Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 18620 del 19/01/2017


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Penale Sent. Sez. U Num. 18620 Anno 2017
Presidente: CANZIO GIOVANNI
Relatore: DE CRESCIENZO UGO

SENTENZA

sul ricorso proposto da
Patalano Antonio, nato a Formia il 19/10/1964

avverso la sentenza del 28/11/2014 della Corte di appello di Roma

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal componente Ugo De Crescienzo;
udito il Pubblico Ministero, in persona dell’Avvocato generale Agnello Rossi,
che ha concluso chiedendo l’annullamento senza rinvio della sentenza
impugnata;
udito il difensore del ricorrente, avv. Vincenzo Macari, che ha concluso per
raccoglimento del ricorso.

Data Udienza: 19/01/2017

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 28 novembre 2014, la Corte di appello di Roma, in
accoglimento dell’appello del Pubblico Ministero e in riforma della sentenza
assolutoria pronunciata a seguito di giudizio abbreviato dal Tribunale di Latina,
ha dichiarato Antonio Patalano responsabile delle condotte di usura in danno di
Salvatore Pierini, contestate ai capi 49 e 50 del capo di imputazione e lo ha
condannato alla pena sospesa di un anno e sei mesi di reclusione ed euro 4.200
di multa, oltre al risarcimento dei danni in favore della parte civile, nella misura

Il Tribunale aveva assolto il Patalano con la formula perché “il fatto non
sussiste” ritenendo insufficiente la prova circa la commissione del fatto usurario.
Il Tribunale poneva in evidenza come la consulenza tecnico-contabile
disposta dal pubblico ministero avesse evidenziato difficoltà nell’accertamento
dei fatti, derivante dall’assenza di riferimenti precisi relativi sia al capitale
erogato o promesso sia alla riconducibilità di tutte le operazioni all’imputato, così
pervenendo ad un giudizio assolutorio sull’assunto che le dichiarazioni rese dalla
persona offesa fossero rimaste “vaghe o poco utilizzabili”, soprattutto in
relazione alla reale entità dell’interesse praticato, indicato all’interno di una
forbice ricompresa tra il 10 e il 20 per cento rispetto al capitale.

2. Proponeva appello il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di
Latina, deducendo la coerente valenza probatoria e precisione delle dichiarazioni
della persona offesa e della consulenza tecnica, anche alla luce del supplemento
di indagini, e chiedendo pertanto la condanna dell’imputato.

3. All’esito del dibattimento, la Corte di appello, senza procedere alla
rinnovazione della istruttoria dibattimentale, pure inizialmente disposta, ha
ritenuto raggiunta la prova della colpevolezza dell’imputato, sulla base dello
stesso materiale probatorio esaminato dal giudice di primo grado, diversamente
valutato in punto di attendibilità della persona offesa e di coerenza della
consulenza tecnico-contabile, e ha pronunciato condanna dell’imputato per i fatti
di cui ai capi 49 e 50.

4. Avverso tale decisione ha proposto ricorso per cassazione, tramite il
difensore, l’imputato che chiede l’annullamento della sentenza impugnata sulla
base dei seguenti motivi:
a) vizio di motivazione e travisamento della prova, con riferimento in
particolare alle dichiarazioni della persona offesa;

2

da liquidarsi in separato giudizio.

b) violazione del diritto di difesa, in relazione alla revoca delle precedenti
ordinanze della Corte di appello, che disponevano la rinnovazione della istruzione
dibattimentale.

5. Il ricorrente ha depositato motivi aggiunti con i quali, richiamando la
decisione della Sezioni Unite n. 27620 del 2016, Dasgupta, censurava il fatto che
fosse stata operata una radicale reformatio in peius della sentenza di primo
grado sulla base di una diversa valutazione delle dichiarazioni della parte offesa,
senza procedere alla assunzione diretta della testimonianza, così violando

3, lett. d, CEDU).

6. Il difensore della parte civile ha depositato memoria con la quale ha
chiesto il rigetto del ricorso sul rilievo che la motivazione del giudice di appello
era esaustiva anche in ordine al diniego della rinnovazione istruttoria.

