Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 18634 del 18/11/2014


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Penale Sent. Sez. 6 Num. 18634 Anno 2015
Presidente: CONTI GIOVANNI
Relatore: LEO GUGLIELMO

SENTENZA

sul ricorso proposto dal Pubblico ministero nel subprocedimento cautelare
concernente la società

Rosi Leopoldo s.p.a.

avverso la ordinanza del Tribunale di Pistoia, in funzione di giudice dell’appello
cautelare, in data 24/03/2014

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta in camera di consiglio dal consigliere Guglielmo Leo;
udito il Procuratore generale, in persona del sostituto dott. Aldo Policastro, che
ha chiesto annullarsi con rinvio il provvedimento impugnato.
udito il Difensore della società Rosi Leopoldo s.p.a., avv. Enrico Panelli, che ha
chiesto respingersi il ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Pistoia, con
provvedimento del 23/10/2012, aveva applicato nei confronti della Rosi Leopoldo

(222-1

(9-

Data Udienza: 18/11/2014

s.p.a. (d’ora in poi semplicemente «Società»), la misura cautelare del divieto per
sei mesi di contrattare con la Pubblica Amministrazione nelle Regioni Toscana e
Liguria. Il provvedimento si inseriva nell’ambito di indagini concernenti una
presunta associazione per delinquere, finalizzata al compimento di fatti corruttivi
e di turbative d’asta, in vista del conferimento di appalti pubblici nelle zone di
riferimento. Erano stati individuati indizi della responsabilità concorrente delle
società controllate da una parte degli indagati, con la conseguente adozione,
appunto, di cautele concernenti anche gli enti in questione.

d.lgs. n. 231/2001, al fine di consentire alla Società l’eventuale ricorso agli
adempimenti che, a norma del precedente art. 17, possono inibire l’applicazione
delle sanzioni interdittive (e dunque comportare la revoca delle corrispondenti
misure cautelari).
Nondimeno, avendo il Giudice ritenuto alla scadenza del periodo di
sospensione che gli indicati adempimenti non fossero stati compiuti, era stato poi
disposto, con provvedimento del 30/05/2013, il ripristino della misura cautelare.

1.1. Nelle more, e precisamente in data 22/11/2012, il Tribunale di Pistoia
aveva respinto l’appello proposto nell’interesse della Società, con provvedimento
che era stato però annullato, da questa suprema Corte (sez. 6 a ), con sentenza n.
10904 del 7/03/2013.
Valutando e respingendo altri motivi di ricorso, la Corte aveva ritenuto violato
il precetto di compiuta motivazione riguardo al compendio indiziario circa i fatti
in contestazione: il ricorso al rinvio per relationem, nella specie operato con
riguardo alla misura coercitiva adottata nei confronti dell’amministratore di fatto
della Società, era stato giudicato insufficiente, posto che la difesa dell’ente aveva
a sua volta richiamato obiezioni mosse alla misura personale, cui il Giudice della
misura reale, riferendosi all’atto precedente, non aveva dato risposta.
Il Tribunale di Pistoia, quale giudice del rinvio, aveva questa volta annullato
l’ordinanza genetica (provvedimento del 15/06/2013), in forza essenzialmente di
rilievi concernenti i criteri di identificazione del profitto che la Società avrebbe
tratto dagli illeciti compiuti. Anche questa decisione, però, era stata cassata con
rinvio da questa Corte (sez. 2 a ), con sentenza n. 51151 del 3/12/2013.
Nella specie si era rilevato come, per l’adozione di una misura cautelare
interdittiva nei confronti dell’ente, la nozione di profitto di rilevante entità abbia
un contenuto più ampio di quello di profitto inteso come utile netto, in quanto nel
primo concetto rientrano anche vantaggi non immediati, comunque conseguiti
attraverso la realizzazione dell’illecito. Dunque l’identificazione di un profitto “di
rilevante entità” non discende automaticamente dalla considerazione del valore

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L’efficacia della misura era stata sospesa, comunque, ai sensi dell’art. 49 del

del contratto o del fatturato ottenuto a seguito del reato, sebbene tali importi ne
siano, ove rilevanti, importante indizio. Il Tribunale aveva invece raffrontato il
profitto di reato al volume di affari e sulla scorta del solo dato numerico aveva
escluso che detto profitto fosse di rilevante entità. Lo stesso Tribunale, inoltre,
aveva trascurato il tema della reiterazione degli illeciti, da apprezzare anche alla
luce delle contestazioni associative mosse agli indagati.
Nella sua rinnovata qualità di giudice del rinvio, il Tribunale di Pistoia ha
deliberato il provvedimento che costituisce oggetto del presente ricorso, di

1.2. Occorre ancora dire come anche il provvedimento di ripristino della
misura cautelare, assunto dopo la scadenza (asseritamente inutile) del termine
per gli adempimenti di cui all’art. 17 del d.lgs. n. 231/2001, fosse stato appellato
nell’interesse della Società.
Con provvedimento del 10/07/2013, il Tribunale di Pistoia aveva annullato
l’ordinanza del Giudice per le indagini preliminari. Nondimeno questa Corte (sez.
2a ), con sentenza n. 327/14 del 28/11/2013, su ricorso del Pubblico Ministero,
aveva cassato il provvedimento favorevole alla Società.
Il Tribunale, in breve, aveva considerato che, data l’impossibilità di
determinare l’entità del danno cagionato, il fatto che la Società avesse previsto
in bilancio la costituzione di un fondo di accantonamento di euro 120.000,00,
informando dell’operazione gli enti pubblici in ipotesi danneggiati (gli unici al
momento individuabili), si traducesse in una efficace attivazione al fine di
garantire il risarcimento e l’eliminazione delle conseguenze dell’illecito. Nel
contempo – sempre secondo il Tribunale – la Società aveva adottato procedure e
protocolli organizzativi, sulla base dei codici di comportamento e delle linee guida
redatte da Confindustria, idonei a prevenire reati della stessa specie di quello
verificatosi (giudizio non invalidato dal fatto che il nuovo amministratore poteva
considerarsi persona “vicina” a Giordano Rosi, presunto responsabile degli illeciti
pregressi). Infine, la Società aveva anche messo a disposizione il denaro
pertinente ad un futuro provvedimento di confisca, accantonando allo scopo la
somma di euro 108.000,00.
Dal canto proprio la Corte di legittimità aveva accolto diversi dei rilievi
proposti dal Pubblico ministero ricorrente.
In primo luogo si era individuata carenza di motivazione, in termini tali da
integrare la violazione di legge, circa l’effettiva funzionalità del modello
organizzativo adottato dalla Società, con particolare riguardo alla designazione
quale amministratore, in assenza di idonei contrappesi, di persona storicamente

