Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 1856 del 17/12/2013


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 1856 Anno 2014
Presidente: CASUCCI GIULIANO
Relatore: RAGO GEPPINO

SENTENZA
su ricorso proposto da:
UNIPOL ASS.NI S.P.A. avverso la sentenza del 26/04/2012 pronunciata
dalla Corte di Appello di Bari nei confronti di STALLONE LUCIA nata il
11/02/1974;
Visti gli atti, la sentenza ed il ricorso;
udita la relazione fatta dal Consigliere dott. Geppino Rago;
udito il Procuratore Generale in persona della dott.ssa Maria Giuseppina
Fodaroni che ha concluso per l’annullamento con rinvio;
uditi i difensori avv.ti Maurizio Merlini (per la parte civile ricorrente) che
ha concluso per l’accoglimento del ricorso e l’avv.to Stefano Dardes che
ha concluso per il rigetto del ricorso
FATTO
1. Con sentenza del 26/04/2012, la Corte di Appello di Bari, in
riforma della sentenza pronunciata in data 21/10/2009 dal giudice
monocratico del Tribunale di Trani, assolveva, ex art. 530/2 cod. proc.
pen., STALLONE Lucia dal reato di cui all’art. 642 cod. pen. (capo sub A:
«perché, al fine di conseguire l’indennizzo relativo alla polizza

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Data Udienza: 17/12/2013

assicurativa contratta tra la Newline Textile di Stallone Lucia e la Unipol
Ass.ni spa, distruggeva mediante incendio parte del materiale presente
presso il capannone della suindicata ditta, nonché parte degli infissi e
delle strutture murarie») – in esso assorbito il reato di tentata truffa
(capo sub B: «perché con artifici e raggiri costituiti dall’indicare nella

alla Unipol, danni superiori a quelli effettivamente prodotti dall’incendio
verificatosi il 16/12/2004 presso il capannone della Newline-Textile,
compiva atti idonei diretti in modo non equivoco ad indurre in errore la
Unipol al fine di procurarsi un ingiusto vantaggio ai danni della
compagnia di assicurazioni») – perché il fatto non sussiste.
Il giudice di primo grado aveva ritenuto la colpevolezza
dell’imputata sulla base di tre elementi indiziari: a) la presenza di tracce
di benzina nei reperti esaminati: il suddetto accertamento si era fondato
sulle c.t. degli ing. Valentini e Cafaro incaricati dalla Unipol; b) il fatto
che non si fosse verificato alcun cortocircuito riguardante l’impianto
elettrico; c) la mancanza di segni di effrazione sui serramenti esterni di
accesso al capannone.
La Corte di Appello, invece, assolse l’imputata sostenendo che:
le C.t. non potevano essere ritenute attendibili sia perché di
parte, sia perché avevano presentato conclusioni perplesse;
insufficiente appariva anche l’ulteriore elemento della mancanza
di segni di effrazione in quanto gli inquirenti avevano «omesso di
verificare chi, oltre alla Stallone, fosse in possesso delle chiavi di
accesso all’opificio e quindi potesse entrarvi liberamente»;
il primo giudice aveva ingiustamente svalutato le deposizioni dei
testi Valente, Catalano e Di Terlizzi – che avevano dichiarato di
aver visto prima dell’incendio nel magazzino tessuti pregiati sulla base di una apodittica affermazione secondo la quale «il
tessuto di più elevato valore commerciale … sia stato riposto
altrove la sera dell’incendio per evitare che venisse danneggiato
dalle fiamme»;

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denuncia di incendio e nella “situazione merci danneggiate” presentate

- infine, il reato di cui all’art. 56-640 cod. pen., costituendo
un’ipotesi criminosa speciale rispetto a quello di cui all’art. 642
cod. pen., doveva in questo ritenersi assorbito.

2. Avverso la suddetta sentenza, la Unipol Ass.ni spa, a mezzo del

responsabilità civile dell’imputata, deducendo i seguenti motivi:
2.1. VIOLAZIONE DEGLI ARTT. 15-640-642 COD. PEN.: la ricorrente, pur
condividendo l’affermazione della natura speciale del reato di cui all’art.
642 cod. pen. rispetto a quello di cui all’art. 640 cod. pen., sostiene che,
nel caso di specie, la Corte avrebbe omesso «di considerare la diversità
dei fatti e delle condotte oggetto di contestazione nei distinti capi
d’imputazione, ciascuno dei quali idoneo ad integrare diverse fattispecie
di reato», con ciò, quindi, dovendosi ritenere un concorso di reati e non
di norme.
In realtà, la condotta contestata alla Stallone come tentata truffa,
integrerebbe comunque la fattispecie autonoma di cui all’art. 642/2 cod.
pen. e, quindi, concorrente con quella già contestata di cui all’art. 642/1
cod. pen. in quanto le condotte contestate all’imputate sono due ed
autonome l’una dall’altra: a) la fraudolenta distruzione della cosa
propria; b) la fraudolenta esagerazione del danno.
La Corte, quindi, avrebbe dovuto procedere alla riqualificazione
giuridica della fattispecie, ma non dichiarare l’assorbimento del reato
sub B) in quello sub A).
2.2. MANIFESTA ILLOGICITÀ DELLA MOTIVAZIONE: la ricorrente sostiene
che l’affermazione di inattendibilità delle CTP effettuata dalla Corte
territoriale, sarebbe apodittica in quanto priva di motivazione, tanto più
che la Corte non aveva considerato che le attività di accertamento,
fattuale e tecnico, svolte dai consulenti della parte civile, peraltro
acquisite ex artt. 493/3 e 555 cod. proc. pen. con il consenso delle
parti, furono compiute nella sede extraprocessuale della cd perizia
assicurativa con la partecipazione e nel pieno contraddittorio del perito
della Stallone.

