Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 18492 del 30/11/2012


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 18492 Anno 2013
Presidente: TERESI ALFREDO
Relatore: MICHELI PAOLO

SENTENZA

sul ricorso proposto nell’interesse di
De Luca Vincenzo, nato a Polistena il 25/02/1951

avverso la sentenza emessa il 23/09/2011 dalla Corte di appello di L’Aquila

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Dott. Paolo Micheli;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott.ssa
Maria Giuseppina Fodaroni, che ha concluso chiedendo dichiararsi
l’inammissibilità del ricorso

RITENUTO IN FATTO

Il difensore di Vincenzo De Luca ricorre per cassazione ayverso la sentenza
indicata in epigrafe, recante la parziale riforma – in punto di entità della pena
inflitta – della condanna pronunciata dal G.u.p. del Tribunale di Teramo nei
confronti dello stesso De Luca, imputato dei delitti di bancarotta fraudolenta per

Data Udienza: 30/11/2012

distrazione e documentale, a lui contestati nella qualità di amministratore unico
della Demak S.r.l., dichiarata fallita nel 2006. La responsabilità del prevenuto
doveva intendersi accertata (secondo le argomentazioni del giudice di prime
cure, fatte proprie dalla Corte territoriale) in virtù delle seguenti circostanze:
– il curatore del fallimento aveva chiarito che non gli era stata consegnata
documentazione contabile per gli esercizi del 2005 e 2006, ad eccezione
di alcune fatture;
secondo lo stesso curatore, le scritture disponibili indicavano che la

4.750.000,00 euro, ma dagli accertamenti compiuti presso i presunti
debitori era risultato che quelle obbligazioni erano già state adempiute,
così emergendo l’inattendibilità dei libri contabili rinvenuti;
tra le fatture acquisite, ve ne erano 50 che attestavano vendite non
registrate in contabilità, per un controvalore di circa 2.100.000,00 euro;
il saldo di cassa alla fine dell’esercizio 2004 risultava pari a poco più di
186.000,00 euro, ma non si era trovata traccia di detta liquidità.
Il ricorrente lamenta inosservanza ed erronea applicazione della legge
penale, nonché mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della
motivazione della sentenza impugnata, sotto quattro profili sviluppati a mezzo di
distinti motivi di ricorso:
1)

con riguardo all’art. 216 legge fall., non essendo emersa la prova
dell’avvenuto pagamento delle somme portate dalle 50 fatture sopra
richiamate, di cui il curatore si era limitato ad accertare l’avvenuta
iscrizione nei libri giornali delle ditte debitrici, senza invece appurare con
quali modalità sarebbe intervenuta la effettiva corresponsione delle
somme de quibus;

2)

ancora in ordine all’art. 216 del r.d. n. 267 del 1942, nonché all’art. 43
cod. pen., in punto di ravvisabilità dell’elemento soggettivo del delitto di
bancarotta in capo al De Luca, da intendersi quale «consapevolezza del
danno o della possibilità del danno per la massa dei creditori»,
richiedendo la norma incriminatrice «la coscienza e la volontà di
vulnerare l’interesse dei creditori medesimi alla conservazione della
garanzia»;

3)

in relazione agli artt. 216 e 217, comma secondo, legge fall., dovendosi
escludere la responsabilità dell’imputato per il reato di bancarotta
documentale in quanto egli mise a disposizione degli organi della
procedura «gran parte della documentazione contabile», ed il curatore
pervenne a conclusioni comunque indicative del movimento degli affari

Demak, al 31/12/2004, vantava crediti assai ingenti, per oltre

4) infine, sempre quanto al combinato disposto dei suddetti artt. 216 e 217,
per non essere state adeguatamente distinte – sul piano della ricerca
della norma incriminatrice applicabile al caso di specie – le previsioni
penali relative alla bancarotta fraudolenta documentale da quelle che
sanzionano la meno grave condotta di bancarotta semplice.