7. La Seconda Sezione penale, con ordinanza in data 28 ottobre-9 novembre
2016, ha rimesso il ricorso alle Sezioni Unite, rilevando l’esistenza di un
contrasto interpretativo sulla questione dell’applicabilità, anche al procedimento
con rito abbreviato non condizionato, dell’obbligo del giudice di appello – che
ritenga di dover optare per un diverso apprezzamento della prova orale, stimata
inattendibile dal primo giudice – di disporre la rinnovazione dell’istruttoria
dibattimentale per escutere nuovamente la fonte dichiarativa.
7.1. Secondo il primo indirizzo espresso dalle recenti Sezioni unite Dasgupta
la previsione contenuta nell’art. 6, par. 3, lett. d), CEDU, relativa al diritto
dell’imputato di esaminare o fare esaminare i testimoni a carico ed ottenere la
convocazione e l’esame dei testimoni a discarico, come definito dalla
giurisprudenza consolidata della Corte EDU, implica che il giudice di appello,
investito dell’impugnazione del pubblico ministero avverso la sentenza di
assoluzione di primo grado, anche se emessa all’esito del giudizio abbreviato,
con cui si adduca una erronea valutazione delle prove dichiarative, non potrebbe
riformare la sentenza impugnata, affermando la responsabilità penale
dell’imputato, senza aver proceduto, anche d’ufficio, ai sensi dell’art. 603,
comma 3, cod. proc. pen., a rinnovare l’istruzione dibattimentale attraverso
l’esame dei soggetti che abbiano reso dichiarazioni sui fatti del processo, ritenute
decisive ai fini del giudizio assolutorio di primo grado.
7.2. Alla luce dell’orientamento contrapposto, condiviso dal Collegio
rimettente, già affermatosi prima della pronuncia delle Sezioni Unite Dasgupta e
convalidato in data successiva da Sez. 3, con sentenza n. 43242 del 12/07/2016,

3

l’obbligo sancito dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo (art. 6, par. 1 e

C.M., Rv. 277626, nel rito abbreviato non condizionato, il giudice di appello, che
sulla base di un diverso apprezzamento degli apporti dichiarativi assunti in sede
di indagini intenda riformare l’assoluzione pronunciata in primo grado, non è
obbligato a rinnovare l’istruttoria mediante l’esame dei dichiaranti, fermo
restando il dovere di fornire una motivazione “rafforzata” e fatta comunque salva
la scelta di incrementare il compendio probatorio con l’audizione dei dichiaranti,
qualora lo reputi necessario per superare, nel caso concreto, ogni ragionevole
dubbio.

generale della Corte di cassazione, il quale, premessa la condivisione dei
fondamentali principi di diritto enunciati nella sentenza Dasgupta, esprime
perplessità sul passo nnotivazionale «nel quale si adombra l’automatica
estensibilità dei principi di diritto elaborati per il rito ordinario al caso di una
assoluzione seguita da condanna in appello nell’ambito del giudizio abbreviato
non condizionato», proponendo una lettura di tale passaggio come sottolineatura
della non di rado “necessaria”, ma non obbligata, estensione delle modalità
operative enunciate dalla sentenza Dasgupta anche alla diversa sfera del giudizio
abbreviato non condizionato.
Osserva l’Avvocato generale che nel giudizio abbreviato non condizionato la
prova dichiarativa non è stata raccolta in forma orale, immediata e nel
contraddittorio delle parti, ma solo valutata ex actis dal giudice di primo grado
che ha pronunciato l’assoluzione; sicché non ricorrono le ragioni fondanti della
regola di “simmetria operativa”, enunciata dalle Sezioni Unite Dasgupta, in
assenza di dati normativi e sistematici indicativi del fatto che l’obbligo di
motivazione rafforzata debba essere obbligatoriamente assolto attraverso
l’effettuazione di una istruttoria dibattimentale, inesistente nel giudizio di primo
grado, con l’assunzione per la prima volta in appello di una prova dichiarativa
decisiva.

9. In data 30 dicembre 2016 è stata depositata memoria difensiva da parte
del difensore dell’imputato, il quale sollecita una risposta al quesito di diritto
manifestando adesione alla posizione espressa dalla sentenza Dasgupta,
ravvisata come unica interpretazione costituzionalmente orientata del disposto di
cui all’art. 603 cod. proc. pen., in relazione agli artt. 24 e 111 della Costituzione.