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proprio difensore, ha proposto ricorso per cassazione ai soli effetti della

La ricorrente, poi, osserva che la Corte era pervenuta ad una
sentenza di assoluzione sulla base di una valutazione non solo
parcellizzata delle prove ma anche errata perché contrastante con le
risultanze probatorie.
Infatti:

tracce di benzina, fosse perplesso, come poteva desumersi sia dalla
lettura della Ct sia dalle dichiarazioni rese in dibattimento dal prof.
Valentini;
b) era pacifico, comunque, che l’incendio avesse avuto origine
dolosa in quanto la stessa Corte non aveva confutato le conclusioni alle
quali era giunto il Ct ing. Cafaro;
c) in modo contraddittorio ed illogico era stato superato l’indizio
costituito dal fatto che non erano stati rinvenuti segni di effrazione sui
serramenti di accesso al capannone;
d) la Corte non aveva considerato come, a fronte di una richiesta
di indennizzo pari ad C 467.551,84, il riscontro merceologico sui residui
dell’incendio effettuato dal p.i. Brachi nell’ambito della perizia
assicurativa nel contraddittorio con il perito della ditta assicurata,
avesse accertato la sostanziale difformità tra la tipologia ed il valore
della merce rappresentata dalla Stallone e quella invece effettivamente
presente al momento dell’incendio ed andata distrutta in quanto non
solo non era stata rinvenuta traccia della merce di pregio (C
115.545,00), ma quella presente era diversa e tale da non superare
l’importo di C 61.100,00. E, tale omessa motivazione, risultava tanto più
grave a fronte della motivazione addotta dal tribunale di Trani.

3. Con memoria depositata il 03/09/2013, la Stallone, a mezzo del
proprio difensore, ha confutato punto per punto il ricorso della Unipol
spa, sostenendo ed illustrando le ragioni per le quali la sentenza
appellata doveva ritenersi corretta con conseguente infondatezza del
ricorso.
DIRITTO

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a) non era vero che l’esito della Ct, in ordine al rilevamento di

1. VIOLAZIONE DEGLI AR-rr. 15-640-642 COD. PEN.:

la doglianza è

fondata per le ragioni di seguito indicate.
La costante giurisprudenza di questa Corte, come ha già rilevato la
Corte territoriale, ritiene che «l’art. 642 cod. pen. – che punisce la

criminosa speciale rispetto al reato di truffa di cui all’art. 640 cod. pen.:
nel primo, infatti, sono presenti tutti gli elementi della condotta
caratterizzanti il secondo e, in più, come elemento specializzante, il fine
di tutela del patrimonio dell’assicuratore»:

Cass. 2506/2003 Rv.

227890; Cass. 4352/1997 Rv. 207438; Cass. 4828/1994 Rv. 201184.
La ricorrente, pur non contestando il suddetto principio di diritto,
ha obiettato che le condotte contestate all’imputata, in realtà, sono due
ed autonome l’una dall’altra: a) la fraudolenta distruzione della cosa
propria (art. 642/1 cod. pen.); b) la fraudolenta esagerazione del danno
(art. 642/2 cod. pen.): quindi, più che dichiarare l’assorbimento del
reato di tentata truffa in quello di cui all’art. 642 cod. pen., la Corte
avrebbe dovuto procedere alla riqualificazione giuridica dei fatti e
ritenere il concorso fra le due fattispecie di cui al primo e secondo
comma dell’art. 642 cod. pen.

1.1. L’art. 642 cod. pen. prevede cinque ipotesi delittuose:
a) il danneggiamento dei beni assicurati: primo comma, nella
parte in cui prevede «distrugge, disperde, deteriora od occulta cose di
sua proprietà»;
b)

la falsificazione od alterazione della polizza o della

documentazione richiesta per la stipulazione di un contratto di
assicurazione: primo comma, seconda parte;
c)

la mutilazione fraudolenta della propria persona: secondo

comma prima parte nella parte in cui prevede: «cagiona a sé stesso una
lesione personale o aggrava le conseguenze della lesione personale
prodotta da infortunio»;
d) la denuncia di un sinistro non avvenuto: secondo comma nella
parte in cui prevede «denuncia un sinistro non accaduto»;