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confermata revoca dell’ordinanza applicativa.

legata alla famiglia Rosi, in posizione dirigente nell’ambito di diverse società del
gruppo, tutte ancora saldamente controllate dalla medesima famiglia.
Un analogo vizio motivazionale era stato riscontrato poi riguardo all’effettivo
risarcimento del danno, a prescindere dalla sua determinazione quantitativa, non
parendo alla Corte sufficiente la costituzione di un accantonamento a riserva
indisponibile, certificata dal collegio sindacale, comunicato agli enti comunali,
persone danneggiate dal reato, solo trenta giorni prima della scadenza del
periodo di sospensione. In sintesi, la legge richiederebbe una «diretta consegna

prodotto ovvero con modalità che garantiscano la presa materiale della somma
risarcita su iniziativa del danneggiato senza la necessità di una ulteriore
collaborazione per la traditio dell’ente risarcente». Inoltre, poiché la disciplina in
esame richiede non solo un’azione risarcitoria compiuta, ma anche l’eliminazione
delle conseguenze dannose o pericolose del reato, o comunque una efficace
attivazione in tal senso, l’ente interessato sarebbe sempre chiamato ad «una
determinazione del danno e delle conseguenze non per iniziative unilaterali, ma
in virtù di una collaborazione o comunque contatto tra parti contrapposte, tale da
doversi ritenere efficace l’essersi adoperato preteso dalla disposizione
richiamata». Nel caso di specie – ha proseguito la Corte – la condotta della
società era consistita nell’offrire trenta giorni prima della scadenza del tempo di
sospensione della misura una somma determinata unilateralmente, senza alcuna
possibile interferenza da parte degli enti territoriali danneggiati dalla condotta
costitutiva di reato. Ciò tra l’altro era stato attuato nei soli confronti degli enti
comunali, senza alcuna attività volta all’individuazione ed alla interlocuzione con
i soggetti privati in ipotesi danneggiati attraverso le condotte di turbata libertà
degli incanti.
La Corte di legittimità, dunque, aveva annullato il provvedimento impugnato,
chiamando il Giudice del rinvio «alla verifica degli impegni come sopra
individuati».
Il giudizio di rinvio è stato a sua volta definito, per effetto di un
provvedimento di riunione adottato dal Tribunale di Pistoia, con l’ordinanza posta
ad oggetto dell’odierno ricorso.

1.3. Dunque, ed in sintesi, il provvedimento impugnato ha definito l’appello
proposto contro l’ordinanza genetica del trattamento cautelare, «revocando»
detta ordinanza, e per l’effetto non ha provveduto in merito all’impugnazione
dell’ordinanza di ripristino della misura dopo la sospensione disposta a norma
dell’art. 49 del d.lgs. n. 231/2001.

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C2))7

(9—°

alle persone danneggiate […] delle somme costitutive del risarcimento del danno

2. Va subito precisato, per altro, che la revoca dell’ordinanza di applicazione
della misura interdittiva non è stata disposta per un difetto genetico della misura
stessa, quanto piuttosto in applicazione dell’art. 50 del d.lgs. n. 231/2001, e cioè
in accoglimento di una istanza difensiva, presentata nel corso della udienza
camerale, che prospettava una carenza sopravvenuta delle condizioni
legittimanti la temporanea interdizione.

2.1. Il Tribunale, in questa prospettiva, ha dedicato tutta la prima parte del

cautelare riguardo alla verifica di persistenza delle esigenze cautelari, anche
quando si proceda nell’ambito di un giudizio di rinvio. Tra gli argomenti, una
pretesa “legittimazione” conferita dalla sentenza di questa Corte n. 51151, che
aveva posto in luce, pur nel contesto dell’annullamento di una decisione
favorevole alla parte privata, la necessità di valutare anche il rischio di
reiterazione dei reati.

2.2. Nel merito dell’istanza difensiva, il Tribunale ha sostenuto per un primo
verso che le circostanze in precedenza apprezzate quali fattori costitutivi della
fattispecie regolata dall’art. 17 del d.lgs. n. 231/2001 (adozione di un nuovo
modello organizzativo, sostituzione dell’amministratore, istituzione di più fondi di
accantonamento) potrebbero essere valutate anche, in prospettiva non
pregiudicata nella fase rescindente, quali misuratori del concreto rischio della
commissione di nuovi illeciti da parte della Società. Per altro verso, rispetto alle
precedenti fasi del subprocedimento, sarebbero sopraggiunti nuovi elementi atti
a tranquillizzare circa il futuro comportamento della Rosi.
In tal senso sono citati: la nomina di un consiglio di amministrazione, che non
comprende la persona già ritenuta espressione di una perdurante volontà di
governo da parte di Giordano Rosi; la donazione da parte del citato Rosi, in
favore del figlio Leopoldo, del pacchetto di maggioranza delle azioni della
Società; l’impegno della stessa Società a costituire un trust sulla base delle
disposizioni contenute nella Convenzione de l’Aia in data 1/7/1985, al fine di
garantire effettività al risarcimento del danno ed alla rimozione delle
conseguenze dannose o pericolose dell’illecito.
In altre parole, l’oggetto del giudizio non è stata l’idoneità degli elementi
indicati a concretare le condizioni preclusive indicate al comma 1 dell’art. 17 del
d.lgs. n. 231/2001, ma la valenza di quegli stessi elementi sul piano della
prognosi cautelare.
Seguono, nel provvedimento impugnato, un’ampia analisi delle misure
concretamente adottate dalla Società dopo le contestazioni, ed il giudizio

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proprio provvedimento alla ritenuta “competenza” del giudice dell’appello

secondo cui tali misure, per la loro efficacia, varrebbero ragionevolmente ad
escludere il rischio di reiterazione degli illeciti. Si è osservato, tra l’altro, che la
situazione di fatto sarebbe ormai diversa da quella esistente all’epoca del
provvedimento genetico, essendo stati arrestati e comunque rimossi dagli
incarichi i funzionari coi quali i dirigenti della Società avevano stretto i presunti
rapporti corruttivi.
Il Tribunale ha infine aggiunto che il concreto ripristino della misura
determinerebbe effetti privi del necessario carattere di proporzionalità, poiché,

prevenzione speciale e resterebbe per converso compromessa «definitivamente
la prosecuzione dell’attività imprenditoriale, con tutte le negative conseguenze
sul piano occupazionale».