10. Sono state depositate memorie difensive nell’interesse della parte civile,
con le quali si è sostenuto, in conformità alle conclusioni dell’Avvocato generale,
che il giudice di appello nella fattispecie in esame non era obbligato a procedere

4

8. In data 14 dicembre 2016, è stata depositata memoria dell’Avvocato

all’assunzione diretta dei dichiaranti su fatti ritenuti decisivi per il giudizio
assolutorio, concludendo per la conferma della sentenza di condanna.

11. Con decreto del 14 novembre 2016 il Primo Presidente ha assegnato il
ricorso alle Sezioni Unite, fissando per la trattazione l’odierna udienza pubblica.

CONSIDERATO IN DIRITTO

“Se, nel caso di appello del pubblico ministero contro una sentenza di
proscioglimento emessa all’esito del giudizio abbreviato per motivi attinenti alla
valutazione della prova dichiarativa ritenuta decisiva, il giudice di appello che
riforma la sentenza impugnata debba avere precedentemente assunto l’esame
delle persone che hanno reso tali dichiarazioni”.

2. Nel caso in esame non è in discussione il principio di diritto enunciato
dalle Sezioni Unite con la recente sentenza n. 27620 del 28/04/2016, Dasgupta,
secondo il quale la previsione contenuta nell’art. 6, par. 3, lett.

d), CEDU,

preclude in appello il ribaltamento di una sentenza di assoluzione senza una
rinnovazione, anche di ufficio, dell’istruttoria dibattimentale attraverso l’esame
dei soggetti che abbiano reso dichiarazioni sui fatti del processo ritenute decisive
ai fini del giudizio assolutorio di primo grado.
Non è neanche in discussione il principio per cui l’affermazione di
responsabilità dell’imputato in appello in assenza della suddetta rinnovazione,
integra un vizio di motivazione ex art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen.,
per mancato rispetto del canone di giudizio “al di là di ogni ragionevole dubbio”
di cui all’art. 533, comma 1, cod. proc. pen.
L’oggetto del contrasto riguarda, invece, la trasposizione di tali principi al
giudizio abbreviato non condizionato.

3. Nel caso Dasgupta le Sezioni Unite hanno affermato che il generale
obbligo di rinnovazione istruttoria, delineato con principale riguardo all’appello
seguente a giudizio dibattimentale, deve trovare spazio anche a fronte
dell’impugnazione dell’accusa avverso una sentenza assolutoria pronunciata a
seguito di un giudizio abbreviato, ove questa sia basata sulla valutazione di
prove dichiarative ritenute decisive dal primo giudice ed il cui valore sia stato
posto in discussione dal pubblico ministero appellante. In tale caso, il giudice di
appello deve porre in essere i poteri di integrazione probatoria adottabili anche
in questo speciale rito (ex Corte cost., sent. n. 470 del 1991) ed è irrilevante che

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1. La questione rimessa alle Sezioni Unite può essere così enunciata:

gli apporti dichiarativi siano stati tratti in primo grado solo da atti di indagine o
da integrazioni probatorie a norma degli artt. 438, comma 5, o 441, comma 5,
cod. proc. pen.
Le Sezioni Unite hanno avuto cura di sottolineare che il dovere del giudice di
appello, in vista di un ribaltamento del proscioglimento in condanna, di
rinnovare, anche d’ufficio, l’esame delle fonti di prova dichiarative ritenute
decisive in primo grado discende non tanto e non solo dalla necessità di una
interpretazione adeguatrice rispetto ai principi della CEDU, come espressi dalla
Corte di Strasburgo, nna, prima ancora, dal rispetto del criterio “generalissimo”