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fraudolenta distruzione della cosa propria – costituisce un’ipotesi

e) la falsificazione o alterazione della documentazione relativi al
sinistro: secondo comma, ultima parte nella parte in cui prevede:
«distrugge, falsifica, altera o precostituisce elementi di prova o
documentazione relativi al sinistro».
Ora, all’imputata, nel capo sub a) è stata contestata la condotta

parte cod. pen.: «distruggeva mediante incendio parte del materiale
presente presso il capannone della suindicata ditta, nonché parte degli
infissi e delle strutture murarie»; al capo sub b), le è stata, invece,
contestata la condotta di aver denunciato «danni superiori a quelli
effettivamente prodotti dall’incendio verificatosi il 16/12/2004 presso il
capannone della Newline-Textile» in modo da indurre «in errore la
Unipol al fine di procurarsi un ingiusto vantaggio ai danni della
compagnia di assicurazioni».
La seconda delle condotte contestate, come appare evidente,
rientra nella quinta fattispecie prevista dall’art. 642 cod. pen. ed
esattamente in quella con la quale il soggetto attivo «falsifica, altera
documentazione relativi al sinistro».
Il problema, quindi, che pone l’art. 642 cod. pen. è duplice:
a) in che rapporti si pone con la truffa;
b) se e in che misura le varie fattispecie previste nei due commi
dell’art. 642 cod. pen. possano o no concorrere.

1.2. Quanto ai rapporti fra l’art. 642 cod. pen. e l’art. 640 (o
56/640 cod. pen.), deve ribadirsi il tradizionale citato orientamento
giurisprudenziale: fra le due norme vi è un rapporto di specialità, in
quanto l’art. 642 cod. pen., a ben vedere, ha la stessa struttura dell’art.
640 cod. pen., in cui, però, gli interessi tutelati (patrimonio
dell’assicuratore: Cass.12210/2007 Rv. 236132; Cass. 22906/2012 Rv.
252997), il soggetto attivo (per le ipotesi che presuppongono la stipula
di un contratto e, quindi, la qualifica di soggetto assicurato), e
l’elemento materiale dei raggiri e degli artifizi, sono costituiti da
elementi speciali rispetto a quelli generici previsti per il reato di truffa.
In particolare, le condotte previste dall’art. 642 cod. pen. vanno ritenute

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del danneggiamento dei beni assicurati prevista nell’art. 642/1 prima

null’altro che particolari artifizi e raggiri previsti espressamente dal
legislatore e che, quindi, caratterizzano e differenziano il suddetto reato
da quello della truffa.

1.3. Il fatto, però, che fra il reato di truffa e quello di cui all’art.

cinque ipotesi previste dall’art. 642 cod. pen. non vi possa essere
concorso – materiale o formale – ove l’agente ponga in essere una o più
delle condotte criminose previste dalla suddetta norma.
Sul punto, peraltro, è opportuno preliminarmente precisare se il
concorso sia ammissibile solo fra le ipotesi previste nei commi primo e
secondo o anche fra le ipotesi previste all’interno di ciascun comma.
La questione va risolta appurando quale sia la natura giuridica da
riconoscere alla disposizione incriminatrice di cui all’art. 642 cod. pen
che rappresenta un chiaro esempio di norma penale mista.
Come è noto, la dottrina maggioritaria e la giurisprudenza di
questa Corte distinguono, all’interno del più ampio genus denominato
“norma penale mista”, le c.d. norme a più fattispecie (o norme miste
alternative) dalle c.d. disposizioni a più norme (o norme miste
cumulative).
Le norme a più fattispecie descrivono una pluralità di condotte
fungibili, con le quali può essere integrata in via alternativa un’unica
norma incriminatrice: in definitiva, il reato astrattamente previsto è uno
solo, ma in concreto lo stesso può venire realizzato indifferentemente da
una o più delle condotte tipizzate dalla norma, senza che la modalità di
esecuzione – naturalisticamente unitaria o plurima – incida sul
carattere, invariabilmente unitario, del reato posto in essere dal reo.
Al contrario, le disposizioni a più norme contengono tante norme
incriminatrici quante sono le fattispecie legislativamente previste; ciò in
quanto le diverse condotte, lungi dall’essere tra loro equipollenti ed
alternative, non rappresentano semplicemente una diversa
manifestazione modale della medesima fattispecie criminosa, bensì
costituiscono differenti elementi materiali di altrettanti reati.

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642 cod. pen. vi sia un rapporto di specialità, non significa che fra le

La distinzione è foriera di rilevanti conseguenze applicative,
giacché, nel primo caso, l’eventuale realizzazione congiunta di più
condotte lascia intatto il carattere unitario del reato; nel secondo caso,
invece, la violazione di ciascuna fattispecie implica l’integrazione di
altrettante ipotesi di reato, ognuna dotata di una autonoma rilevanza,

concorso di reati.