3. Ricorre contro l’ordinanza il Pubblico ministero, argomentando sulla
tempestività della impugnazione (proposta nel termine di 15 giorni: Sez. 1,
Sentenza n. 3962 del 05/06/1997, rv. 207954) e deducendo violazione di legge
sotto molteplici aspetti.

3.1. In primo luogo, il Tribunale avrebbe violato il disposto degli artt. 623 e
627 cod. proc. pen., eludendo i compiti che ad esso spettavano quale giudice del
rinvio, ed occupandosi di questioni affatto diverse.
Dopo avere ampiamente riportato passi delle sentenze di annullamento
deliberate da questa Corte, il ricorrente assume che il Tribunale non si sarebbe
minimamente interessato ai temi indicati in fase rescindente, tra i quali
soprattutto la qualifica come “profitto ingente” dell’utile ricavato dai
comportamenti illeciti o l’idoneità degli adempimenti successivi alle contestazioni
a precludere l’applicazione di misure interdittive.
Anche per effetto di un indebito provvedimento di riunione, cui il Pubblico
ministero si era formalmente opposto, il Tribunale avrebbe sovrapposto questioni
diverse, e poi le avrebbe comunque eluse, interrompendo sia il giudizio sulla
legittimità della misura genetica (che avrebbe dovuto semmai annullare, e non
revocare), sia la procedura pertinente alla ricorrenza (o non) delle condizioni
previste dall’art. 17 del d.lgs. n. 231/2001, l’accertamento delle quali, tra l’altro,
condiziona il versamento della cauzione alla Cassa delle ammende,
indipendentemente dall’attualità del trattamento cautelare.
In questo senso il provvedimento impugnato sarebbe anche abnorme, avendo
determinato una stasi indebita del procedimento.

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L952.

nel ritenuto «contesto storico e di fatto», non vi sarebbe una reale funzionalità di

3.2. Sostiene il Pubblico ministero che l’ordinanza de qua sarebbe assunta in
violazione di legge anche ammettendo una astratta competenza alla revoca della
misura da parte del giudice dell’appello cautelare.
Con il disposto degli artt. 49 e 17 del d.lgs. n. 231/2001, il legislatore della
materia avrebbe introdotto una particolare disciplina dei rischi e delle cautele,
consapevolmente incentrata, fra l’altro, su una logica specialpreventiva, di forte
pressione sul soggetto interessato a fini di rimozione precoce delle conseguenze
dannose del reato. Il legislatore, in altre parole, avrebbe stabilito che

che dovrebbe tipicamente precedere l’accertamento sul merito della
contestazione. Teorizzando che il compimento solo parziale degli adempimenti
richiesti dalla procedura possa assumere rilievo in termini di prognosi favorevole
sui futuri comportamenti dell’ente, così come ha fatto il Tribunale, si darebbe
luogo ad un sostanziale svuotamento del sistema voluto dal legislatore, in
contrasto con la logica e con la lettera delle relative disposizioni.

3.3. Il Pubblico ministero ritiene che il provvedimento impugnato sia segnato
da vizi di legittimità, per il carattere palesemente incongruo o per la mancanza
assoluta della motivazione, anche in riferimento ai passaggi che riguardano la
valutazione sintomatica dei comportamenti tenuti dalla Società dopo la
contestazione cautelare.
In primo luogo si ricorda come la Corte di legittimità, con il provvedimento
rescindente, avesse escluso la possibilità che il fondo di accantonamento relativo
ad una somma di 120.000,00 euro (somma rimasta nella piena disponibilità della
Società) fosse considerato un efficace presidio dell’interesse dei danneggiati al
risarcimento ed alla rimozione delle conseguenze dannose del reato, ed avesse
stigmatizzato il carattere unilaterale dell’atteggiamento tenuto dalla Rosi, sia
riguardo all’individuazione delle potenziali parti civili, sia riguardo alla
quantificazione del danno. Nondimeno, e con valutazione asseritamente illogica,
il Tribunale avrebbe considerato l’istituzione del fondo quale sicuro sintomo di
disponibilità alla riparazione e di resipiscenza dell’ente. Una conclusione
ingiustificata, a maggior ragione, considerando che nessuna seria interlocuzione
con gli enti pubblici e con le società interessate sarebbe stata avviata dalla Rosi
neppure dopo le univoche indicazioni desumibili dalla sentenza di annullamento
della Cassazione. La Società, anzi, avrebbe assunto atteggiamenti dilatori ed
avrebbe avanzato pretese, nei confronti del Comune di Pistoia, riguardo a
pagamenti in eccesso, del valore di milioni di euro, rispetto alla prestazione
prevista nel relativo contratto di appalto.

7 q9.1

Lv

l’abbandono del presidio cautelare sia subordinato ad una compiuta riparazione,

3.4. Contraddittoria ed illogica sarebbe la motivazione del provvedimento
impugnato anche nella parte in cui assegna rilievo ad una «mera intenzione»
manifestata dall’ente (cioè quella di istituire un trust) ed al tempo stesso ipotizza
l’eventualità che detta intenzione non venga attuata, assegnando in proposito un
effetto incentivante alla mera eventualità di una imprecisata ed improbabile
riattivazione del trattamento cautelare.

3.5. Sarebbe stata illegittima, da parte del Tribunale, la valorizzazione

un Modello di organizzazione e gestione mirato a prevenire nuovi fatti di
corruzione o turbativa d’asta.
Le censure sono qui particolarmente analitiche. Con la nota sentenza n.
327/2014 questa Corte aveva espressamente censurato l’apprezzamento
espresso dal Tribunale per la designazione di un nuovo amministratore delegato
nella persona di un soggetto da sempre orbitante nell’area della famiglia Rosi,
senza una chiara indicazione di misure idonee a prevenirne l’eventuale
continuazione degli stili gestionali in contestazione. Nel giudizio di rinvio, la
Difesa della Società aveva segnalato la sopravvenuta designazione di un
amministratore collegiale, contestuale al passaggio di mano del pacchetti di
controllo. Con memoria scritta il ricorrente aveva posto in rilievo come anche i
nuovi amministratori fossero da tempo professionisti di fiducia e in un caso
addirittura parenti stretti di Giordano Rosi, e che comunque era stata
contestualmente conferita una procura generale con amplissimi poteri gestionali
in favore di tale Marco Palandri, dirigente della Rosi e già amministratore prima
del già citato Porciani: segni evidenti, a parere del Pubblico Ministero, di una mal
dissimulata continuità della gestione sociale. Analoghi rilievi venivano svolti
quanto alla donazione delle azioni dal padre al figlio, non foss’altro perché anche
quest’ultimo, già componente del precedente consiglio di amministrazione, è
sottoposto a giudizio per i reati di corruzione e turbativa d’asta relativamente a
tutte le gare in contestazione. Nel contempo, e seguendo le indicazioni della
Corte di legittimità, era stato proposto un esame di dettaglio delle norme di
prevenzione assunte del Modello organizzativo, denunciandone l’assoluta
inadeguatezza.
Nonostante tutto questo, il Tribunale ha ritenuto significative le misure
adottate, in aperta violazione del principio enunciato in fase rescindente, e
comunque con motivazione illogica, non consapevole (e dunque assente,
nonostante le espresse deduzioni dell’odierno ricorrente) circa il valore
sintomatico delle attività dissimulatorie poste in essere dalla Società.

