Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 18497 del 31/01/2018


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Penale Sent. Sez. 1 Num. 18497 Anno 2018
Presidente: DI TOMASSI MARIASTEFANIA
Relatore: DI GIURO GAETANO

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
PIZZI DOMENICO nato il 19/09/1962 a MELITO DI PORTO SALVO

avverso l’ordinanza del 09/06/2017 del TRIBUNALE di RAVENNA
sentita la relazione svolta dal Consigliere GAETANO DI GIURO;
lette/serrtite le conclusioni del PG
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Data Udienza: 31/01/2018

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1.

Con l’ ordinanza in epigrafe indicata il Tribunale di Ravenna, quale giudice

dell’esecuzione, ha rigettato l’istanza, avanzata nell’interesse di Pizzi Domenico, di
annullamento o di sospensione dell’efficacia dell’ordine di esecuzione emesso nei suoi confronti
dal P.m. di Ravenna il 12/12/2016, con cui era disposta la carcerazione dello stesso per un

afferma di non condividere l’orientamento della giurisprudenza di legittimità favorevole ad una
sospensione delle pene detentive fino a quattro anni nelle ipotesi previste dall’ art. 47, comma
3 bis ord. pen.. E ciò sulla base della considerazione che la disposizione contenuta nell’ art.
656, comma 5 cod. proc. pen. costituisce, pur sempre, un’ eccezione alla regola generale
secondo cui, quando una pena diventa definitiva, il P.m. deve emettere l’ordine di esecuzione
ed ordinare la carcerazione, e che, pertanto, il chiaro tenore letterale della norma non ne
consente un’ applicazione estensiva fondata su “un rapporto interpretativo necessario” tra la
stessa e l’art. 47 ord. pen..
2. Avverso tale ordinanza propone ricorso per cassazione, tramite i propri difensori, Pizzi
Domenico, lamentando violazione degli artt. 656, comma 5 cod. proc. pen. e 47, comma 3 bis
ord. pen.. I difensori invocano l’annullamento dell’ordinanza impugnata, lamentando che la
stessa non si allinei all’interpretazione sistematico-evolutiva di cui alla sentenza di questa
Corte n. 51864 del 31/05/2016, che, colmando il mancato coordinamento tra l’art. 656,
comma 5 cod. proc. pen. e il comma 3 bis dell’art. 47 ord. pen., successivamente entrato in
vigore, ha affermato il principio per cui, a fronte di una richiesta di affidamento in prova al
servizio sociale ai sensi della norma in ultimo menzionata, l’esecuzione della pena debba
essere sospesa, quando la stessa, anche residua, non superi i 4 anni di reclusione.
3. Il ricorso è infondato.
La giurisprudenza richiamata dal ricorso proposto (Sez. 1, n. 51864 del 31/05/2016,
Fanini, Rv. 270007; e in senso conforme : Sez. 1, n. 37848 del 4/03/2016, Trani, Rv. 267605,
e Sez. 1, n. 53426 del 9/11/2016, Hu Dongfang, n.m.) è stata superata da arresti più recenti
di questa Corte, di segno contrario (Sez. 1, n. 46562 del 21/09/2017, Gjini, Rv. 270923 e
quelle successive: Sez. 1, n. 54128 del 26/09/2017, P.M. c. Martella, n.m.; Sez. 1, n. 54512
del 26/09/2017, Metaj, n.nn.; Sez. 1, n. 56369 del 13/09/2017, Biba, n.m.; Sez. 1, n. 58062
del 30/10/2017, Minutillo, n.m.), essendosi in essi esclusa, alla luce del dato testuale e delle
scelte normative, la possibilità di ricorrere ad una lettura di tipo evolutivo della disposizione in
esame, ritenuta di stretta interpretazione (si è evidenziato, tra l’altro, che il canone
dell’interpretazione evolutiva è tradizionalmente escluso nel settore penale, poiché in contrasto
con i principi costituzionali della riserva di legge e della separazione dei poteri: v. nn. 11 e 12
della sentenza n. 230/2012 C.Cost.). Si è, in particolare, condivisibilmente affermato che, a
differenza dei casi previsti dall’art. 656, commi 5 e 10, cod. proc. pen., l’ipotesi introdotta

residuo di pena di tre anni, sette mesi e due giorni di reclusione. In tale ordinanza il Tribunale

all’art. 47, comma 3-bis, ord. pen. (che ha previsto la concessione dell’affidamento in prova al
servizio sociale al condannato che deve espiare una pena, anche residua, non superiore a
quattro anni di detenzione), non può avere un’applicazione «automatica» da parte dell’organo
dell’esecuzione penale, essendo richiesta una specifica valutazione di merito del
comportamento tenuto dal condannato nell’anno precedente, di esclusiva competenza del
Tribunale di sorveglianza (cui il P.m., quindi, non può sostituirsi), sulla base dei dati
dell’osservazione anche extra muraria.
Tale interpretazione, del resto, appare corroborata dal recente intervento del legislatore

103, recante «Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento
penitenziario»), attraverso la formulazione di precisi criteri di delega (art. 1, comma 85, lett. c)
tra i quali spicca, per la sua specifica rilevanza, la «revisione della disciplina concernente le
procedure di accesso alle misure alternative, prevedendo che il limite di pena che impone la
sospensione dell’ordine di esecuzione sia fissato in ogni caso a quattro anni […]».
È evidente, infatti, che il criterio di delega, volto a elevare a quattro anni il limite di pena
per la sospensione obbligatoria dell’ordine di carcerazione, sarebbe superfluo nell’ottica
dell’interpretazione evolutiva di cui al primo orientamento di questa Corte, posto a sostegno
del ricorso.
Ne consegue che il Tribunale di Ravenna correttamente ha ritenuto ammissibile la
sospensione dell’ordine di esecuzione solo a fronte di pene non superiori a tre anni di
detenzione.
Deve, comunque, darsi atto che successivamente alla decisione e nelle more del deposito
della motivazione della presente sentenza, la Corte costituzionale, con sentenza del
2/03/2018, n. 41, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale “dell’art. 656, comma 5, del codice
di procedura penale, nella parte in cui si prevede che il pubblico ministero sospende
l’esecuzione della pena detentiva, anche se costituente residuo di maggiore pena, non
superiore a tre anni, anziché a quattro anni”; così ripristinando la simmetria tra il testo dell’art.
656, comma 5 cod. proc. pen. e quello dell’art. 47 ord. pen. ( il che impone al giudice della
esecuzione la rivalutazione dei casi ancora pendenti o comunque relativi a situazioni non
ancora esaurite ).
2. Al rigetto del ricorso consegue, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del
Pizzi al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processua
Così deciso in Roma, il 31 gennaio 2018.

t

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nel settore dell’ordinamento penitenziario (art. 1, commi 82 e 85, legge 23 giugno 2017, n.

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