1. Il ricorso è inammissibile, giacché tende a sottoporre al giudizio di
legittimità aspetti che riguardano la ricostruzione del fatto e l’apprezzamento del
materiale probatorio, da riservare alla esclusiva competenza del giudice di merito
e già adeguatamente valutati sia dal G.u.p. di Teramo che dalla Corte di appello
di L’Aquila.
Alla Corte di Cassazione deve ritenersi preclusa la rilettura degli elementi di
fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l’autonoma adozione di
nuovi o diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, ritenuti
maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa, dovendo il
giudice di legittimità soltanto controllare se la motivazione della sentenza di
merito sia intrinsecamente razionale e capace di rappresentare e spiegare l’iter
logico seguito. Quindi non possono avere rilevanza le censure che si limitano ad
offrire una lettura alternativa delle risultanze probatorie, e la verifica della
correttezza e completezza della motivazione non può essere confusa con una
nuova valutazione delle risultanze acquisite: la Corte, infatti, «non deve
accertare se la decisione di merito propone la migliore ricostruzione dei fatti, né
deve condividerne la giustificazione, ma limitarsi a verificare se questa
giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile
opinabilità di apprezzamento» (v., ex plurimis, Cass., Sez. IV, n. 4842 del
02/12/2003, Elia).
Né i parametri di valutazione possono dirsi mutati per effetto delle modifiche
apportate all’art. 606 cod. proc. pen. con la legge n. 46 del 2006, essendo stato
affermato e più volte ribadito che anche all’esito della suddetta riforma «gli
aspetti del giudizio che consistono nella valutazione e nell’apprezzamento del
significato degli elementi acquisiti attengono interamente al merito e non sono
rilevanti nel giudizio di legittimità se non quando risulti viziato il discorso
giustificativo sulla loro capacità dimostrativa e Li, pertanto, restano
inammissibili, in sede di legittimità, le censure che siano nella sostanza rivolte a
sollecitare soltanto una rivalutazione del risultato probatorio» (Cass., Sez. V, n.
8094 dell’11/01/2007, Ienco, Rv 236540).

3

CONSIDERATO IN DIRITTO

4.

Nella fattispecie, la motivazione della sentenza della Corte territoriale non fa
apprezzare alcuna incongruità, come invece sostenuto nel ricorso: sono anzi le
prospettazioni difensive a risultare fuorvianti, ad esempio laddove si segnala che
il De Luca avrebbe messo a disposizione della curatela fallimentare «gran parte»
delle scritture contabili, al contempo definite «rare e modeste». Chiaramente
inerente il fatto è la doglianza difensiva afferente il raggiungimento della prova
dell’effettivo pagamento delle somme indicate nelle fatture di vendita non
registrate, che i giudici di merito hanno ritenuto – con argomentazione plausibile
del fallimento, mentre in ordine al contestato elemento soggettivo deve
ricordarsi che secondo la giurisprudenza di legittimità, ai fini della sussistenza del
delitto di bancarotta, «non ha alcun rilievo la mancanza del nesso causale con il
pregiudizio ai creditori, in quanto i fatti di distrazione, una volta intervenuta la
dichiarazione di fallimento, assumono rilevanza penale in qualunque tempo essi
siano stati commessi, e quindi anche se la condotta si è realizzata quando ancora
l’impresa non versava in condizioni di insolvenza, non richiedendo la legge L]
un nesso causale o psichico tra la condotta dell’autore e il dissesto dell’impresa,
e, quindi il pregiudizio dei creditori, previsto soltanto per l’ipotesi di cui alla legge
fall., art. 223, comma 2 […]. Ne discende che, ai fini dell’elemento soggettivo,
non è necessario il dolo specifico, e cioè la consapevolezza di portare al dissesto
la società, ma è sufficiente il dolo generico, consistente nella consapevole
volontà di dare al patrimonio sociale una destinazione diversa da quella di
garanzia delle obbligazioni contratte» (Cass., Sez. V, n. 11899 del 14/01/2010,
Rizzardi).
Va infine rilevata l’inammissibilità dell’ultimo motivo di ricorso anche sotto il
diverso ed ulteriore profilo della genericità delle doglianze difensive: al di là,
infatti, di una mera disamina delle differenze strutturali fra i reati
rispettivamente previsti dagli artt. 216 e 217 legge fall., non viene neppure
affermato che nella fattispecie dovrebbe semmai ravvisarsi l’addebito meno
grave, né vengono illustrate le ragioni dell’implicito assunto.
2. La declaratoria di inammissibilità del ricorso, ai sensi dell’art. 616 cod.
proc. pen., impone la condanna dell’imputato al pagamento delle spese del
procedimento, nonché – ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della
causa di inammissibilità, in quanto riconducibile alla volontà del ricorrente (v.
Corte Cost., sent. n. 186 del 13/06/2000) – al pagamento in favore della Cassa
delle Ammende della somma di C 1.000,00, così equitativamente stabilita.

e non manifestamente illogica – di desumere da quanto attestato dal curatore

P. Q. M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di euro 1.000,00 in favore della Cassa delle
Ammende.

Così deciso il 30/11/2012.

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