Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 18491 del 22/11/2012


Clicca qui per richiedere la rimozione dei dati personali dalla sentenza

Penale Sent. Sez. 5 Num. 18491 Anno 2013
Presidente: ZECCA GAETANINO
Relatore: GUARDIANO ALFREDO

SENTENZA

sul ricorso proposto da
1) Vadalà Carmelo, nato il 28.4.1982 a Melito Porto Salvo; 2)
Vadatà Carmelo, nato il 22.8.1980 a Reggio Calabria; 3) Vadalà
Domenico, nato il 22.1.1949 a Bova Marina; 4) Altomonte
Sebastiano, nato il 2.8.1954 a Bova; 5) Mauro Mario Domenico,
nato il 6.11.1959 a Melito Porto Salvo; 6) Modaffari Leone, nato il
13.4.1953 a Bova Marina; 7); Catroppa Dante, ‘nato il 26.5.1956
a Brancaleone; 8) Taormina Antonino, nato il 2.10.1930 a Bova;
9) Carrozza Vincenzo, nato il 6.1.1983 a Locri; 10) Cilione

Data Udienza: 22/11/2012

Francesco, nato il 16.9.1982 a Melito Porto Salvo; 11) Cilione
Pietro, nato il 23.11.1947 a Melito Porto Salvo; 12) D’Aguì
Francesco, nato il 31.10.1968 a Melito Porto Salvo; 13) Talia
Giovanni, nato il 22.1.1957 a Bova Marina; 14) Vadalà Antonino,
nato il 25.5.1952 a Bova Marina; 15) D’Aguì Terenzio Antonio,
nato il 9.6.1961 a Melito Porto Salvo; 16) Morabito Bruno, nato il

Melito Porto Salvo; 18) Morabito Domenico, nato il 22.6.1975 a
Locri; 19) Stilo Costantino, nato il 20.9.1981° Locri; 20) Spanò
Francesco, nato il 24.8.1958 a Palizzi; 21) Morello Leone, nato il
20.2.1944 a Palizzi, avverso la sentenza pronunciata dalla corte di
appello di Reggio Calabria il 4.11.2011;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi;
udita la relazione svolta dal consigliere dott. Alfredo Guardiano;
udito il pubblico ministero nella persona del sostituto procuratore
generale dott. Luigi Riello, che ha concluso per il rigetto di tutti i
ricorsi;
uditi i difensori delle costituite parti civili Amministrazione
Provinciale di Reggio Calabria, Comune di Bova Marina, Comune di
Africa, Comune di Palizzi, Regione Calabria, che hanno concluso
per il rigetto dei ricorsi, presentando distinte conclusioni scritte e
note spese;
uditi per i ricorrenti gli avvocati: Maurizio Puntorieri e Ettore
Aversano, difensori di Stilo Costantino; Domenico Vadalà e Pietro
Modaffari, difensori di Modaffari Leone e di Catroppa Dante;
Antonino Curatala, difensore di Altomonte Sebastiano; Carlo
Taormina, difensore di D’Aguì Terenzio Antonio; Antonio Managò
e Antonio Russo, difensori di Vadalà Carmelo, classe ’80, e di
Vadalà Domenico; Pietro Modaffari in sostituzione dell’avv. Enzo

2

1.4.1941 ad Africo; 17) Tuscano Carmelo, nato il 28.10.1963 a

Caccavari, difensore di Taormina Antonino; Rocco Guttà,
difensore di Carrozza Vincenzo; Demetrio Francesco Floccari,
difensore di Vadalà Carmelo, classe ’82, e di Vadalà Antonino;
Mirna Raschi e Roberto Rampioni, difensori di Tana Giovanni;
Carlo Ryolo e Francesco Calabrese, difensori di Morabito
Domenico; Francesco Calabrese, in sostituzione dell’avv.

concluso per l’accoglimento dei rispettivi ricorsi.