1.4. Tanto premesso, lo sguardo deve volgersi all’individuazione
dei criteri discretivi, che consentano di discernere le ipotesi nelle quali si
versi in una, anziché nell’altra specie di norma penale mista.
La tematica dell’unità o pluralità di reati è stata affrontata dalla
giurisprudenza di legittimità con riguardo ad altre norme incriminatrici
presenti nel codice penale o in leggi speciali, le quali, al pari dell’art. 642
cod. pen., sono (o erano) costruite mediante l’inserimento, in un unico
articolo, di una molteplicità di condotte materiali.
Si pensi, anzitutto, a quel costante orientamento giurisprudenziale,
in base al quale «l’art. 216 n.1 legge fall, è una norma a più fattispecie,
in quanto le condotte da essa previste sono ad un tempo plurime,
alternative, equipollenti e tra loro fungibili, sicché quando ci si riferisce
ad una pluralità di “fatti” non si richiede la contestuale presenza di più
fattispecie diverse descritte negli art. 216 e 217 ma la reiterazione della
condotta, comunque sussumibile in entrambe o in ciascuna delle due
ipotesi, con la conseguenza che anche fatti dello stesso tipo, e riferibili
alla stessa ipotesi di bancarotta, sono sufficienti ai fini dell’applicazione
di quella circostanza aggravante»: ex plurimis

Cass. 8327/1998 rv

211367; SSUU 21039/2011 Rv. 249667.
Principi di analogo tenore sono stati altresì enunciati, in materia di
stupefacenti, in relazione all’art. 73 D.P.R. n. 309/90, il quale, secondo
un indirizzo consolidato e ribadito anche in tempi recenti (Cass.
9477/2009 Rv. 246404; Cass. 36523/2008 Rv. 242014; Cass.
22588/2005, Rv. 232094; Cass. 230/2000 Rv. 215175) «costituisce
norma a più fattispecie tra loro alternative. Con la duplice conseguenza:
da un lato, della configurabilità del reato allorché il soggetto abbia posto

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determinando pertanto l’operatività della disciplina in materia di

in essere anche una sola delle condotte ivi previste; e, dall’altro, per
quanto qui interessa, dell’esclusione del concorso formale di reati
quando un unico fatto concreto integri contestualmente più azioni
tipiche alternative, nel qual caso le condotte illecite minori perdono la
loro individualità e vengono assorbite nell’ipotesi più grave».

minori perdano la loro individualità e vengano assorbite nell’ipotesi più
grave, occorre che si verifichino le seguenti circostanze: a) che si tratti
dello stesso oggetto materiale; b) che le attività illecite minori siano
compiute dallo stesso soggetto che ha commesso quelle maggiori o
dagli stessi soggetti che ne rispondono a titolo di concorso; e) che le
condotte siano contestuali e cioè si verifichi il susseguirsi di vari atti,
sorretti da un unico fine, senza apprezzabili soluzioni di continuità.
Qualora, invece, le differenti azioni tipiche siano distinte sul piano
ontologico, cronologico e psicologico, esse costituiscono più violazioni
della stessa disposizione di legge e quindi distinti reati; unificabili
eventualmente per la continuazione, se commessi dallo stesso soggetto
o dagli stessi soggetti in concorso, in presenza del disegno criminoso
unitario: Cass. 230/1999 RV 215175; Cass. 25276/2002 Rv. 222013;
Cass. 22588/2005 Rv. 232094; Cass. 9477/2009 Rv. 246404; Cass.
8163/2009 Rv. 246211.
Sulla problematica in esame sono, poi, intervenute anche le SSUU
le quali, con la sentenza n° 22902/2001, Tiezzi, rv 218871, in relazione
all’ormai abrogato art. 12 del D.L. 143/1991 conv. in L. 197/1991, nella
dichiarata consapevolezza della difficoltà di rinvenire criteri univoci di
risoluzione del problema, ritennero di impostarlo «essenzialmente alla
stregua di una corretta interpretazione letterale e logica»

della

disposizione, puntualizzando che «in linea di massima si può ritenere
valido un criterio fondato sulla natura intrinseca delle varie condotte
ipotizzate, configuranti uno o più reati a seconda che costituiscano
ontologicamente diverse manifestazioni esteriori di una sola situazione
di fatto rivestente lo stesso disvalore sociale, ovvero rappresentino
situazioni strutturalmente fenomenicamente e cronologicamente distinte
anche in relazione alle offese arrecate».

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Sul punto, si è peraltro precisato che, affinchè le condotte illecite

L’esame della suddetta giurisprudenza, consente, quindi, di
concludere che il riconoscimento della natura di norma a più fattispecie
viene rimesso al riscontro cumulativo di un’identità oggettiva (devono
avere uno stesso oggetto materiale), soggettiva (devono essere
compiute dallo stesso soggetto), cronologica (devono essere

unico fine) tra le diverse condotte penalmente sanzionate.
Soltanto ove la verifica abbia esito positivo è possibile affermare
che ci si trova al cospetto di un unico titolo di reato, cosicché il reo,
anche laddove abbia commesso plurime violazioni della medesima
norma, sarà chiamato a rispondere di un solo illecito, sebbene integrato
sotto l’aspetto materiale da una pluralità di condotte.
Al di fuori del perimetro così delineato, ciascuna violazione della
disposizione incriminatrice si tradurrà, al contrario, in altrettanti reati
quante siano state le condotte effettivamente realizzate dall’agente.