ispiratore della decisione del giudice penale, che implica l’obbligo di escludere
che possa reputarsi superato il dubbio ogniqualvolta, di fronte ad una diversa
valutazione della prova dichiarativa che conduca ad un risultato peggiorativo nei
confronti dell’imputato, il giudice di appello non abbia provveduto, in attuazione
dei canoni di oralità e immediatezza, alla rinnovazione della istruttoria
dibattinnentale dinanzi a sé, nei casi di difforme valutazione delle dichiarazioni
ritenute decisive dal primo giudice ai fini dell’assoluzione.
Risulta chiara la stretta correlazione tra il dovere di motivazione rafforzata
da parte del giudice della impugnazione in caso di dissenso rispetto alla decisione
di primo grado, il canone “al di là di ogni ragionevole dubbio”, il dovere di
rinnovazione della istruzione dibattimentale e i limiti alla reformatio in peius.
In questa prospettiva è stata sostenuta, quale logica conseguenza del
percorso ermeneutico sopra indicato, l’applicabilità di tali principi anche nel caso
di impugnazione del pubblico ministero contro una pronuncia di assoluzione
emessa nell’ambito del giudizio abbreviato, ove questa sia basata sulla
valutazione di prove dichiarative ritenute decisive dal primo giudice e il cui valore
sia posto in discussione dall’organo dell’accusa impugnante.
Alla inequivoca presa di posizione delle Sezioni unite Dasgupta si oppone
altro orientamento, sia precedente (v. Sez. 2, n. 33690 del 23/05/2014, De
Silva, Rv. 260147; Sez. 2, n. 40254 del 12/06/2014, Avallone, Rv. 260442; Sez.
2, n. 32655 del 15/07/2014, Zanoni, Rv. 261851; Sez. 3, n. 11658 del
24/02/2015, P, Rv. 262985; Sez. 3, n. 38786 del 23/06/ 2015, U., Rv. 264793)
sia successivo (Sez. 3, n. 43242 del 12/07/2016, C., Rv. 267626), che afferma,
invece, che il giudice di appello, qualora il primo grado si sia svolto con rito
abbreviato non condizionato, non è tenuto alla rinnovazione dell’istruzione.
La sentenza Sez. 3 n. 43242 del 2016 si confronta con il passaggio
contenuto nella Dasgupta circa l’obbligo di rinnovazione istruttoria anche in sede
di giudizio abbreviato d’appello, osservando innanzi tutto che il caso esaminato
dalle Sezioni Unite era stato trattato, nel merito, con l’ordinario rito
dibattinnentale; di modo che doveva essere qualificata come

6

obiter dictum

(\’

l’affermata estensione del dovere di rinnovazione della prova dichiarativa anche
all’ambito del giudizio d’appello abbreviato non condizionato.
Un obiter dictum – secondo la Terza Sezione – non coerente con il
ragionamento delle Sezioni Unite, dal momento che il dovere di riascolto in
contraddittorio del dichiarante, sintonico con le forme del rito ordinario, doveva
ritenersi invece dissonante rispetto al rito abbreviato non condizionato: essendo
illogico obbligare il giudice di appello a ricondurre nei canoni propri di un giudizio
dibattimentale il rito speciale attraverso un contatto diretto con la fonte della
prova dichiarativa che il giudice di primo grado non ha avuto per espressa scelta

L’argomento adoperato dalle Sezioni Unite per superare la contraddizione e cioè l’assunto per cui il dovere di attivare l’ascolto diretto del dichiarante non
deriva tanto da un obbligo convenzionale, essendo piuttosto la conseguenza del
canone “generalissimo” del necessario superamento del “ragionevole dubbio” – è
giudicato non risolutivo, perché “proverebbe troppo”.
Se per condannare in rito abbreviato occorresse l’acquisizione orale della
prova, ciò verrebbe a essere necessario anche in primo grado, tranne nell’ipotesi
in cui la sentenza sia assolutoria, demolendo così la struttura del rito, pur
mantenendone una conseguenza in termini sanzionatori che più non avrebbe
logica premiale.
Né la negoziazione della verità giuridica come esercizio di un potere
dispositivo sulle modalità per pervenirvi è riconducibile a una criticità
costituzionale, costituendo, come si evince dalla giurisprudenza della Corte
costituzionale, una forma peculiare di esercizio del diritto di difesa, rimessa alla
scelta del titolare del diritto, il cui carattere di libertà è, dalla legge 8 agosto
1995, n. 332 in poi, particolarmente elevato perché non condizionabile dagli altri
soggetti processuali.
Secondo la Terza Sezione, è da escludere un dovere di “decartolarizzazione”
in capo al giudice d’appello nel rito abbreviato, da adempiersi per legittimare una
reformatio in peius, laddove i limiti della “cartolarizzazione” possono essere già
fronteggiati su impulso dell’imputato con la species del rito condizionato ad
integrazione probatoria, conservando comunque il giudice di appello nel rito
abbreviato il potere – non l’obbligo -, se lo ritiene assolutamente necessario ai
fini decisori, di assumere d’ufficio nuove prove o riassumere prove già acquisite
agli atti.

