Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 18526 del 14/11/2012


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 18526 Anno 2013
Presidente: ZECCA GAETANINO
Relatore: MICHELI PAOLO

SENTENZA

sul ricorso proposto da
Emanuele Gaetano, nato a Vibo Valentia il 28/07/1975

avverso l’ordinanza del 28/02/2012 del Tribunale di Catanzaro

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Dott. Paolo Micheli;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott.
Giuseppe Volpe, che ha concluso chiedendo dichiararsi l’inammissibilità del
ricorso;
udito per il ricorrente l’Avv. Giovanni Aricò, che ha concluso chiedendo
l’accoglimento del ricorso e l’annullamento dell’ordinanza impugnata

RITENUTO IN FATTO

Data Udienza: 14/11/2012

1. Il Tribunale di Catanzaro, su richiesta di riesame proposta da Gaetano
Emanuele avverso un’ordinanza del G.i.p. dello stesso Tribunale emessa il
12/01/2012, rigettava il gravame con provvedimento adottato all’udienza del
28/02/2012 e la cui motivazione veniva depositata il successivo 17/03/2012.
Il collegio dava atto che il procedimento penale in relazione al quale era
intervenuta l’ordinanza restrittiva della libertà (anche) dell’Emanuele, sottoposto
alla misura cautelare della custodia in carcere, riguardava una complessa attività

investigazioni come una articolazione della associazione di tipo mafioso
),
Veniva rappresentato, in particolare, che gli
denominata indrangheta.
accertamenti avevano avuto impulso dopo la commissione di un duplice omicidio,
nell’aprile 2002, di cui erano rimasti vittima i fratelli Vincenzo e Giuseppe Loielo:
ne erano derivate molteplici attività di intercettazione (anche quanto ai colloqui
INSILAR”.
di soggetti già detenuti) nonché, negli anriìyg venire, i contributi di un elevato
numero di collaboratori di giustizia, seppure non tutti avessero poi mantenuto
fermo il proposito di seguire un percorso di collaborazione. Fra detti
collaboratori assumevano particolare rilevanza Francesco Loielo, Enzo Taverniti,
Michele Ganino, Giuseppe La Robina e Rocco Oppedisano: nella motivazione
dell’ordinanza si ricordava altresì Michele Iannello, soggetto che aveva iniziato a
collaborare in epoca antecedente e le cui dichiarazioni – proprio in virtù di
quanto narrato dagli altri, ma assai più tardi – avevano cominciato ad acquisire
pluralità di riscontri.
In proposito, il Tribunale segnalava che:
– la collaborazione di Francesco Loielo era iniziata in un periodo nel quale il
medesimo si trovava in carcere da 16 anni per fatti completamente diversi, e
doveva considerarsi genuina dal momento che il Loielo si era accusato di fatti
molto gravi, cui avevano partecipato anche altri soggetti, compresi alcuni dei
suoi fratelli;
– il Taverniti, a sua volta intraneo all’organizzazione giacché cognato del
suddetto Vincenzo Loielo uccìso nel 2002, aveva intrapreso il programma di
collaborazione in stato di libertà, riferendo anche su fatti in ordine ai quali non
erano ancora state formulate accuse a suo carico;
– il Ganino, il La Robina e l’Oppedisano erano a loro volta «soggetti gravitanti
nell’ambito dello stesso contesto mafioso di riferimento», ed avevano iniziato la
collaborazione con la giustizia – come già gli anzidetti Loielo e Taverniti – in
tempi e circostanze differenti, e parimenti diverse dovevano intendersi le fonti
informative dei vari dichiaranti;
– lo Iannello, pur avendo fatto parte di altre cosche o “locali”, aveva comunque
fornito sempre contributi risultati pienamente credibili;

di indagine avente ad oggetto la c.d. “ndrina dell’Ariola”, emersa all’esito di tali