1.5. Ciò chiarito, può affermarsi che l’art. 642 cod. pen. si
configura quale norma penale mista del tutto peculiare, giacché accorpa
in sé sia la qualifica di disposizione a più norme (nel rapporto tra le
condotte previste nel primo e nel secondo comma) sia quella di norma a
più fattispecie (in riferimento alle condotte previste all’interno di ciascun
comma).
Come precisato dalle SSUU cit., l’esegesi del dettato normativo
deve condursi alla stregua degli ordinari canoni ermeneutici, affidandosi
cioè a quei criteri che orientano la comune attività d’interpretazione.
A completamento di questo primo momento d’indagine, segue,
poi, la necessaria verifica in ordine alla sussistenza dei predetti
presupposti fattuali di affinità tra le diverse condotte tipiche in concreto
realizzate, alla cui ricorrenza soltanto è subordinato l’effettivo
riconoscimento della natura di norma a più fattispecie nonché la
valutazione normativa delle stesse in guisa di azione unitaria.
Nessuna indicazione può, invero, trarsi dal profilo sanzionatorio, il
quale, essendo prevista la stessa pena sia nel primo che nel secondo
comma, risulta nella specie del tutto neutro ai fini che ci occupano.

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contestuali) e psicologico-funzionale (devono essere indirizzate verso un

Neppure la previsione formale di un’aggravante solo nel comma 2
si rivela decisiva, trattandosi di una mera imprecisione di tecnica
legislativa, che deve ragionevolmente essere corretta in sede
ermeneutica mediante la riferibilità della stessa a tutte le ipotesi ex art.
642 cod. pen. (cfr. Cass., 13 novembre 2003, n. 2506, Rv. 227891).

escludersi un rapporto di alternatività formale tra le condotte tipizzate
nel primo e nel secondo comma, rappresentando piuttosto fattispecie di
reato differenti e dotate di autonoma rilevanza penale.
Indice sintomatico della infungibilità delle diverse ipotesi criminose
appare, in primis, la netta separazione delle stesse in due commi
distinti; collocazione che, pur non potendo assurgere ad elemento in sé
solo decisivo, evidenzia in modo plastico una diversità ontologica tra le
varie condotte sanzionate.
Segnatamente, da un raffronto strutturale delle cinque differenti
ipotesi delittuose emergono, infatti, tre gruppi di condotte, distinti già
dal punto di vista fenomenico: uno, comprensivo di comportamenti che
si sostanziano in atti violenti su cose o persone (ipotesi sub a e c); un
altro, concernente fatti di falso materiale (ipotesi sub b ed e); ed infine,
un ultimo, che include esclusivamente una condotta di falso ideologico
(ipotesi sub d).
Ora, ciascun comma dell’art. 642 cod. pen. incrimina, con una
corrispondenza quasi perfetta, una soltanto delle condotte fenomenologicamente distinte – incluse in ognuno dei suddetti gruppi: in
particolare, il comma I punisce le ipotesi sub a) e b), mentre il comma
H quelle sub c), d), e).
Se ne desume che la collocazione dei vari comportamenti è il
frutto di una meditata scelta legislativa, come a voler distribuire, in due
autonomi titoli di reato, ipotesi criminose eterogenee, da tener anche
prima facie separate in diversi commi.
Il che trova conferma nella intitolazione della norma in questione,
peraltro rimasta significativamente invariata a seguito della riforma
apportata con la L. n. 273 del 2002, la quale ha affiancato alle
tradizionali ipotesi sub a) c) le altre attualmente sanzionate; difatti, già

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Quanto alla relazione che intercorre tra i due commi, deve

la locuzione “e” contenuta nella rubrica (“Fraudolento danneggiamento
dei beni assicurati e mutilazione fraudolenta della propria persona”)
certifica la

voluntas legis,

ribadita in occasione della novella, di

prevedere due differenti fattispecie delittuose, e non un unico titolo di
reato (presumibilmente, la “frode assicurativa”) alternativamente

Ad ulteriore sostegno, si osservi che le diverse ipotesi comprese in
ciascun comma divergono altresì sia sotto l’aspetto oggettivo, sia per
disvalore sociale.
A ben vedere, infatti, nell’ambito del secondo gruppo diverso è
l’oggetto su cui cade il fatto di falsità materiale: nell’ipotesi sub b) “una
polizza o la documentazione richiesta per la stipulazione di un contratto
di assicurazione”, mentre nell’ipotesi sub e) “elementi di prova o
documentazione relativi al sinistro”.
Inoltre, che il terzo gruppo di condotte sia costituito da un fatto di
falsità ideologica previsto unicamente nel comma II è coerente con la
sistemazione delle varie fattispecie operata dalla riforma del 2002, la
quale, ha accentrato le tre ipotesi delittuose di cui al comma II sul
comune presupposto di un sinistro, reale o solo falsamente denunciato.
Ma la differenza tra le varie ipotesi si coglie maggiormente
all’interno del primo gruppo.
Benché tutte le ipotesi delittuose ivi previste siano dirette a
protezione dell’unico bene giuridico del patrimonio dell’ente assicurativo,
è evidente che gli atti di danneggiamento dei beni assicurati e gli atti
violenti sulla persona del danneggiato esprimano un grado di
riprovazione diverso, più o meno intenso a seconda dell’oggetto
materiale su cui incide la condotta fraudolenta, sicchè la collocazione in
due commi distinti pare tesa proprio a valorizzare tale distanza
(dis)valoriale.
Coniugando, quindi, il suddetto profilo oggettivo con quello
teleologico, è del tutto comprensibile e logico che fatti aventi oggetti
materiali diversi, oltre che connotati da una carica di disvalore sociale
variabile, siano stati collocati in due distinti commi, proprio a
valorizzarne la distanza anche in termini di intensità lesiva; con la