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dell’unico adempimento formalmente realizzato dalla Società, e cioè l’adozione di

Con l’ulteriore vizio della violazione degli artt. 49 e 50 del d.lgs. n. 231/2001,
avendo il legislatore richiesto che il trattamento cautelare sia evitabile solo
attraverso l’adozione di modelli organizzativi idonei.

3.6. L’argomento fondato sui cambiamenti intervenuti nella composizione
degli organi amministrativi coinvolti nelle condotte illecite ascritte all’ente
sarebbe inconferente, considerata tra l’altro l’intervenuta cessazione delle
cautele personali e la perdurante partecipazione della Società a gare pubbliche.

maturati grazie allo specifico rapporto con alcuni pubblici ufficiali, piuttosto che
d’un ricorso sistemico della Società ad espedienti corruttivi. L’ordinanza
applicativa della misura avrebbe documentato esattamente il contrario, ed il
Tribunale, cadendo appunto in una contraddizione, ne avrebbe confermato la
sostanza, data la valutazione di sussistenza del fumus commissi delícti.

3.7. Con un apposito paragrafo, il ricorrente stigmatizza l’omessa
considerazione, nel provvedimento impugnato, di argomenti e fatti che l’Ufficio di
Procura aveva posto in specifica evidenza mediante una memoria scritta.
In sintesi, il riferimento attiene all’imputazione elevata nei confronti dei
componenti della famiglia Rosi (che controllano completamente la Società) per
un delitto associativo, finalizzato proprio alla commissione di un numero
indeterminato di delitti contro la pubblica amministrazione, in particolare
connessione con il compimento di gare pubbliche, ed attraverso un dominio di
fatto esercitato nel territorio pistoiese. Il Pubblico ministero aveva inoltre
segnalato come, nelle more del subprocedimento, la Società fosse stata
chiamata a rispondere di quattro ulteriori gare, nelle quali aveva prevalso sulle
concorrenti ed aveva acquisito commesse per rilevantissimi importi.
Il provvedimento de quo andrebbe annullato anche per non aver tenuto alcun
conto degli argomenti in questione.

3.8. Motivazione illegittima, infine, sarebbe quella che il Tribunale ha svolto
rilevando un presunto difetto di proporzionalità della misura applicata, che
produrrebbe effetti dannosi eccedenti le necessità cautelari.
La denunciata sproporzione, che il ricorrente nega comunque in fatto, avrebbe
al più legittimato una modifica od una attenuazione del trattamento cautelare,
così come disposto al comma 2 dell’art. 50 del d.lgs. n. 231/2001, ma non certo
la revoca disposta con il provvedimento impugnato.

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Sarebbe poi contraddittoria l’osservazione che accredita l’idea di episodi

4. Nelle more dell’odierna udienza il Difensore della Società ha depositato una
memoria difensiva ex art. 611 cod. proc. pen., chiedendo il rigetto del ricorso.

4.1. A titolo di premessa la parte nega il fondamento in fatto di alcune
affermazioni contenute nel ricorso, essenzialmente relative alla serietà degli
intenti di riparazione della Società interessata. In particolare, il trust di cui sopra
si è detto è stato istituito, nominando un

trustee

ed un guardiano

sostanzialmente indipendenti, dotando l’ente di deposito bancario per

concorrenti nelle procedure in contestazione (limitatamente alle seconde
classificate).

4.2. Sempre in linea generale, la parte ricorda come il ricorso per cassazione
contro i provvedimenti assunti in sede di appello cautelare sia limitato alla
violazione di legge, anche per effetto della specifica indicazione contenuta
nell’art. 52 del d.lgs. n. 231/2001. Ricorda, nel contempo, come la
giurisprudenza delle Sezioni unite di questa Corte abbia esteso la rilevanza del
vizio di motivazione, oltre il caso della mancanza grafica, alle sole ipotesi di
anomalie tanto radicali da rendere incomprensibile l’itinerario logico seguito dal
giudice (il riferimento concerne Sez. U, Sentenza n. 25932 del 29/05/2008,
Ivanov, rv. 239692).
Il ricorrente, pur citando la giurisprudenza in materia, avrebbe denunciato
proprio e solo vizi irrilevanti, perché pertinenti alla logica ed alla congruenza
della motivazione, e dunque non sindacabili nella prospettiva dell’art. 125 cod.
proc. pen.

4.3. Ciò detto, assume il Difensore della Società che ben spettava al Tribunale
procedente la valutazione di attualità delle esigenze cautelari, sebbene si
trattasse di giudizi di rinvio (riuniti con decisione non sindacabile e ragionevole,
data la sussistenza di un rapporto di pregiudizialità delle questioni), poiché l’art.
627 cod. proc. pen. espressamente conferisce al giudice del rinvio gli stessi
poteri del giudice il cui provvedimento sia stato annullato. D’altra parte, anche il
sistema cautelare che concerne la responsabilità degli enti, in armonia coi
principi generali i.n materia di restrizione dei diritti personali e patrimoniali (art.
50), prescrive che una misura venga immediatamente revocata, anche d’ufficio,
quando ne vengano meno le condizioni legittimanti, pure in forza di fatti
sopravvenuti.