4. Ritengono le Sezioni Unite di confermare l’orientamento già espresso con
la sentenza Dasgupta, che ha esteso anche al giudizio abbreviato la regola in
base alla quale, se il pubblico ministero propone appello verso una sentenza di

7

dello stesso imputato.

proscioglinnento per motivi relativi alla valutazione della prova dichiarativa, il
giudice di appello deve disporre la rinnovazione dell’esame dei dichiaranti.

5. La conclusione rappresenta il convincente approdo interpretativo della
elaborazione giurisprudenziale sul canone “oltre ogni ragionevole dubbio”,
inserito nel comma 1 dell’art. 533 cod. proc. pen. dalla legge 20 febbraio 2006,
n. 46, ma già individuato in precedenza dalla giurisprudenza quale inderogabile
regola di giudizio.
La sentenza Dasgupta fa perno su detta regola di giudizio, che assume veste

principio costituzionale della presunzione di innocenza.
Di questo fondamentale principio di civiltà, cardine dei moderni ordinamenti
processuali, era già permeata la giurisprudenza di legittimità prima che la regola
fosse formalizzata nel 2006 (v. la netta affermazione sul punto in Sez. U, n.
30328 del 10/07/2002, Franzese, Rv. 222139) e prima ancora delle decisioni
della Corte EDU sul tema della reformatio in peius.
Attraverso tale elaborazione, si è evidenziato che il canone “oltre ogni
ragionevole dubbio” pretende che, in mancanza di elementi sopravvenuti,
l’eventuale rivisitazione in senso peggiorativo compiuta in appello sia sorretta da
argomenti dirimenti e tali da evidenziare oggettive carenze od insufficienze della
decisione assolutoria, che deve, quindi, rivelarsi, a fronte di quella riformatrice,
non più sostenibile, neppure nel senso di lasciare aperti residui ragionevoli dubbi
sull’affermazione di colpevolezza.
Ciò significa, come evidenziato nella sentenza Dasgupta, che per riformare
un’assoluzione non basta una diversa valutazione di pari plausibilità rispetto alla
lettura del primo giudice, occorrendo invece “una forza persuasiva superiore”,
capace, appunto, di far cadere ogni ragionevole dubbio, perché, mentre la
condanna presuppone la certezza della colpevolezza, l’assoluzione non
presuppone la certezza dell’innocenza, bensì la mera non certezza della
colpevolezza.

6. La regola “oltre ogni ragionevole dubbio” pretende dunque (ben al di là
della stereotipa affermazione del principio del libero convincimento del giudice)
percorsi epistemologicamente corretti, argonnentazioni motivate circa le opzioni
valutative della prova, giustificazione razionale della decisione,

standards

conclusivi di alta probabilità logica, dovendosi riconoscere che il diritto alla
prova, come espressione del diritto di difesa, estende il suo ambito fino a
comprendere il diritto delle parti ad una valutazione legale, completa e razionale
della prova.

8

di “criterio generalissimo” nel processo penale, direttamente collegato al

In questa prospettiva risulta chiara la stretta correlazione, dinamica e
strutturale, tra tale regola basilare e le coesistenti garanzie proprie del processo
penale: presunzione di innocenza dell’imputato, onere della prova a carico
esclusivo dell’accusa, obbligo di motivazione delle decisioni giudiziarie e
giustificazione razionale delle stesse.