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realizzabile da una qualsiasi delle cinque condotte tipiche.

coerente conseguenza che, allorquando siano state realizzate più
condotte tipiche previste dai due commi, devono ritenersi integrati
illeciti autonomi, la cui individualità non può certo essere assorbita in
presenza di situazioni ontologicamente ed oggettivamente eterogenee,
anche in relazione alle offese arrecate.

Detta ricostruzione non è stata scalfita neppure dalla novella del
2002, la quale, nell’introdurre un ampliamento delle condotte punibili in
ambedue i commi, ha soltanto reso più complessa la struttura dell’art.
642 cod. pen., attribuendo a ciascun comma la natura di norma a più
fattispecie.
L’introduzione di ulteriori condotte punibili assume rilievo per la
soluzione non tanto del problema del rapporto tra le condotte previste
nel primo e nel secondo comma, quanto del separato problema del
rapporto tra le condotte tipiche di ciascun comma.
Vigente la versione originaria risalente al Codice Rocco, le uniche
due condotte ivi sanzionate si ponevano in relazione di alterità formale,
con la conseguenza che, essendo infungibili a causa della differente
carica di disvalore sociale connessa alla diversità del loro oggetto
materiale, l’art. 642 cod. pen. costituiva unicamente una disposizione a
più norme.
Come sopra chiarito, tale qualificazione va confermata anche in
seguito alla riforma normativa, con la puntualizzazione che l’alternatività
formale, che prima concerneva solo le ipotesi di danneggiamento dei
beni assicurati e di mutilazione della propria persona, va oggi estesa al
rapporto tra le nuove ipotesi contemplate rispettivamente nel primo e
nel secondo comma, in ragione della difformità oggettiva che
caratterizza le stesse.
In riferimento alla seconda problematica (rapporto tra le condotte
tipiche di ciascun comma), giova rilevare che il legislatore della riforma,
pur potendo modificare l’impianto normativo dell’art. 642 cod. pen., ha
ritenuto di confermare la separazione delle fattispecie in commi distinti.
La scelta legislativa, evidentemente, è stata ispirata da un intento
preciso: quello, cioè, di accorpare ipotesi omogenee, da un lato, e di
tenere separate ipotesi eterogenee, dall’altro.

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/

Nella ricerca dei tratti comuni alle varie fattispecie soccorre il
comma II, il quale contiene un ventaglio di condotte affini quanto al loro
presupposto fattuale, atteso che tutte postulano l’esistenza, reale o
falsamente denunciata, di un sinistro. Sinistro che, invece, non è
richiesto per la realizzazione delle fattispecie di cui al comma I, posto

epoca cronologicamente anteriore allo stesso.
Che, poi, l’evento lesivo sia realmente avvenuto, sia stato oggetto
di una falsa denuncia ovvero, pur essendosi verificato, le conseguenze
siano state meno gravi di quelle artatamente aggravate o gli elementi
probatori o documentali dello stesso siano stati fraudolentemente
distrutti, alterati o precostituiti, non riveste alcun rilievo; ciò che conta,
e che rende le condotte truffaldine del comma II espressione di una
situazione identica dal punto di vista ontologico, fenomenico e
cronologico, è che i comportamenti fraudolenti siano tutti successivi ad
un sinistro, sia o no questo realmente accaduto.
Di conseguenza, le condotte ivi previste rappresentano
ontologicamente diverse modalità di esecuzione alternative di un
medesimo illecito, e la violazione di due o più di esse non dà luogo ad
una pluralità di reati in concorso – ed eventualmente in continuazione tra loro, bensì ad un unico titolo di reato: si può, quindi affermare che i
due commi dell’art. 642 cod. pen. costituiscono, ciascuno, una norma a
più fattispecie.
Applicando i suddetti principi alla concreta fattispecie in esame,
deve allora concludersi che la condotta contestata all’imputata al capo
sub b) integra, in realtà, l’ipotesi criminosa di cui all’art. 642/2 cod. pen.
che concorre con quella contestata al capo sub a).
Pertanto, la sentenza impugnata dev’essere annullata alla stregua
del seguente principio di diritto: «l’art. 642 cod. pen. si configura quale
norma penale mista del tutto peculiare, giacché accorpa in sé sia la
qualifica di disposizione a più norme (nel rapporto tra le condotte
previste nel primo e nel secondo comma) sia quella di norma a più
fattispecie (in riferimento alle condotte previste all’interno di ciascun
comma). Di conseguenza, poiché ciascun comma prevede ipotesi

14

che esse o prescindono da un siffatto evento oppure si pongono in

diverse di reato, ove ne ricorrano gli estremi fattuali, le medesime
concorrono fra di loro»

2.