- le dichiarazioni di tutti i collaboratori risultavano in gran parte relative a fatti
appresi direttamente, scevre da significative contraddizioni e da rilevanti vizi di
precisione, costanza e coerenza, oltre che comunque derivanti «da personaggi di
spiccato profilo criminale, organicamente inseriti nella societas sceleris, rivestenti
un ruolo primario all’interno di essa e depositari di un singolare tipo di
conoscenze fattuali apprese dai sodali o da malavitosi contigui all’organizzazione
criminale stessa»;
– i soggetti in questione avevano anche riferito su reati di cui si erano resi

la gravità delle condotte che essi stessi avevano commesso;
– le dichiarazioni medesime dovevano intendersi aver trovato «adeguata
conferma estrinseca, oltre che nelle rispettive concordi asserzioni degli altri
collaboranti (c.d. convergenza del molteplice) […], anche negli esiti delle
intercettazioni».
Il complesso di quegli elementi aveva consentito di chiarire che nel
territorio di Gerocarne – dove appunto si era consumato il duplice delitto sopra
ricordato – e zone limitrofe era da intendersi operante una strutturata
organizzazione criminale, nel cui ambito erano stati realizzati gli omicidi
anzidetti, così come altri in precedenza: struttura, peraltro, connotata da una
evidente frattura tra due schieramenti contrapposti, e che aveva portato
all’affermazione dì gruppi egemoni diversi nel corso degli anni: ciò era accaduto,
in vero, proprio a seguito dell’uccisione dei fratelli Loielo, quando quel gruppo
familiare era venuto a perdere ruolo apicale, ed allo stesso era subentrato il
gruppo che faceva invece capo alla famiglia Emanuele.
L’ordinanza operava quindi un excursus dei fatti più significativi, accertati
nel corso di anni di indagini passate poi al vaglio di organi giurisdizionali e che
già avevano portato alla pronuncia di sentenze irrevocabili, sulle dinamiche delle
organizzazioni criminali calabresi, strutturate in “locali” o “ndrine” a seconda del
numero degli affiliati: il gruppo che poteva denominarsi come “locale dell’Ariola”,
sulla base delle indicazioni dei collaboratori, risultava essere stato costituito
tempo addietro, fino a rendersi protagonista – sotto l’egida delle famiglie Maiolo
e Loielo – di vari omicidi e sequestri di persona a scopo di estorsione negli anni
Ottanta. Dal complesso delle dichiarazioni dei collaboratori, emergeva come la
figura di vertice del sodalizio fosse rappresentata da tale Antonio Altamura,
mentre i fratelli Vincenzo e Giuseppe Loielo, subentrati ad altri parenti e poi
uccisi nelle circostanze già accennate, avevano assunto la guida della struttura
“militare” del gruppo: a far data dall’aprile 2002, la direzione di quella struttura
era invece passata a Bruno Emanuele, avendo proprio costui assunto la decisione
di sopprimere i due Loielo.

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responsabili in prima persona, mai orientando le loro dichiarazioni a minimizzare

Con riguardo alla figura di Gaetano Emanuele, il Tribunale di Catanzaro
segnalava che:
– si trattava del fratello dell’anzidetto Bruno Emanuele, ed era stato proprio lui,
secondo il narrato dei collaboratori, ad assumere la direzione della cosca inserita
nella “locale” dell’Ariola capeggiata da Antonio Altamura, vuoi in stretta
cooperazione con il germano vuoi nei periodi in cui quest’ultimo si era trovato
,

ristretto in carcere per altri addebiti;
– Michele Ganino lo aveva indicato come un soggetto noto quale ‘ndranghetista,

