ripristino della cautela sospesa, lo stesso giudice potrà anche
d’ufficio rilevare, ove ne sussistano i motivi, la sopravvenuta insussistenza delle
condizioni che devono permanentemente sorreggere, a norma dell’art. 50 del
d.lgs. n. 231/2001, la restrizione cautelare della libertà.
Per le stesse ragioni, e per tornare al caso di specie, il Giudice dell’appello
cautelare avrebbe dovuto comunque definire l’impugnazione concernente gli
adempimenti riparatori ed il ripristino della misura sospesa, restando irrilevante,
a questi fini, l’esito della valutazione in punto di perdurante attualità delle
esigenze di cautela, necessaria solo per il caso di parzialità o inefficacia delle
misure adottate. Ciò, a maggior ragione, considerando che il Tribunale, per
effetto del percorso adottato, non ha messo in discussione né la legittimità della
misura iniziale né l’incompletezza e l’inefficacia ex art. 17 delle misure riparatorie
poste in atto nel caso concreto.

6. Resta solo da aggiungere, a fini di chiarimento dei limiti posti dalla presente
decisione di annullamento alla valutazione del giudice di rinvio, che questa Corte
non interloquisce, neppure sotto il profilo della razionalità e della congruenza, sui
rilievi che il Pubblico ministero ricorrente ha inteso sviluppare nell’atto di
impugnazione, e che sono stati oggetto di sintesi ai paragrafi da 3.5. a 3.10 del

Ritenuto.
16

domanda di sospensione, l’ente assoggettato al procedimento ottiene comunque

Gli argomenti del Tribunale sono elusivi del

dictum

del Giudice

dell’annullamento nel solo senso che non hanno riconsiderato, alla luce dei criteri
indicati, efficacia e completezza degli adempimenti riparatori ai fini propri
dell’art. 17 del d.lgs. n. 231/2001. I criteri in questione erano stati dettati ai fini
citati, e non possono essere direttamente invocati sul diverso piano che il
Tribunale ha ritenuto di adottare, cioè quello della valenza sintomatica in ordine
all’attuale pericolosità dell’ente (ove per altro, come si accennava, vanno
considerate anche l’incompiutezza del percorso riparativo, e le relative cause).

ricorso per cassazione, contro i provvedimenti emessi dal giudice dell’appello
cautelare, al solo vizio della violazione dì legge. I rilievi del ricorrente,
quand’anche fossero fondati, atterrebbero comunque alla completezza ed alla
coerenza della motivazione riguardo alla prognosi cautelare, ma non alla sua
stessa esistenza, neppure se dell’assenza di motivazione fosse adottata una
nozione estesa, tesa a comprendere casi nei quali non faccia difetto una qualche
argomentazione, e però la stessa risulti inidonea a svelare il ragionamento
sotteso al provvedimento impugnato. La logica seguita dal Tribunale, nel caso di
specie, potrebbe al più definirsi censurabile, ma non certo oscura.

P.Q.M.
.0,

Annulla D, ordinanza impugnata e rinvia per nuovo giudizio al Tribunale di Pistoia.

Così deciso il 18/11/2014.

Come osservato dalla Difesa della parte privata, l’art. 52 del decreto limita il

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