Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 1860 del 10/12/2013


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 1860 Anno 2014
Presidente: ESPOSITO ANTONIO
Relatore: DI MARZIO FABRIZIO

SENTENZA
Sul ricorso proposto da Ridosso Salvatore, nato il 25.9.1987 avverso la
ordinanza del Tribunale della libertà di Salerno del 27.6.2013. Sentita la
relazione della causa fatta dal consigliere Fabrizio Di Marzio; udita la
requisitoria del sostituto procuratore generale Giovanni D’Angelo, il quale ha
concluso chiedendo che il ricorso sia rigettato.
RITENUTO IN FATTO
Con l’ordinanza in epigrafe il Tribunale di Salerno, sezione riesame, decidendo
sulla richiesta di riesame presentata dall’indagato avverso l’ordinanza
applicativa della misura cautelare della custodia in carcere emessa dal gip del
medesimo tribunale in data 21 maggio 2013 nei confronti dello stesso, ha
rigettato l’istanza.
Ricorre, assistito da difensore, il Ridosso.
Innanzitutto, si contesta violazione di legge nonché vizio di motivazione con
riguardo alla sussistenza, ritenuta dal tribunale, di una fattispecie di tentata
estorsione piuttosto che di ragion fattasi. Si rileva che dalle condotte emerse
nel processo non risultaerebbero elementi di fattispecie idonei

Data Udienza: 10/12/2013

ì

all’inquadramento dei fatti in un quadro estorsivo giacché il coindagato Siano
vantava un credito avente origine in una fornitura commerciale mai pagata
dalla persona offesa; giacché lo stesso indagato insieme al ricorrente e a
Loreto Alfonsoavevano avviato con la parte offesa una semplice trattativa per
il recupero crediti non connotata da nessuna valenza estorsiva ma, al limite,
rilevante ai sensi dell’art. 393 cod. pen.; giacché in nessun modo sarebbe
emerso agli atti che gli indagati o alcuno di essi abbiano tenuto condotte

della menzionata aggravante di cui all’art. 7 I. n. 203 del 1991 (per aver agito
con metodo mafioso o per aver agevolato una consorteria di stampo mafioso)
non essendo pacificamente a ciò sufficienteil riferimento alla supposta cosca
degli “Scafatesi” (riferimento fatto dagli indagati alla persona offesa e relativo
a una realtà di cosca mai effettivamente appurata come esistente).
Si lamenta inoltre violazione di legge e vizio di motivazione per la ritenuta
sussistenza delle ragioni cautelari di massima severità, non risultando una
compiuta motivazione al riguardo con riferimento alla specifica posizione del
ricorrente il quale non fece riferimento a nessuna organizzazione di stampo
mafioso, non è stato fatto segno di una contestazione sulla appartenenza ad
associazioni di carattere mafioso; né risulta a suo carico un passato criminale
compatibile con l’appartenenza ad associazioni di stampo mafioso: cosicché
non avrebbe dovuto essere ritenuto operante, nei confronti del ricorrente, la
presunzione di cui all’art. 275 comma 3 0 cod. proc. pen.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è infondato.
Quanto al primo motivo, deve rammentarsi il consolidato orientamento di
questa Corte di legittimità, correttamente applicato dal Tribunale, secondo cui
non è ravvisabile il delitto di “ragion fattasi”, ma quelli più gravi di rapina o di
estorsione, ogni qualvolta la pretesa – nascendo da fatto illecito e non potendo
comunque assumere la consistenza di un diritto – sia

contra ius. In un

afattispecie recentemente decisa, relativa agli atti intimidatori posti in essere
dal ricorrente, per esigere un credito derivante dalla fornitura di gasolio non
pagato, secondo i giudici di legittimità, la minaccia si era estrinsecata in forme
di tale forza intimidatoria da andare al di là di ogni ragionevole intento di far
valere un proprio diritto, avendo la coartazione dell’altrui volontà assunto ex
se i caratteri dell’ingiustizia, di conseguenza, anche la minaccia tesa a far
valere quel diritto si trasforma in una condotta estorsiva (Cass. Sez. II,
5.6.2013, n. 27328).

violente o minacciose e tantomeno condotte rilevanti ai fini della integrazione

Lo stesso deve dirsi con riferimento al caso in esame, in cui il recupero crediti
è stato tentato non soltanto rivolgendo gravi minacce alla persona offesa, ma
come di dice di seguito, per di più avvalendosi del metodo mafioso: così
integrandosi la circostanza aggravante prevista dall’art. 7 D.L. 13 maggio
1991 n. 152, convertito in legge 12 luglio 1991 n. 203 (aver commesso il fatto
avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis cod. pen. ovvero al fine
di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo).
Cosicché deve ritenersi integrato il dolo di estorsione piuttosto che di ragion