7. Tali coordinate regolatrici del giusto processo sono state assunte a
fondamentale criterio ispiratore della decisione delle Sezioni Unite Dasgupta,
nella quale il riferimento a una “simmetria” operativa nell’assunzione e

ribaltamento del giudizio di assoluzione, la rinnovazione anche d’ufficio della
istruttoria dibattimentale attraverso l’esame dei soggetti che hanno reso
dichiarazioni decisive ai fini dell’assoluzione) è stato con ogni evidenza
rapportato al giudizio ordinario – con riguardo al quale è stata sottolineata
l’esigenza che il convincimento del giudice di appello, nei casi in cui sia in
questione il principio del ragionevole dubbio, replichi l’andamento del primo
giudizio, fondandosi su prove direttamente assunte – ed ha dunque parziale
rilievo ai fini del tema più generale del superamento del “ragionevole dubbio”.
L’assoluzione pronunciata dal giudice di primo grado travalica ogni pretesa
di simmetria. Essa, implicando l’esistenza di una base probatoria che induce
quantomeno il dubbio sulla effettiva valenza delle prove dichiarative, pretende
che si faccia ricorso al metodo di assunzione della prova epistennologicamente
più affidabile; sicché la eventuale rinuncia dell’imputato al contraddittorio nel
giudizio di primo grado non fa premio sulla esigenza di rispettare il valore
obiettivo di tale metodo ai fini del ribaltamento della decisione assolutoria.
Perché, insomma, l’overturning si concretizzi davvero in una motivazione
rafforzata, che raggiunga lo scopo del convincimento “oltre ogni ragionevole
dubbio”, non si può fare a meno dell’oralità nella riassunzione delle prove
rivelatesi decisive. La motivazione risulterebbe altrimenti affetta dal vizio di
aporia logica derivante dal fatto che il ribaltamento della pronuncia assolutoria,
operato sulla scorta di una valutazione cartolare del materiale probatorio a
disposizione del primo giudice, contiene in sé l’implicito dubbio ragionevole
determinato dall’avvenuta adozione di decisioni contrastanti.
Invero, anche nell’ambito del giudizio abbreviato l’imperativo della
motivazione rafforzata è destinato ad operare in tutta la sua ampiezza attraverso
l’effettuazione obbligatoria di una istruttoria – quantunque non espletata nel
giudizio di primo grado – e con l’assunzione per la prima volta in appello di una
prova dichiarativa decisiva.

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valutazione delle prove dichiarative decisive (in base alla quale è necessario, nel

L’esigenza di una giustificazione legale e razionale della decisione non può
infatti retrocedere di fronte ad una pretesa esigenza di automatica “simmetria”
operativa tra primo e secondo grado di giudizio (già confutata, proprio con
riferimento ai differenti poteri del giudice di appello rispetto a quello di primo
grado nell’ambito del giudizio abbreviato, da Sez. U, n. 930 del 13/12/1995,
dep. 1996, Clarke, Rv. 203427), perché lo scopo del giudizio, sia esso ordinario
o abbreviato, è, appunto, il superamento di “ogni ragionevole dubbio”.
E’ dunque il rispetto della decisione liberatoria che, rafforzando
significativamente la presunzione di innocenza, impone di riassumere le prove

formazione e valutazione della prova, caratterizzato dall’oralità e
dall’immediatezza attraverso l’apprezzamento diretto degli apporti probatori
dichiarativi, rivelatisi decisivi per il proscioglimento in primo grado, da parte di
un giudice di appello che avverta dubbi sul fatto che a un tale esito corrisponda
la giusta decisione.
Sarebbe infatti difficilmente comprensibile come, di fronte ad un risultato
dichiarativo cartolare, che caratterizza il giudizio abbreviato non condizionato, il
giudice di appello – al quale, come osservato dalla sentenza Dasgupta, non può
certo essere riconosciuta in termini ordinamentali una “autorevolezza maggiore”
rispetto a quello di primo grado, ma solo una diversa funzione – possa
pronunciare, in riforma di quella assolutoria, una sentenza di condanna
espressione del “giusto processo” e perciò “equa”, fondata solo sul rapporto
mediato che esso ha con le prove, senza il diretto esame delle fonti dichiarative.
Risulta evidentemente recessiva, rispetto a una simile evenienza, la
circostanza che sia stata l’opzione dell’imputato verso il giudizio abbreviato a
consentire il giudizio a suo carico allo stato degli atti, dovendo invece prevalere
l’esigenza di riassumere le prove decisive attraverso il metodo
epistemologicamente più appagante, quello orale ed immediato, che caratterizza
la formazione della prova nel modello accusatorio.