fratello che altri affiliati consegnavano le armi oggetto di furti o rapine presso
abitazioni private;
– sempre a detta del Ganino, che riconosceva Gaetano Emanuele in una foto
esibitagli, il ricorrente aveva preso parte anche ad una rapina realizzata in danno
dell’ufficio postale di Dasà, in occasione del quale Pasquale De Masi si era ferito
ad una mano, ed in altra circostanza vi era stato un pranzo a casa dei fratelli
Emanuele – presente anche il collaboratore – in cui Gaetano era seduto alla
sinistra di Bruno, e si era parlato soprattutto di iniziative nel traffico di
stupefacenti;
– Rocco Oppedisano aveva sostenuto di aver fatto parte del clan facente capo a
Bruno Emanuele, dove anche Gaetano ricopriva un ruolo di vertice, tanto che in vista dell’affiliazione – l’Oppedisano era stato portato dal suddetto De Masi
proprio al cospetto di entrambi i fratelli, ed era stato sempre Gaetano, dopo che
il collaboratore si era allontanato per un certo periodo dalla Calabria, a chiedergli
ragione di quel comportamento ed a sollecitarlo di rientrare dei debiti maturati
con loro per questioni di droga (a dire dell’Oppedisano, la sua attività nel gruppo
si era appunto concentrata nel settore degli stupefacenti, curando fra l’altro di
recapitare cospicue forniture di cocaina agli stessi fratelli Emanuele, che ne
curavano poi il taglio, ed era stato altresì incaricato di danneggiamenti da
realizzare a scopo di estorsione, talora posti in essere unitamente allo stesso
ricorrente);
– Enzo Taverniti aveva indicato il ricorrente – al cui “battesimo” presso il clan
aveva personalmente assistito – come autore di atti di intimidazione con l’uso di
armi da fuoco, per essere andato a sparare con un fucile caricato a panettoni
(insieme allo stesso collaboratore) contro la serranda di una farmacia di Pizzoni,
ed in altra occasione – da solo – contro un camion che trasportava catrame,
nella circostanza ferendo anche il conducente;
– lo stesso Taverniti aveva aggiunto che Gaetano Emanuele gli aveva parlato di
numerose altre attività estorsive, ad alcune delle quali aveva partecipato
personalmente anche il collaboratore: in particolare, l’incendio di un autocarro

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precisando che aveva subito il sequestro di varie armi in quanto era a lui ed al

che trasportava rifiuti, e le minacce ad un gruppo di operai di una ditta
Impegnata nel taglio di un bosco;
– l’episodio dell’incendio in danno del camion che trasportava rifiuti costituiva
specifico addebito, contestato in sede cautelare al ricorrente (come pure altri
reati, segnatamente alcune delle attività estorsive di cui aveva parlato
l’Oppedisano, sulle quali però i giudici del riesame non ritenevano raggiunta la
soglia della gravità indiziaria): il Tribunale sottolineava come ne avesse riferito
non soltanto il Taverniti ma anche lo stesso Rocco Oppedisano, ricordando che a

avrebbe dovuto prendere parte egli stesso, ma era giunto in ritardo sul luogo
concordato con gli altri per l’incontro;
– ancora il Taverniti aveva indicato i fratelli Emanuele come i responsabili
dell’omicidio di Vincenzo e Giuseppe Loielo, nonché di essersi attivati per
sostenere l’elezione di Michele Altamura, nipote del boss Antonio, a sindaco del
comune di Gerocarne;
– Francesco Loielo aveva confermato l’indicazione dei fratelli Emanuele (pur non
ricordando il nome di battesimo del ricorrente) come responsabili dell’omicidio
dei suoi cugini nel 2002;
– Giuseppe La Robina aveva riferito agli inquirenti di essere entrato a far parte
nel 2008 di una struttura criminale capeggiata proprio da Gaetano Emanuele,
avendo ottenuto un incontro con lui tramite un cugino al fine di migliorare le
proprie entrate con «qualche lavoro illecito»: a seguito di quel primo contatto,
aveva avuto dal ricorrente – sempre attraverso il suddetto cugino, Luigi Pisani,
che poi lo aveva remunerato con 500,00 euro – l’incarico di fare da “ronda” a
copertura di un gruppo di persone che avrebbero dovuto incendiare l’auto di un
imprenditore reo di non avere pagato le tangenti che gli erano state imposte, ed
in altra occasione aveva dato fuoco alla ruspa di tale Francesco Martino (quando
però il Pisani gli aveva fatto capire che di ri a poco gli avrebbe commissionato il
compito di fare del male a qualcuno, il La Robina si era tirato indietro);
– le dichiarazioni dei vari collaboratori, con quelle dell’uno a costituire valido
riscontro all’autonomo contributo degli altri, sfuggivano a censure di sorta, non
descrivendo alcun fenomeno di circolarità in quanto le rispettive fonti informative
apparivano distinte;
– sussistevano ulteriori e specifici riscontri esterni a quelle dichiarazioni, fra cui
ad esempio l’accertata circostanza del sequestro di armi operato dai Carabinieri
di Serra San Bruno nel 2004 nei confronti dei fratelli Emanuele e di tale Franco
Idà.
Confermata pertanto la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza a carico
del prevenuto, i giudici del riesame rilevavano che nella fattispecie doveva