FATTO E DIRITTO

Con sentenza pronunciata il 23.11.2009 il giudice per le indagini
preliminari presso il tribunale di Reggio Calabria, in sede di
giudizio abbreviato, condannava gli attuali ricorrenti 1) Vadalà
Carmelo, nato a Melito Porto Salvo il 28.4.1982; 2) Vadalà
Carmelo, nato a Reggio Calabria il 22.8.1980; 3) Vadalà
Domenico; 4) Altomonte Sebastiano; 5) Mauro Mario Domenico;
6) Modaffari Leone; 7); Catroppa Dante; 8) Taormina Antonino;
9) Carrozza Vincenzo; 10) Cilione Francesco; 11) Cilione Pietro;
12) D’Aguì Francesco; 13) Talia Giovanni; 14) Vadalà Antonino;
15) D’Aguì Terenzio Antonio; 16) Morabito Bruno; 17) Tuscano
Carmelo; 18) Morabito Domenico; 19) Stilo Costantino; 20)
Spanò Francesco; 21) Morello Leone alle pene ritenute di giustizia
per il delitto di cui all’art. 416, bis, co. 1, 2, 3, 4, 5, 6 ed 8, c.p.,
oltre al risarcimento dei danni derivanti da reato in favore delle
costituite parti civili.
Con sentenza pronunciata il 4.11.2011 la Corte di appello di
Reggio Calabria riformava parzialmente la sentenza di primo

3

//

Salvatore Staiano, difensore di Morello Leone, che hanno tutti

grado, esclusivamente sotto il profilo del trattamento
sanzionatorio, comminando pene inferiori rispetto a quelle inflitte
in primo grado e confermando nel resto l’impugnata sentenza.
Avverso tale decisione, di cui chiedono l’annullamento, hanno
proposto ricorso per Cassazione i predetti imputati, articolando
diversi motivi di impugnazione.

ragioni di economia processuale e di ordine sistematico
impongono di svolgere alcune considerazioni di carattere generale
allo scopo sia di evitare inutili ripetizioni, che di illustrare i criteri
cui questo Collegio intende attenersi nella valutazione dei ricorsi
presentati dagli imputati.
Al riguardo, va, innanzitutto, rilevato che nell’esaminare i motivi di
ricorso si procederà ad una lettura integrata delle sentenze di
primo e di secondo grado, da considerare un prodotto unico, in
quanto la decisione della corte territoriale e quella del giudice per
le indagini preliminari hanno utilizzato criteri omogenei di
valutazione e seguito un apparato logico argomentativo uniforme
(cfr. Cass., sez. 3, 1.2.2002-12.3.2002, n. 10163, Lombardozzi
D., rv. 221116).
Opportuno, poi, appare soffermarsi brevemente sui principi in
tema di inammissibilità del ricorso per Cassazione, posto che
diversi sono i profili di inammissibilità di alcuni dei motivi posti a
fondamento dei ricorsi presentati dagli imputati.
Orbene, come è noto, una prima causa di inammissibilità va
individuata nella genericità dei motivi di ricorso in violazione
dell’art. 581, lett. c), c.p.p., che nel dettare, in generale, quindi
anche per il ricorso in Cassazione, le regole cui bisogna attenersi
nel proporre l’impugnazione, stabilisce che nel relativo atto scritto

4

Prima di procedere all’esame delle singole posizioni dei ricorrenti,

debbano essere enunciati, tra gli altri, “i motivi, con l’indicazione

specifica delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che
sorreggono ogni richiesta”; violazione che, ai sensi dell’art. 591,
co. 1, lett.

c),

c.p.p., determina l’inammissibilità

dell’impugnazione stessa (cfr. Cass., sez. VI, 30.10.2008, n.
47414, Arruzzoli e altri, rv. 242129; Cass., sez. VI, 21.12.2000,