fattasi.
Sempre secondo la giurisprudenza di questa Corte, ai fini della configurabilità,
nella condotta criminosa, dell’aggravante del metodo mafioso, non è
sufficiente il mero collegamento con contesti di criminalità organizzata o la
“caratura mafiosa” degli autori del fatto occorrendo, invece, l’effettivo utilizzo
del metodo mafioso e, cioè l’impiego della forza di intimidazione derivante dal
vincolo associativo. In applicazione del principio, questa Corte ha escluso che
ricorresse l’aggravante per il solo fatto che l’indagato era sottoposto a
procedimento penale per il delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen. e perché
fosse presente nella zona un gruppo facente capo a “Cosa Nostra” (Cass. Sez.
II, 14.6.2013, n. 28861).Nel caso di specie, tuttavia, oltre al citato
collegamento con contesti di criminalità organizzata con riguardo all’indagato
Loreto, nella ordinanza impugnata da pagina 12 a pagina 14 è compiutamente
motivata una complessa modalità dell’azione del tutto riconducibile all’agire
degli appartenenti ad associazioni di stampo mafioso. Infatti, gli indagati
Loreto e Ridosso agirono nel tentativo di recuperare non un proprio credito,
ma un credito altrui: perciò, quali esattori. Inoltre, nell’apparecchiare le
minacce rivolte alla persona offesa, si qualificarono come appartenenti ad una
consorteria di stampo mafioso, individuata nel clan degli Scatafesi,
affermandone l’importanza anche rispetto al noto clan Mazzarella. In tal
modo, tentavano di porre in essere una giustizia alternativa a quella statale,
sulla base di condotte minacciose e violente e avvalendosi della propria
appartenenza, dichiarata alla vittima del reato, ad una consorteria di stampo
mafioso-e più precisamente camorristico-onde coartarne la volontà.
Su queste basi fattuali, ampiamente ricostruite nel provvedimento impugnato,
del tutto logicamente i giudici del merito hanno concluso sulla integrazione,
nel caso, della contestata aggravante dell’aver agito avvalendosi del metodo
mafioso. Invece, nessun rilievo può assumere la reazione della vittima:
giacché che quest’ultima soggiaccia o meno alla richiesta estorsiva risulta

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ovviamente irrilevante ai fini della integrazione della fattispecie criminosa:
essendo necessario ma anche sufficiente alla integrazione della stessa
l’oggettività della condotta come minacciosa e violenta e, nel caso in esame,
aggravata dal metodo mafioso.
Quanto alla decisione circa la ricorrenza delle esigenze cautelari di massimo
rigore, deve richiamarsi la recente giurisprudenza costituzionale per cui è
costituzionalmente illegittimo l’art. 275, comma 3, secondo periodo, c.p.p.,

come modificato dall’art. 2, comma 1 d.l. 23 febbraio 2009, n. 11, conv., con
modif., in I. 23 aprile 2009, n. 38, nella parte in cui – nel prevedere che,
quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti commessi
avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416 bis c.p. ovvero al fine di
agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, è applicata
la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali
risulti che non sussistono esigenze cautelari – non fa salva, altresì, l’ipotesi in
cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali
risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure.
Premesso che le presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto
fondamentale della persona, violano il principio di eguaglianza, se sono
arbitrarie e irrazionali, cioè se non rispondono a dati di esperienza
generalizzati, riassunti nella formula dell'”id quodplerumqueaccidit”, e
premesso che la presunzione assoluta sulla quale fa leva il regime cautelare
speciale non risponda, con riferimento ai delitti commessi avvalendosi delle
condizioni previste dall’art. 416 bis c.p. o al fine di agevolare le attività delle
associazioni previste dallo stesso articolo, a dati di esperienza generalizzati,
essendo “agevole” formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla
generalizzazione posta a base della presunzione stessa, la disposizione
censurata determina una ingiustificata parificazione dei procedimenti relativi
ai delitti in questione a quelli concernenti il delitto di cui all’art. 416 bis c.p. e
un irrazionale assoggettamento ad un medesimo regime cautelare di diverse
ipotesi e si pone in contrasto con l’art. 13, comma 1, cost., quale referente
fondamentale del regime ordinario delle misure cautelari privative della libertà
personale, e con l’art. 27, comma 2, cost., in quanto attribuisce alla
coercizione processuale tratti funzionali tipici della pena. Peraltro, posto che
ciò che vulnera i parametri costituzionali richiamati non è la presunzione in sé,
ma il suo carattere assoluto, che implica una indiscriminata e totale negazione
di rilevanza al principio del “minore sacrificio necessario”, la previsione di una
presunzione solo relativa di adeguatezza della custodia carceraria – atta a

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realizzare una semplificazione del procedimento probatorio, suggerita da
aspetti ricorrenti del fenomeno criminoso considerato, ma comunque
superabile da elementi di segno contrario – non eccede i limiti di compatibilità
costituzionale, rimanendo per tale verso non censurabile l’apprezzamento
legislativo circa la ordinaria configurabilità di esigenze cautelari nel grado più
intenso (sentt. n. 41 del 1999, 139, 265 del 2010, 164, 231, 331 del 2011,
110 del 2012; ord. n. 450 del 1995) (Corte cost. 29.3.2013, n. 57).

impugnata. Infatti, il Tribunale elenca la presenza di elementi idonei ad
integrare il giudizio sulla sussistenza delle esigenze cautelari di massimo
rigore, individuandoli nella modalità organizzative di esazione del credito,
quali il ricorso a sistemi di giustizia alternativa a quella statale, caratterizzate
dal metodo mafioso, oltre alle intercettazioni delle conversazioni in cui il
ricorrente si mostra disponibile a mentire l’autorità giudiziaria per mettere al
sicuro se stesso e i coindagati.
Ne discende il rigetto del ricorso e la condanna il ricorrente al pagamento
delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali. Si provveda ai sensi dell’art. 94, comma 1 ter,disp. att. cod. proc.
pen.

Così deliberato il 10.12.2013

Questa giurisprudenza è stata correttamente applicata nella decisione

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