quell’iniziativa (realizzata da Gaetano Emanuele unitamente ad Angelo Maiolo)

trovare piena applicazione il meccanismo di presunzione legale di pericolosità
sociale previsto dall’art. 275, comma 3, cod. proc. pen., con la conseguente
necessità di mantenere la misura restrittiva di maggior rigore: l’Emanuele,
peraltro rimasto latitante per circa sette mesi, doveva intendersi in base agli
elementi raccolti inserito organicamente nell’ambito del sodalizio di stampo
mafioso oggetto di scrutinio, e responsabile di una serie di reati connotati da
«impressionante ripetitività», sì da rendere pacifico, anche al di là delle
presunzioni di legge, il rischio di recidiva specifica e senza che comunque

appartenenza.

2. Propone ricorso per cassazione, personalmente sottoscritto, l’indagato
Gaetano Emanuele.
2.1 Con il primo motivo il ricorrente deduce inosservanza ed erronea
applicazione della legge penale sostanziale (art. 416-bis cod. pen.), violazione
della legge processuale (artt. 273 e 125, comma 3, cod. proc. pen.), nonché
carenza della motivazione dell’ordinanza impugnata.
Richiamati alcuni principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità in
tema di gravi indizi di colpevolezza per quanto concerne i reati associativi,
l’Emanuele sostiene che nella fattispecie concreta non potrebbe dirsi essere stato
acquisito alcun elemento a sostegno dell’attualità della sua partecipazione
all’ipotizzato sodalizio criminoso: ciò perché i vari collaboratori di giustizia da cui
provengono le dichiarazioni accusatorie contribuiscono a descrivere un quadro da
riferire ad epoca piuttosto remota, riferendo tutti su episodi da collocare fra il
2000 e il 2003. Inoltre, su un piano più generale, il ricorrente lamenta che le
delazioni dei collaboratori non riguardano fatti di cui gli stessi abbiano avuto
percezione o conoscenza diretta, risolvendosi in mere propalazioni di quanto
appreso da altri (con riguardo a taluni dei reati-fine, anche in base a
indimostrate e inutilizzabili confidenze che lo stesso indagato avrebbe loro
riservato), e rimanendo in ogni caso prive di riscontri individualizzanti.
2.2 Sotto un secondo e differente profilo, l’Emanuele censura l’ordinanza
impugnata per mancanza e manifesta illogicità della motivazione: ad avviso del
ricorrente, il Tribunale del riesame si sarebbe limitato a fare propri in via
apodittica gli argomenti utilizzati prima dal P.M. e poi dal G.i.p., e non avrebbe
comunque analizzato gli elementi specificamente evidenziati dalla difesa nell’atto
di impugnazione, concernenti i temi del difetto di prova dell’attualità
dell’appartenenza del prevenuto al sodalizio criminoso e della genericità delle
dichiarazioni accusatorie, da intendersi de relato, provenienti dai collaboratori.

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emergesse alcunché a sostegno di un’eventuale cessazione del vincolo di

Viene in definitiva dedotto che i racconti dei collaboratori, in quanto
generici e rimasti privi di riscontro specifico, non potrebbero assurgere ad
elementi fondanti la gravità indiziarla.

CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso non può trovare accoglimento.

di pregressi interventi delle stesse Sezioni Unite (v. la sentenza n. 36267 del
30/05/2006, Spennato), deve intendersi dato acquisito che «ai fini di una
corretta valutazione della chiamata in correità il giudice è tenuto a seguire un
preciso ordine logico: a) in primo luogo, deve affrontare e risolvere il problema
della credibilità del dichiarante in relazione, tra l’altro, alla sua personalità, alle
sue condizioni socio-economiche, al suo passato, ai suoi rapporti con il chiamato
in correità, nonché alla genesi, prossima e remota, delle ragioni che lo hanno
indotto alla confessione e all’accusa dei coautori e dei complici; b) in secondo
luogo, deve verificare l’intrinseca consistenza e le caratteristiche delle sue
dichiarazioni, alla luce di criteri quali quelli, ad es., della precisione, della
coerenza, della costanza e della spontaneità; c) infine, egli deve procedere
all’esame dei riscontri cosiddetti esterni» (Cass., Sez. VI, n. 16939 del
20/12/2011, De Filippi, Rv 252630).
Alla luce di tali principi, deve qui essere ribadito che la dichiarazione di un
collaborante – qualora proveniente da un soggetto attendibile, nonché laddove
risulti ex se precisa, coerente e circostanziata – può costituire fonte di
convincimento circa la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, qualora la
stessa abbia trovato riscontro in elementi esterni, anche di natura logica, che
siano tali da rendere verosimile il contenuto della chiamata stessa. Il riscontro
esterno, idoneo a confermare l’attendibilità del dichiarante, può essere costituito
da altra dichiarazione convergente, resa in piena autonomia rispetto alla
precedente, tanto da escludere il dubbio di reciproche influenze, e deve
comunque apprezzarsi come riscontro individualizzante: ciò accade quando non
consiste semplicemente nell’oggettiva conferma del fatto riferito dal chiamante,
bensì offre elementi che collegano il fatto stesso alla persona del chiamato,
fornendo un preciso contributo dimostrativo dell’attribuzione a quest’ultimo del
reato contestato, e – in negativo – a mezzo dell’accertamento dell’inesistenza di
elementi processuali incompatibili o comunque contrastanti con l’impianto
accusatorio (v. in proposito la sentenza di questa Sezione, n. 18097 del
13/04/2010, Di Bona, Rv 247147, secondo cui «in tema di misure cautelari

iy

7

Secondo la ormai consolidata giurisprudenza di legittimità, anche all’esito

personali, la chiamata di correo quale grave indizio di colpevolezza, oltre che
essere apprezzatot nella sua attendibilità intrinseca, deve essere supportat9 da
riscontri esterni individualizzanti in grado di dimostrarne la compatibilità col
thema decidendum proprio della pronuncia de libertate e di giustificare, quindi,
la razionalità della medesima, essendo l’esigenza della

corroboration – che

inerisca non solo alle modalità oggettive del fatto descritto dal chiamante ma
anche soggettivamente indirizzata – imprescindibile nell’ambito di una
valutazione che è strumentale all’adozione di un provvedimento, quale quello

Nel caso di specie, l’ordinanza del Tribunale di Catanzaro dà contezza con motivazione lineare e fornita di coerenza logica nello sviluppo argomentativo
– degli elementi presi in esame al fine di riconoscere attendibilità soggettiva ai
non pochi collaboratori da cui risulta essere stato offerto un contributo
significativo onde chiarire il ruolo di Gaetano Emanuele all’interno del presunto
sodalizio criminoso (sodalizio la cui esistenza appare peraltro accertata a
prescindere dall’analisi delle suddette delazioni), nonché credibilità a quanto da
loro riferito sul conto dell’odierno ricorrente: sul primo punto, viene evidenziato
fra l’altro che le dichiarazioni di tutti i collaboratori non risultano essere state il
frutto di pregressi rancori nutriti nei confronti dei coindagati, ed appaiono nella
gran parte dei casi riguardare anche reati commessi dagli stessi dichiaranti; si
tratta, inoltre, di soggetti certamente bene inseriti nella struttura criminale di cui
hanno inteso delineare le attività, perciò sicuramente in grado di conoscere chi vi
fosse affiliato e mediante quali condotte gli altri compartecipi avessero
manifestato il vincolo di appartenenza.
Secondo l’Emanuele, come ricordato, si tratterebbe di dichiarazioni de
relato, e comunque indicative di una partecipazione del prevenuto alla struttura
criminale in epoca assai risalente nel tempo: le censure non sono condivisibili. Il
Ganino, fra l’altro, ha riferito tra l’altro di un pranzo al quale ebbe a partecipare
direttamente, insieme al ricorrente, nel quale si parlò apertis verbis di droga;
Rocco Oppedisano ha rappresentato che era stato proprio Gaetano Emanuele, in
compagnia del fratello, a presiedere alla sua affiliazione al clan (e sempre il
ricorrente aveva battuto cassa presso di lui per precedenti debiti in tema di
forniture di stupefacenti, oltre a partecipare con lo stesso Oppedisano ad attività
di intimidazione in danno di imprenditori); il Taverniti ha narrato di essersi
trovato con l’Emanuele quando vennero esplosi colpi di fucile contro la sede di un
esercizio commerciale; Giuseppe La Robina ha indicato Gaetano Emanuele come
colui che ebbe a contattare per essere iniziato a condotte illecite strumentali ai
fini dell’associazione criminale.