E’ inammissibile, altresì, ai sensi del combinato disposto degli artt.
581, co. 1 , lett. c), e 591, co. 1, lett. c), il ricorso per Cassazione
fondato, come in molti dei ricorsi presentati dagli imputati, su
motivi che ripropongono le stesse ragioni già discusse e ritenute
infondate dai giudici del gravame, dovendosi gli stessi considerare
non specifici, ed anzi, meramente apparenti, in quanto non
assolvono la funzione tipica di critica puntuale avverso la sentenza
oggetto di ricorso.
La mancanza di specificità del motivo, infatti, deve essere
apprezzata non solo per la sua genericità, come indeterminatezza,
ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni
argomentate della decisione impugnata e quelle poste a
fondamento dell’impugnazione, questa non potendo ignorare le
esplicitazioni del giudice censurato, senza cadere nel vizio di
mancanza di specificità, conducente, a norma dell’art. 591, co. 1,
lett. c), c.p.p., all’inammissibilità (cfr. Cass., sez. IV, 18.9.1997 13.1.1998, n. 256, rv. 210157; Cass., sez. V, 27.1.2005 25.3.2005, n. 11933, rv. 231708; Cass., sez. V, 12.12.1996, n.
3608, p.m. in proc. Tizzani e altri, rv. 207389).
Infine, ulteriore causa di inammissibilità deve individuarsi nella
esposizione di censure attinenti al fatto.

5

n. 8596, Rappo e altro, rv. 219087).

Siffatte censure, infatti, si risolvono in una mera rilettura degli
elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata,
sulla base di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e
valutazione dei fatti, preclusa in sede di giudizio di cassazione
(cfr. Cass., sez. I, 16.11.2006, n. 42369, De Vita, rv. 235507;
Cass., sez. VI, 3.10.2006, n. 36546, Bruzzese, rv. 235510; Cass.,
Ed invero non può non rilevarsi come il controllo del giudice di
legittimità, pur dopo la novella dell’art. 606, c.p.p., ad opera della
I. n. 46 del 2006, si dispiega, pur a fronte di una pluralità di
deduzioni connesse a diversi atti del processo, e di una correlata
pluralità di motivi di ricorso, in una valutazione necessariamente
unitaria e globale, che attiene alla reale esistenza della
motivazione ed alla resistenza logica del ragionamento del
giudice di merito, essendo preclusa al giudice di legittimità la
rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione
o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione
e valutazione dei fatti (cfr. Cass., sez. VI, 26.4.2006, n. 22256,
Bosco, rv. 234148).
Ciò posto, occorre, sia pure sinteticamente, illustrare il quadro
accusatorio delineato a carico degli imputati nelle sentenze di
primo e di secondo grado.
Ciascuno dei ricorrenti è stato ritenuto dai giudici di merito
componente, sia pure con diversi ruoli e funzioni, della
organizzazione a delinquere di stampo mafioso denominata
“ndrangheta” ed, in particolare, delle sue articolazioni territoriali
denominate “cosca Morabito-Bruzzaniti-Palamara”, “cosca
Maisano”, “cosca Vadalà”, “cosca Talia”, le ultime due a loro volta
federate ed operanti attraverso un apposito organismo direttiva

6

sez. III, 27.9.2006, n. 37006, Piras, rv. 235508).

denominato dagli associati “base”, finalizzate, tra l’altro, ad
ottenere, avvalendosi della forza di intimidazione derivante dal
vincolo associativo e della rilevante condizione di
assoggettamento e di omertà che deriva dall’esistenza di tale
organizzazione a delinquere, la gestione o, comunque, il controllo
della fase esecutiva dell’appalto pubblico relativo ai lavori di

manutenzione della strada statale 106 – variante all’abitato di
Palizzi – rientrante nel programma delle grandi opere di
competenza dell’A.N.A.S. S.p.a – Ente Nazionale per le strade e di
quello bandito dalla Provincia di Reggio Calabria, settore lavori
pubblici, riguardante la realizzazione dello stabile dell’istituto
superiore “Euclide”, comprendente anche l’istituto tecnico per
geometri ed il liceo scientifico, inserendo in tale fase imprese
operanti nel settore della fornitura dei materiali da utilizzare nello
svolgimento dei lavori e nelle attività cosiddetto di “movimento
terra”, riconducibili, direttamente o indirettamente, alle
menzionate cosche mafiose, lucrando, in tal modo, i relativi
profitti e vantaggi legati alla posizione di predominio conseguita
sul mercato, da considerare ingiusti in quanto non dovuti al libero
gioco della domanda e dell’offerta, ma all’imposizione mafiosa.
Nella sentenza oggetto di ricorso la corte territoriale, dopo avere
affrontato una serie di questioni preliminari, principalmente
incentrate sulla dedotta inutilizzabilità delle conversazioni
intercettate (cfr. pp. 5-16), ha innanzitutto chiarito, in termini
assolutamente conformi ai principi affermati al riguardo nella
giurisprudenza di legittimità in tema di motivazione