MANIFESTA ILLOGICITÀ DELLA MOTIVAZIONE:

fondata deve ritenersi,

2.1. Sul punto, in via preliminare, è opportuno rammentare due
principi di diritto.
Innanzitutto, quello secondo il quale «in tema di motivazione
della sentenza, il giudice di appello che riformi totalmente la decisione di
primo grado ha l’obbligo di delineare le linee portanti del proprio,
alternativo, ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più
rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto
delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da
giustificare la riforma del provvedimento impugnato»:

SSUU

33748/2005 Rv. 231679.
In secondo luogo, in tema di valutazione della consulenza tecnica
di parte, ex art. 233 cod. proc. pen., questa Corte di legittimità ha
enunciato i seguenti principi:
a) la consulenza di parte, che è atto delle indagini preliminari,
assume funzione probatoria, assimilabile alla perizia, quando la stessa
sia acquisita dal giudice con il consenso delle parti, ovvero, in caso di
dissenso, si proceda all’audizione del consulente: Cass. 10918/1992 Rv.
192881; Cass. 7663/2004 Rv. 230824; Cass. 3986/2011 Rv. 251746;
b) in tema di valutazione della prova, atteso il principio della
libertà di convincimento del giudice e della insussistenza di un regime di
prova legale, il presupposto della decisione è costituito dalla
motivazione che la giustifica. Ne consegue che il giudice può scegliere,
tra le varie tesi prospettate dai periti e dai consulenti di parte, quella
che maggiormente ritiene condivisibile, purché illustri le ragioni della
scelta operata (anche per rapporto alle altre prospettazioni che ha
ritenuto di disattendere) in modo accurato attraverso un percorso logico
congruo che il giudice di legittimità non può sindacare nel merito: Cass.
46359/2007 Rv. 239021.

15

infine, anche la seconda censura dedotta dalla ricorrente.

Alla stregua dei suddetti principi di diritto, non resta che
verificare se la Corte territoriale ad essi si sia attenuta e, quindi, se le
censure dedotte dalla ricorrente parte civile siano o no fondate.
2.2. Come si è già anticipato, la Corte ha totalmente riformato la

ex art. 530/2 cod. proc. pen., con la formula «perché il fatto non
sussiste», ritenendo, in pratica che:

le C.t. non potevano essere ritenute attendibili sia perché di
parte, sia perché avevano presentato conclusioni perplesse;

insufficiente appariva anche l’ulteriore elemento della mancanza
di segni di effrazione in quanto gli inquirenti avevano «omesso di
verificare chi, oltre alla Stallone, fosse in possesso delle chiavi di
accesso all’opificio e quindi potesse entrarvi liberamente»;

il primo giudice aveva ingiustamente svalutato le deposizioni dei
testi Valente, Catalano e Di Terlizzi – che avevano dichiarato di
aver visto prima dell’incendio nel magazzino tessuti pregiati sulla base di una apodittica affermazione secondo la quale

«il

tessuto di più elevato valore commerciale … sia stato riposto
altrove la sera dell’incendio per evitare che venisse danneggiato
dalle fiamme».
Ora, quanto alla valutazione delle C.T. – acquisite agli atti con il
consenso di tutte le parti – e all’esame dei consulenti tecnici, avvenuto
nel giudizio di primo grado, la motivazione addotta dalla Corte
territoriale (pag. 6-7), per confutare l’esito delle medesime, va ritenuta
perplessa e, sostanzialmente,carente ed apodittica.
Infatti, a fronte dell’amplissima motivazione addotta sul punto dal
primo giudice, il quale, con argomenti tecnici – desunti dalle Consulenze
tecniche degli ingg. Valentini e Cafaro – aveva concluso che l’incendio
aveva avuto sicuramente natura dolosa ed era stato appiccato con
benzina per autotrazione (cfr pag. 3 ss della sentenza di primo grado),
la Corte territoriale, da una parte, sembra non mettere in discussione la
circostanza che l’incendio ebbe natura dolosa, ma, dall’altra, poi, in
modo contraddittorio, ritiene che le Consulenze tecniche siano