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250.000,00 euro, comunicando il fatto agli enti conferenti ed alle società

La revoca si imporrebbe tanto in caso di sopravvenienza di nuovi fatti
sintomatici, tanto per l’emersione di circostanze non valutate al tempo del
provvedimento genetico.
In questa prospettiva certamente rientrerebbero gli adempimenti, previsti ad
altri fini, dall’art. 17 del d.lgs. n. 231/2001: se deve convenirsi sulla necessaria
completezza di tali adempimenti, perché la revoca sia disposta a norma dell’art.
49, analoga regola non potrebbe surrettiziamente essere introdotta nella
prospettiva dell’art. 50, ove i fattori per la formulazione della prognosi di

Firenze)
La giurisprudenza – prosegue il Difensore – ha indicato i fattori utili a
misurare la «personalità dell’ente», che consistono nelle politiche aziendali
pregresse, nella qualità dei modelli organizzativi adottati, nei cambiamenti
introdotti quanto al ceto dirigente dopo i fatti oggetto di contestazione.
Applicati al caso di specie, i criteri generali indicati dimostrerebbero la
legittimità del provvedimento impugnato: per un verso, la connotazione non
sistemica del presunto ricorso a pratiche illecite sarebbe affermata
ragionevolmente (le contestazioni riguarderebbero una quota non rilevante delle
gare effettuate dalla Società); per altro verso, tutti i comportamenti successivi
agli illeciti, ampiamente richiamati, sarebbero sintomatici dell’intento di pratiche
nuove e di legittime politiche aziendali.

4.4. Da ultimo, il Difensore esclude il fondamento dell’addebito di abnormità
del provvedimento impugnato, che si regge sull’assunto, ritenuto erroneo, che il
Tribunale avesse la possibilità ed anzi il dovere di ignorare l’istanza di revoca.
Tutti gli ulteriori motivi di ricorso sarebbero inammissibili, perché pertinenti al
merito della valutazione giudiziale, oltre che infondati.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso del Pubblico Ministero è fondato, nei limiti di cui appresso si dirà. Il
provvedimento impugnato va dunque annullato con rinvio, affinché il Tribunale
dell’appello cautelare possa deliberare circa le impugnazioni sottoposte al suo
giudizio – entrambe – secondo i principi processuali che di seguito saranno
enunciati.

2. Appare evidente, in particolare, come i Giudici territoriali abbiano omesso di
pronunciarsi, nella sostanza e (in un caso) addirittura formalmente, sulle censure
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69,

reiterazione non sono tipizzati (è citata una decisione conforme del Tribunale di

mosse ai provvedimenti impugnati, sviando l’oggetto dei relativi giudizi di
gravame, e dunque lasciandoli, di fatto, privi di definizione.
Per cogliere la situazione con immediatezza è sufficiente ricordare, rinviando
per il resto all’esposizione già compiuta, che per un primo verso il Tribunale,
quale Giudice del secondo rinvio, avrebbe dovuto confermare od annullare
l’ordinanza applicativa della misura cautelare, occupandosi del profitto in ipotesi
ricavato dal reato in contestazione, secondo il principio di diritto sostanziale
enunciato dalla sezione 2 a di questa Corte con la sentenza n. 51152/2013. Si era

l’adozione di una misura cautelare interdittiva nei confronti dell’ente raggiunto da
gravi indizi di responsabilità per l’illecito dipendente da reato, la nozione di
profitto di rilevante entità ha un contenuto più ampio di quello di profitto inteso
come utile netto, in quanto in tale concetto rientrano anche vantaggi non
immediati, comunque conseguiti attraverso la realizzazione dell’illecito
(nell’affermare tale principio, la Corte ha precisato che il giudizio circa la
sussistenza di un profitto “di rilevante entità” non discende automaticamente
dalla considerazione del valore del contratto o del fatturato ottenuto a seguito
del reato, seppure tali importi ne siano, ove rilevanti, importante indizio almeno
con riferimento ad alcuni dei reati indicati negli artt. 24 e 25 del d.P.R. n. 231 del
2001)». In effetti, nel primo giudizio di rinvio, il Tribunale aveva annullato il
provvedimento cautelare sul presupposto che il profitto della Società – valutato
quale presupposto per l’ipotetica applicazione di sanzioni interdittive a norma
dell’art. 13, comma 1, lettera a) del d.lgs. n. 231/2001 – non potesse qualificarsi
“ingente”. La successiva sentenza di annullamento, poco sopra indicata, aveva
accolto in proposito le censure proposte dal Pubblico Ministero ricorrente. Di
questo avrebbe dovuto occuparsi il Giudice del rinvio.
Nel secondo giudizio impugnatorio, ancora una volta quale giudice del rinvio, il
Tribunale avrebbe dovuto confermare od annullare il provvedimento di ripristino
della misura cautelare originaria, adottato dal Giudice per le indagini preliminari
ex art. 49, comma 3, del d.lgs. n. 231/2001, sul presupposto che la Società non
avesse completamente ed efficacemente realizzato, entro il termine assegnatole,
le attività riparatorie indicate all’art. 17 dello stesso decreto legislativo. Un
primo provvedimento favorevole alla Società era stato annullato dalla sezione 2 a
di questa Corte, con la sentenza n. 327/2014, sul presupposto essenziale che
non fosse stata data contezza della corrispondenza tra la fattispecie concreta e le
condotte riparatorie indicate dalla legge, interpretate secondo i principi indicati
dalla giurisprudenza. Dunque il Tribunale avrebbe dovuto argomentare in punto
di efficacia dell’attribuzione di cariche sociali a persone asseritamente legate alla
famiglia proprietaria, avrebbe dovuto verificare se le condotte risarcitorie
12

ribadita, con tale ultimo provvedimento, la giurisprudenza secondo cui, «per

avessero trovato concreta attuazione (non potendo in tal senso qualificarsi
l’accantonamento unilaterale di una somma in bilancio), in favore di tutti i
soggetti danneggiati dal reato, e non della sola persona offesa. Come si è visto,
ed invece, il Tribunale ha esplicitamente ricusato il provvedimento, assumendone
l’inutilità dopo l’intervenuta revoca dell’originaria misura cautelare.
Ed ha aggiunto, ponendo in plastica evidenza il vizio del proprio procedere,
che se ne sarebbe riparlato in caso di annullamento del provvedimento qui
censurato: una sorta di clausola sospensiva del procedimento, o di definizione

impugnazioni.

3. Nel tentativo dì accreditare la legittimità del proprio agire, il Tribunale ha
sostanzialmente enunciato tre assunti, in stretto collegamento tra loro. Il primo è
che, nel procedimento di rinvio, il giudice procedente agisce con gli stessi poteri
che aveva il giudice responsabile del provvedimento annullato, salvo l’obbligo di
applicazione del principio di diritto enunciato in sede di legittimità. Il secondo è
che il giudice dell’appello cautelare avrebbe potere deliberante non solo riguardo
all’oggetto dell’impugnazione ma, quale responsabile della persistente attualità
delle condizioni legittimanti la restrizione

de libertate,

anche rispetto alla

legittimità della prosecuzione della cautela. Il terzo assunto, enunciato con
minore chiarezza, è che i motivi di gravame non circoscriverebbero il devolutum
in modo tassativo, dovendo estendersi la cognizione ai temi «intimamente
connessi» (si è aggiunto che nel caso di specie l’intima connessione tra tema del
profitto e rischio di recidiva sarebbe dimostrata da un passaggio della citata
sentenza n. 51151/2013).