8. L’avvenuta “costituzionalizzazione del giusto processo” induce, inoltre, a
configurare il giudizio di appello che abbia ribaltato una sentenza assolutoria, pur
se a seguito del rito abbreviato, un “nuovo” giudizio, in cui il dubbio
sull’innocenza dell’imputato può essere superato, come già osservato, solo
impiegando il metodo migliore per la formazione della prova.
L’appello in tal caso non si risolve, infatti, in una mera sede di valutazione
critica, in fatto e in diritto, dei percorsi motivazionali del giudice di primo grado,
ma in un giudizio “asimmetrico” rispetto a quello di primo grado nel quale è
comunque necessaria un’integrazione probatoria, non più da considerare in

10

decisive impiegando il metodo che, incontestabilmente, è il migliore per la

termini di eccezionalità rispetto ad un primo grado di giudizio connotato dalla
presunzione di regolare esaustività dell’accertamento.

9. Quanto esposto vale tuttavia (sia per il giudizio ordinario che per il
giudizio abbreviato) nei casi in cui di differente “valutazione” del significato della
prova dichiarativa si possa effettivamente parlare: non perciò quando il
documento che tale prova riporta risulti semplicemente “travisato”, quando, cioè,
emerga che la lettura della prova sia affetta da errore “revocatorio”, per
omissione, invenzione o falsificazione.

non sul significato (sul documentato) e, perciò, non può sorgere alcuna esigenza
di rivalutazione di tale contenuto attraverso una nuova audizione del dichiarante.

10. Tirando le fila di quanto finora considerato, deve affermarsi che un
accertamento cartolare in grado di appello a seguito di impugnazione del
pubblico ministero di sentenza di proscioglimento è incompatibile con il
superamento del limite del “ragionevole dubbio”, posto che una condanna che
non si è nutrita dell’oralità nell’acquisizione della base probatoria confligge nella evenienza precisata – con la presunzione di non colpevolezza di cui all’art.
27, secondo comma, Cost.

11. Va dunque enunciato il seguente principio di diritto:
“È affetta da vizio di motivazione ex art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc.
pen., per mancato rispetto del canone di giudizio ‘al di là di ogni ragionevole
dubbio’, di cui all’art. 533, comma 1, cod. proc. pen., la sentenza di appello che,
su impugnazione del pubblico ministero, affermi la responsabilità dell’imputato,
in riforma di una sentenza assolutoria emessa all’esito di un giudizio abbreviato,
operando una diversa valutazione di prove dichiarative ritenute decisive, senza
che nel giudizio di appello si sia proceduto all’esame delle persone che abbiano
reso tali dichiarazioni”.
12.

Ad analoghe conclusioni deve pervenirsi nel caso di riforma della

sentenza assolutoria agli effetti civili, emessa all’esito di giudizio abbreviato, a
seguito di accoglimento dell’appello proposto dalla parte civile (v. sentenza
Dasgupta, Rv. 267489).

13. Discende da quanto osservato la fondatezza del ricorso.
Nel caso in esame, la difesa dell’imputato ha rilevato un difetto di
motivazione della sentenza di condanna di secondo grado con la quale la Corte di

In questo caso, difatti, la difformità cade sul significante (sul documento) e

appello di Roma ha ribaltato, senza alcuna istruzione probatoria, il
proscioglinnento emesso dal giudice dell’udienza preliminare in funzione di
organo del giudizio abbreviato, che pure aveva deciso in assenza di contributi
cognitivi orali, sulla semplice base delle indagini in atti.
La censura è fondata, tenuto conto che la Corte di appello ha posto a
fondamento del giudizio di condanna la diversa valutazione di attendibilità delle
dichiarazioni rese dalla persona offesa, del tutto antitetica rispetto a quella
effettuata dal giudice di primo grado, che era pervenuto ad un giudizio
assolutorio sull’assunto che tali dichiarazioni fossero rimaste vaghe o poco

valutazione, questa, decisiva ai fini dell’affermazione di responsabilità e adottata
senza procedere alla rinnovazione dell’esame delle fonti dichiarative.
Si impone pertanto l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio ad
altra sezione della Corte di appello di Roma, che procederà a nuovo giudizio,
previo esame delle fonti dichiarative ritenute rilevanti ai fini del decidere, in base
ai principi sopra enunciati.
P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione
della Corte di appello di Roma.
Così deciso il 19/01/2017.

utilizzabili soprattutto in relazione alla reale entità dell’interesse praticato:

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