16

sentenza di condanna di primo grado, assolvendo l’imputata, sebbene

inattendibili, sostenendo, in modo pressoché apodittico, che le suddette
Consulenze tecniche avevano addotto conclusioni «incerte, confuse e
non appaganti», facendo leva, da una parte, su brani estrapolati dalla
C.t. dell’ing. Valentini e, dall’altra, su una pretesa illegittimità delle
modalità di prelevamento dei campioni esaminati, laddove, l’esatto

si dà atto della correttezza dei prelievi eseguiti e, dall’altra, si afferma
che l’ing. Valentini aveva concluso, anche in sede dibattimentale, «che
erano state riscontrate nei campioni numerose molecole che avevano
consentito di accertare la presenza di benzina per autotrazione (le cui
molecole sono diverse dalla cd. benzina per smacchiare) nelle
immediate vicinanze dei punti in cui erano stati prelevati i campioni»
(pag. 4 sentenza di primo grado).
E’ del tutto evidente, quindi, che la Corte territoriale ha violato il
costante principio di diritto sopra richiamato (SSUU 33748/2005 Rv.
231679), in quanto, ha completamente riformato la motivazione addotta
dal primo giudice, senza confutare specificamente i più rilevanti
argomenti della motivazione della prima sentenza, e senza dar conto
delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza. Al contrario, la
Corte ha addotto una motivazione perplessa e contraddittoria, in
quanto, pur dichiarando di volersi adeguare ai principi di diritto in ordine
alla valutazione della C.T. di parte (cfr pag. 3-4 della sentenza
impugnata in cui vengono richiamati i principi rammentati innanzi al §
2.1. sub b), poi, di fatto, li ha disattesi sulla base di una preconcetta
inattendibilità della C.t. di parte, senza spiegare, sulla base di quali
elementi scientifici e fattuali le conclusioni delle Consulenze tecniche
degli ingg. Valentini e Cafaro, non fossero attendibili contrariamente a
quanto ritenuto dal primo giudice.
Nello stesso vizio, la Corte, incorre, poi, quando, dopo aver
considerato – sia pure obtorto collo – la natura dolosa dell’incendio,
conclude affermando che non vi era la prova che fosse stata la Stallone
ad appiccarlo perché «ben poteva essere stato appiccato da parte di un
qualsiasi soggetto operanti dall’interno del capannone» e che l’accusa
aveva omesso di «verificare chi, oltre a lei [ndr: la Stallone], fosse in

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contrario risulta dalla sentenza di primo grado nella quale, da una parte,

possesso delle chiavi di accesso all’opificio e quindi potesse entrarvi
liberamente».
Sul punto, deve osservarsi, alla stregua della lettura della
sentenza di primo grado e dei motivi di appello dedotti dalla stessa
Stallone, che la questione delle chiavi in possesso di altre persone

dedotta come semplice allegazione: non si vede, quindi, per quali
ragioni il P.M. avrebbe dovuto indagare su un fatto che neppure la
difesa aveva mai prospettato. Da ciò consegue, che la motivazione
addotta sul punto dalla Corte, deve ritenersi incongrua ed illegittima in
quanto si fonda su un argomento del tutto ipotetico privo di ogni
qualsivoglia minimo riscontro probatorio.
Ugualmente manifestamente illogica e contraddittoria è la
motivazione nella parte in cui, nel riformare la sentenza di primo grado,
la Corte sostiene che vi sarebbero seri dubbi sulla natura della merce
incendiata.
Sul punto, questa Corte si limita ad osservare che, a fronte della
motivazione con la quale il primo giudice, alla stregua di un rigoroso
esame degli atti processuali, aveva concluso che sussistevano tutti gli
elementi della tentata truffa (cfr pag. 5 ss della sentenza di primo
grado), la Corte di Appello liquida la questione in poche battute (pag. 8,
par. 5.5.) in quanto, senza alcun esame di tutto il complesso compendio
probatorio indicato dal primo giudice, sostiene che esisterebbero «seri
dubbi sulla ricostruzione operata dal primo giudice»

in quanto aveva

svalutato «le deposizioni testimoniali dei testi Valente, Catalano e Di
Terlizzi».
Ma, la Corte territoriale, non si è avveduta che, in realtà, il primo
giudice, non aveva affatto svalutato le suddette testimonianze, ma,
molto più semplicemente, non le aveva ritenute utili alla decisione in
quanto «nessuno dei testi indicati dalla difesa (Valente, Catalano e Di
Terlizzi) è stato poi in grado di fornire indicazioni certe sulla tipologia e
qualità dei tessuti presenti nel capannone la sera dell’incendio».
La Corte, poi, tace completamente sulla documentazione fiscale,
sulla C.t. del perito industriale Brachi, sulla stima dell’ing. Cavallo e cioè

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diverse dall’imputata (e dal di lei marito), non era mai stata neppure

su tutto quel complesso compendio probatorio che il primo giudice
aveva esaminato.
In conclusione, il ricorso della parte civile dev’essere accolto
integralmente e la sentenza, sia pure ai soli effetti civili, dev’essere
annullata con conseguente rinvio davanti al giudice civile al quale

pure ai soli effetti civili: a) se la Stallone si sia resa colpevole dei fatti di
cui ai capi sub b) e c) dell’imputazione, alla stregua del principio di
diritto di cui al precedente § 1.5.; b) in caso affermativo, liquidare
l’eventuale danno subito dalla costituita parte civile.
Spese al definitivo.
P.Q.M.
ANNULLA
la sentenza impugnata ai soli effetti civili, con rinvio al giudice civile
competente per valore in grado di appello per nuovo giudizio;
Spese al definitivo
Roma 17/12/2013

spetterà rivalutare integralmente tutta la vicenda e, quindi, stabilire, sia

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