3.1. La legge stabilisce testualmente che il giudice del rinvio decide con gli
stessi poteri che aveva il giudice la cui decisione sia stata oggetto di
annullamento, salvo l’obbligo di conformazione al principio di diritto
eventualmente enunciato dalla Corte di cassazione (comma 2 dell’art. 627
c.p.p.). Deve quindi convenirsi con la Difesa della parte privata allorquando
rileva che il Tribunale pistoiese, dopo l’annullamento della seconda sua ordinanza
sul provvedimento genetico del trattamento cautelare, era chiamato a svolgere
un ordinario giudizio di appello contro l’ordinanza applicativa della misura,
esercitando appieno i relativi poteri (sull’applicabilità del principio al
subprocedimento cautelare, ad esempio, Sez. 6, Sentenza n. 4536 del
31/01/2012, rv. 251870).

13

sotto condizione, irriducibile ad ogni schema legale concernente il diritto delle

Per altro, prima di affrontare il tema della consistenza effettiva dei poteri
indicati, pare opportuno notare che la sequenza tra giudizio rescindente e fase
rescissoria non può comunque giudicarsi irrilevante. L’obbligo di adeguamento al
principio di diritto costituisce chiara implicazione della continuità di oggetto del
giudizio. Tale oggetto – nonostante il necessario coordinamento con le esigenze
di permanente verifica della legittimità dello status cautelare – non può essere
completamente ribaltato, ché, altrimenti, verrebbe meno la stessa effettività del
potere di sindacato attribuito al giudice di legittimità. D’altra parte, la già citata

la portata del principio di preclusione, che garantisce com’è noto l’effettività del
contraddittorio e la preminenza del deliberato del giudice di grado superiore. Non
a caso, si è stabilito in giurisprudenza che «nel giudizio cautelare di rinvio non
possono essere dedotte dalle parti né rilevate d’ufficio per la prima volta cause di
inutilizzabilità o di nullità concernenti atti formati nelle fasi anteriori del
procedimento, atteso che la sentenza della Corte di cassazione, da cui origina il
giudizio stesso, determina una preclusione con riguardo a tutte le questioni non
attinte dalla decisione di annullamento» (Sez. 6, Sentenza n. 47564 del
14/11/2013, rv. 257470; in senso analogo Sez. 2, Sentenza n. 15757 del
01/04/2011, rv. 249939).
I rilievi che precedono pongono in evidenza una implicazione perfettamente
coincidente con la fisionomia tipica del giudizio di gravame (del quale la sentenza
di annullamento impone la ripetizione), e cioè che lo scorrere delle fasi
processuali non comporta mai, in nessun caso, il cambiamento di oggetto della
procedura, ed in particolare l’abbandono dei punti delle decisioni cui si riferiscono
le censure poste ad oggetto degli atti di impugnazione. Su quei punti potranno
eventualmente esercitare influsso fattori di carattere sopravvenuto, come ad
esempio un mutamento della legislazione, ma ciò non esclude che gli stessi
debbano essere definiti, sia pure, ed appunto, riscontrando la sopravvenuta
ininfluenza della questione originaria.

3.2. Come anticipato, la stabilità di oggetto costituisce anche la caratteristica
del giudizio cautelare di appello, a prescindere dal carattere primario o reiterato
della relativa celebrazione.
Il Tribunale richiama i termini di una questione fortemente dibattuta a
proposito del trattamento cautelare, cioè il raccordo possibile tra principi
fondamentali tutti rilevanti, come quello di costante attualità dei fattori di
legittimazione del provvedimento restrittivo e quelli di

ne bis in idem,

preclusione, devoluzione. La questione è stata per altro da lungo tempo risolta,

14

necessità di coordinamento non può scardinare, nel subprocedimento cautelare,

almeno nei suoi termini essenziali, e non certo nel senso di fatto accreditato dal
Tribunale.
In particolare si è stabilito che il principio di necessaria attualità delle
condizioni legittimanti la cautela – primariamente garantito dalla possibilità di
costante reiterazione delle istanze

de libertate

(senza che il principio di

preclusione ne paralizzi l’ammissibilità, in presenza di fattori sopravvenuti) consente alle parti processuali di riversare il

novum,

ove lo ritengano

conveniente, anche nell’eventuale giudizio impugnatorio in corso. Ciò comporta

hanno a suo tempo inteso risolvere secondo un criterio di improcedibilità della
domanda presentata per seconda (Sez. U, Sentenza n. 18339 del 31/03/2004,
Donelli, rv. 227357 e 227358). Qui rileva, soprattutto, il limite logico e giuridico
posto alla “libertà” di scelta della sede nella quale riversare gli elementi
sopravvenuti che, a giudizio della parte, dovrebbero orientare la decisione
cautelare. In particolare, la sede del giudizio impugnatorio può essere
privilegiata a patto che il novum si inserisca nel perimetro decisorio segnato dal
devolutum, e cioè nell’ambito dell’oggetto circoscritto per il giudizio medesimo,
e sempreché venga in concreto garantito alla parte avversa il diritto al
contraddittorio. La ragione è evidente, e risiede proprio nella necessità di non
sfigurare l’oggetto e la fisionomia del procedimento di gravame (sul limite del
devoluto quale fattore condizionante l’acquisizione di nuovi elementi nel giudizio
di appello cautelare, a parte la già citata decisione delle Sezioni unite, si possono
citare, tra le molte, Sez. 2, Sentenza n. 12245 del 14/02/2013, rv. 255539;
Sez. 4, Sentenza n. 40906 del 23/09/2008, rv. 241330; Sez. 1, Sentenza n.
26299 del 23/06/2006, rv. 235017; Sez. 2, Sentenza n. 6728 del 09/02/2006,
rv. 233159).
Dunque, occorre distinguere tra variazione della base cognitiva, sempre
consentita (alle condizioni anzidette), e mutamento di oggetto del giudizio
impugnatorio, inteso come abbandono del thema decidendum segnato dai motivi
e introduzione di nuovi punti per la decisione del trattamento cautelare, che deve
in linea di massima ritenersi preclusa. La stessa valutazione di attualità delle
esigenze di cautela, che la giurisprudenza riferisce talvolta espressamente al
giudice dell’appello (Sez. 6, Sentenza n. 19008 del 17/04/2012, rv. 252874), è
connessa all’immanenza del tema nel relativo procedimento («pur nel rispetto di
quanto devoluto»), e non può essere surrettiziamente evocata attraverso
l’irrituale proposizione di domande estranee all’oggetto del giudizio, a maggior
ragione quando si pretenda di farne discendere, come nella specie, il completo
abbandono dei temi originari e l’elusione, in sostanza, dell’impulso a correggere
che scaturisce dal giudizio di legittimità.
15