8

restrittivo della libertà, dagli effetti rigorosamente ad personam»).

Non si vede dunque come possa concretamente sostenersi che i
collaboratori abbiano riferito soltanto notizie apprese da altri.
Quanto poi all’esistenza di riscontri, secondo l’ordinanza impugnata non
se ne rinvengono soltanto dalla (già sufficiente) convergenza di quelle
dichiarazioni, ma anche dagli esiti di attività di polizia giudiziaria obiettivamente
documentate, peraltro da collocare nel 2004 e dunque almeno un anno dopo
rispetto al periodo che secondo i motivi di ricorso risulterebbe descritto dai
collaboratori per inquadrare sul piano cronologico il momento della concreta

La giurisprudenza di questa Corte, come sopra ricordato, ammette
pacificamente che il riscontro alla dichiarazione di un collaboratore possa essere
offerto da quella di un altro: purché, come parimenti segnalato, i due contributi
siano in rapporto di autonomia e non invece il frutto di influenze reciproche. Nel
caso di specie, è impossibile affermare che i molteplici dichiaranti abbiano
concordato le rispettive dichiarazioni (anche sul conto dell’Emanuele), ovvero
che l’uno abbia adattato le proprie sul contenuto di quelle già rese dall’altro, e va
considerato che tutti o quasi hanno indicato il ricorrente non solo come partecipe
del sodalizio, ma anche quale responsabile di condotte determinate.
Non ricorre, in definitiva, la ben diversa situazione in cui è necessario
affermare che «la convergenza di plurime attendibili dichiarazioni che si limitino
ad affermare la generica conoscenza dell’appartenenza di un soggetto ad un
sodalizio criminoso non costituiscono un compendio indiziario sufficientemente
grave per l’adozione di una misura cautelare personale per reato associativo»
(Cass., Sez. VI, n. 40520 del 25/10/2011, Falcone, Rv 251063).
Quanto alla pretesa lontananza nel tempo della dimostrata intraneità
dell’Emanuele al sodalizio, con la conseguenza che – stando alla tesi difensiva non risulterebbe alcuna gravità indiziarla circa l’attualità della sua
partecipazione, è appena il caso di ricordare che secondo la giurisprudenza di
legittimità «la perdurante appartenenza al gruppo di persona della quale sia
provata l’affiliazione può essere correttamente ritenuta in qualunque momento,
ove manchi la notizia di una sua intervenuta dissociazione» (v.,

ex plurimis,

Cass., Sez. II, n. 17100 del 22/03/2011, Curtopelle, Rv 250021, dove il principio
risulta affermato anche nel caso di sopravvenuta restrizione in carcere
dell’associato per delinquere).

2. Il rigetto del ricorso comporta la condanna dell’Emanuele al pagamento
delle spese del presente giudizio di Cassazione.

9

appartenenza dell’Emanuele al clan.

Dal momento che alla presente decisione non consegue la rimessione in
libertà del ricorrente, dovranno essere curati dalla Cancelleria gli adempimenti di
cui al dispositivo.

P. Q. M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94, comma 1 ter, disp.
att. cod. proc. pen.

Così deciso il 14/11/2012.

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