9-)

(9–

per inciso un problema di duplicazione, che le Sezioni unite di questa Corte

È appena il caso di dire, naturalmente, che il sistema consente ugualmente la
più pronta reazione al mutamento delle condizioni e delle esigenze che
legittimano il trattamento cautelare, la quale consiste nella domanda di revoca
rivolta al giudice della cautela, cioè al giudice che procede. Il problema non è,
come sembrano ritenere il Tribunale procedente e la Difesa della Società,
l’effettività del principio stabilito all’art. 50 del d.lgs. n. 50/2001, che estende
alle persone giuridiche il requisito di perdurante attualità delle esigenze
assicurate mediante la cautela. Il problema è solo quello della sede in cui le

della relativa domanda.
La giurisprudenza citata nel provvedimento qui impugnato – che attiene ai
presupposti per l’applicazione di un provvedimento cautelare negato, nell’an o
nel quomodo, dal giudice di prime cure – non è risolutiva. Infatti, quando si
tratta – a seguito dell’impugnazione del pubblico ministero – di disporre una
limitazione della libertà personale o patrimoniale, superando un argomento
giudicato preclusivo nel grado antecedente del giudizio, si impone la verifica ad
ampio raggio delle condizioni legittimanti. Si avrebbe altrimenti il paradosso di
un effetto di accertamento e addirittura di consolidamento delle condizioni non
valutate, o valutate solo incidentalmente, dal giudice della (negata) cautela.
Questo pare il senso della giurisprudenza invocata (Sez. 6, Sentenza n. 6592 del
25/01/2013, rv. 254578; Sez. 6, Sentenza n. 35786 del 21/06/2012, rv.
254392), non potendosene al contrario desumere, secondo il Collegio, la
sostanziale vanificazione dei limiti del devolutum, in particolare quando il giudice
dell’appello cautelare non è richiesto di assumere ex novo un provvedimento di
restrizione.

3.3. Va ricordato, a tale ultimo proposito, che all’esito di un doppio
annullamento con rinvio il Tribunale di Pistoia deve ancora valutare la domanda
difensiva di annullamento della misura cautelare applicata dal Giudice per le
indagini preliminari, tenendo conto che il primo provvedimento rescindente
aveva censurato la carenza di motivazione dell’ordinanza confermativa in punto
di sussistenza dei gravi indizi, e che il secondo aveva censurato l’assunto della
mancanza di quegli indizi, relativamente alla rilevanza del profitto, imponendo
che il Tribunale rivalutasse il punto alla luce di una corretta ricostruzione della
fattispecie legale.
è vero che nella seconda sentenza di annullamento si legge uno stringato
apprezzamento, quale non meglio definita «violazione di legge», circa l’omessa
considerazione nel merito del carattere programmatico del ricorso alla corruzione
nell’ambito dei criteri gestionali della società, e che tale questione sembra avere
16

variazioni possono essere rappresentate, con efficacia eventualmente immediata

una ragionevole attinenza al solo tema delle esigenze cautelari. Secondo il
Tribunale, il rilievo della Corte avrebbe in sostanza ampliato il

devolutum,

estendendolo appunto al tema delle esigenze cautelar’ e dunque della loro
attualità.
L’affermazione, nei suoi termini generali formali, è senz’altro ingiustificata.
Non è il giudice a determinare l’effetto devolutivo dell’impugnazione, poiché gli
spetta in proposito la mera ricognizione delle deduzioni svolte con gli atti di
impugnazione. D’altra parte – se è vero che una misura cautelare non può

condizioni legittimanti – va in ogni caso escluso che la regola in questione
consenta un ribaltamento della procedura tale che ciascuno dei profili posti in
discussione lungo l’intero corso del giudizio perda qualunque rilievo.
Scopo del giudizio di rinvio, nel caso di specie, avrebbe dovuto essere e sarà,
in primo luogo, l’eliminazione del vizio determinatosi per l’erronea individuazione
degli elementi di fattispecie (avuto in particolare riguardo al concetto di profitto
rilevante), verificando se la misura cautelare applicata si legittimasse (e, per
quanto possa occorrere, si legittimi) in base alla corretta nozione indicata dal
giudice di legittimità.
Il tema delle esigenze cautelari avrebbe potuto e potrà assumere rilievo nei
soli limiti indicati, e cioè a fini di eventuale giustificazione della ripresa attuale ed
effettiva dell’inibitoria connessa alla misura applicata.

4. Riguardo a quanto appena si è detto circa l’attualità delle esigenze cautelari,
va escluso il fondamento della tesi propugnata dal ricorrente, secondo cui, nel
procedimento contro gli enti, il legislatore avrebbe introdotto ed ammesso solo
una modalità tipica di eliminazione del rischio di recidiva, e cioè l’attuazione delle
misure indicate all’art. 17 del d.lgs. n. 231/2001.
La tesi è sostanzialmente contraddetta dal tenore letterale del comma 1
dell’art. 50 del decreto, che pone in alternativa, quali fattori di revoca della
misura applicata, l’effettuazione degli adempimenti in questione e la mancanza
sopravvenuta delle condizioni indicate al precedente art. 45, tra le quali è
compreso il rischio di recidiva. La cessazione di tale rischio (ed a maggior
ragione la sua attenuazione) può quindi essere determinata anche da
comportamenti non conformi al “modello” tracciato con la previsione dell’art. 17,
e con il connesso meccanismo di sospensione del trattamento cautelare.
Se è vero che il sistema conferirebbe maggiore efficacia incentivante ai
meccanismi riparatori, ove condizionasse la revoca della misura alla loro piena
attuazione, è anche vero che una tale disciplina contrasterebbe con i principi
generali, ed in particolare con la necessità che il trattamento cautelare, in attesa
17

oul

essere applicata ex novo o ripristinata se non previa verifica dell’attualità delle

dell’accertamento definitivo di responsabilità, sia subordinato all’urgenza della
sua applicazione e dei suoi effetti inibitori: un principio del quale l’art. 50 del
decreto costituisce il precipitato sullo specifico terreno della responsabilità da
reato degli enti. L’incentivazione degli adempimenti indicati all’art. 17 è affidata
solo in parte, del resto, all’effetto di sospensione che può derivarne in merito
all’applicazione del trattamento cautelare, trattandosi anche e soprattutto, per
l’ente interessato, di prevenire (con azione necessariamente preventiva)
l’irrogazione delle sanzioni interdittive in caso di affermazione della

Naturalmente, l’automatismo che la legge instaura tra effettuazione degli
adempimenti e rinuncia alla cautela non si riproduce quando l’attenuazione od
esclusione del rischio di recidiva debbano essere desunte da fattori diversi. Può
aggiungersi – si tratta di considerazioni che di volta in volta dovranno effettuarsi
sul piano del fatto – che la rilevanza di fattori alternativi, specie quando gli stessi
vengano proposti in luogo d’una piena e leale adesione al modello riparativo
delineato dalla legge, dovrà essere attentamente valutata nel suo significato di
effettiva, concreta e verificata eliminazione del rischio di recidiva.
Ma non può teorizzarsi, come appena si è detto, che ogni e qualsiasi fattore
diverso dal puntuale adempimento delle procedure sia irrilevante per
presunzione legale ed assoluta. vero che l’art. 49, comma 3, stabilisce
senz’altro che il giudice ripristini la misura cautelare in caso di adempimento
intempestivo od incompleto. Ma la previsione attiene com’è ovvio al
subprocedimento di sospensione, caratterizzato da una propria logica e da una
propria autonomia, e non si estende a neutralizzare il senso inequivoco della
regola posta all’articolo seguente: si intende, dunque, che la misura deve essere
«ripristinata» sempreché il giudice, in accoglimento di una istanza di «revoca»
od anche d’ufficio, non ritenga che il trattamento non trovi ulteriore
legittimazione nelle condizioni di fatto sulle quali dovrebbe produrre in concreto i
suoi effetti.

5. Il provvedimento impugnato è illegittimo anche per il

non liquet

sostanzialmente attuato riguardo all’appello contro l’ordinanza di ripristino della
misura cautelare deliberata, dal Giudice per le indagini preliminari, a mente
dell’art. 49, comma 3, del d.lgs. n. 231/2001.
Come poco sopra si è detto, la procedura di sospensione esprime una sua
logica e presenta una marcata autonomia nell’ambito del subprocedimento
cautelare, tanto che il legislatore ha richiesto, per garantire la serietà
dell’impegno a realizzare gli adempimenti dell’art. 17, il versamento di una

18

0\21

uJ2-

responsabilità.

idonea cauzione, ed ha stabilito che detta cauzione venga incamerata dall’Erario
quando l’impegno stesso non risulta onorato dall’ente richiedente.
Una volta aperta, la procedura deve essere definita, non foss’altro per le
conseguenze che si determinano in merito alla restituzione od all’acquisizione del
denaro versato a titolo di cauzione. Se nel momento dell’ipotetico ripristino la
legittimazione della cautela risulta venuta meno, per ragioni diverse
dall’integrazione della fattispecie estintiva, ciò non implica che la garanzia
patrimoniale non debba operare. Si noti che, attraverso l’accoglimento della sua

un rilevante vantaggio di fatto, non altrimenti acquisibile, e cioè paralizza,
almeno momentaneamente, l’effetto inibitorio della misura applicata. È quindi del
tutto logico che la garanzia venga attuata a prescindere dalle vicende
indipendenti che, in ipotesi, potrebbero produrre un effetto di delegittimazione
della misura, ed in particolare dalla ipotizzata e solo sopravvenuta cessazione
delle esigenze cautelari originariamente individuate dal giudice.
Il giudice della cautela deve dunque definire la procedura, verificando
tempestività e completezza degli adempimenti, e disponendo comunque, per il
caso di esito negativo dell’accertamento, la devoluzione alla Cassa delle
ammende della cauzione prestata. Nello stesso caso, chiamato ad assumere la
decisione di ripristino della cautela sospesa, lo stesso giudice potrà anche
d’ufficio rilevare, ove ne sussistano i motivi, la sopravvenuta insussistenza delle
condizioni che devono permanentemente sorreggere, a norma dell’art. 50 del
d.lgs. n. 231/2001, la restrizione cautelare della libertà.
Per le stesse ragioni, e per tornare al caso di specie, il Giudice dell’appello
cautelare avrebbe dovuto comunque definire l’impugnazione concernente gli
adempimenti riparatori ed il ripristino della misura sospesa, restando irrilevante,
a questi fini, l’esito della valutazione in punto di perdurante attualità delle
esigenze di cautela, necessaria solo per il caso di parzialità o inefficacia delle
misure adottate. Ciò, a maggior ragione, considerando che

Da-

il Tribunale, per

effetto del percorso adottato, non ha messo in discussione né la legittimità della
misura iniziale né l’incompletezza e l’inefficacia ex art. 17 delle misure riparatorie
poste in atto nel caso concreto.

6. Resta solo da aggiungere, a fini di chiarimento dei limiti posti dalla presente.
decisione di annullamento alla valutazione del giudice di rinvio, che questa Corte
non interloquisce, neppure sotto il profilo della razionalità e della congruenza, sui
rilievi che il Pubblico ministero ricorrente ha inteso sviluppare nell’atto di
impugnazione, e che sono stati oggetto di sintesi ai paragrafi da 3.3. a 3.8 del
Ritenuto.

19

Q197

Ws2:—.

domanda di sospensione, l’ente assoggettato al procedimento ottiene comunque

Come osservato dalla Difesa della parte privata, infatti, l’art. 52 del d.lgs. n.
231/2001 limita il ricorso per cassazione, contro i provvedimenti emessi dal
giudice dell’appello cautelare, al solo vizio della violazione di legge. I rilievi in
questione, quand’anche fossero fondati, atterrebbero comunque alla completezza
ed alla coerenza della motivazione, ma non alla sua stessa esistenza, neppure se
dell’assenza di motivazione fosse adottata una nozione estesa, tesa a
comprendere casi nei quali non faccia difetto una qualche argomentazione, e
però la stessa risulti inidonea a svelare il ragionamento sotteso al provvedimento

definirsi censurabile, ma non certo oscura.

P.Q.M.

Annulla l’ordinanza impugnata e rinvia per nuovo giudizio al Tribunale di Pistoia.

Così deciso il 18/11/2014.

impugnato. La logica seguita dal Tribunale, nel caso di specie, potrebbe al più

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