per

relationem, che avrebbe proceduto a richiamare le motivazioni del

giudice per le indagini preliminari, ove condivisibili, nel caso in cui
le censure formulate dagli imputati fossero generiche ovvero non

7

7í/

contenessero elementi di novità (cfr. p. 19 dell’impugnata
sentenza).
Successivamente, con motivazione approfondita ed immune da
vizi, la corte di appello, dato atto del materiale probatorio
acquisito, costituito principalmente dai risultati dei servizi di
appostamento e di intercettazione di conversazioni e di

informative di polizia giudiziaria in atti, nonché da documenti,
provvedimenti e sentenze emesse dall’autorità giudiziaria passate
in giudicato, ricostruisce le vicende delle cosche mafiose in
precedenza indicate ed i rapporti tra esse intercorrenti nel corso
degli anni, configurando l’esistenza di una composita realtà
associativa di stampo mafioso, che, inquadrata in un contesto
criminale, storicamente dominato nel territorio calabrese dalla
“ndrangheta”, si caratterizzava per l’intervenuto accordo tra le
articolazioni locali di tale organizzazione operanti negli abitati di
Palizzi, Bova, Bova Superiore, Bova Marina ed Africo (definite, per
l’appunto, nel linguaggio gergale degli associati “locali”) per
assicurare la propria egemonia sul territorio e, nell’ambito di tale
predominio, la spartizione dei guadagni derivanti dalla esecuzione
delle opere edili oggetto degli appalti pubblici in precedenza
menzionati, affidata in subappalto ad imprese controllate dal
suddetto “cartello criminale”
In tale opera i giudici di secondo grado descrivono analiticamente
la composizione delle singole cosche; la suddivisione dei ruoli tra i
diversi componenti, ciascuno dei quali addetto ad un compito
specifico, al quale corrisponde una precisa “qualifica”, come, ad
esempio, quelle di “capo giovani”, “capo società”, “mastro di
giornata”, tipiche di una compagine organizzata in forma

8

comunicazioni telefoniche o tra presenti, compendiati nelle

gerarchica; i conflitti armati che hanno contrapposto nel corso
degli anni i singoli gruppi criminosi; la “pace” poi stipulata per
consentire proprio la spartizione dei profitti derivanti
dall’inserimento delle diverse cosche, sotto l’egida della potente
cosca dei “Morabito” di Africa, guidata da Morabito Giuseppe (“U
Tiradirittu”) e, dopo il suo arresto, dal cugino Morabito Bruno,

operavano in regime di subappalto, “negli appalti per i lavori di
maggiore rilievo esistenti nel comprensorio”, relativi alla
realizzazione dell’istituto scolastico “Euclide” ed alla variante della
strada statale n. 106; la creazione di un organismo di vertice,
denominato “base”, di cui facevano parte Mauro Domenica,
Morello Leone, Modaffari Leone, Cilione Pietro e Catroppa Dante, il
cui compito era quello di assumere “le decisioni di maggiore rilievo
nell’interesse degli accoliti”, provvedendo, tra l’altro, a suddividere
gli incarichi tra i sodali ed all’attività di affiliazione (cfr. pp. 19-70
dell’impugnata sentenza).
Infine la corte territoriale procedeva ad un puntuale ed esaustivo
esame delle singole posizioni degli imputati, indicando per
ciascuno di essi le ragioni poste a fondamento della sentenza di
condanna, le censure formulate con l’atto di appello ed i motivi
della propria decisione (cfr. pp. 70 e ss.).
Orbene, già alla luce di queste prime osservazioni, che verranno
arricchite in sede di valutazione dei singoli ricorsi, è possibile
affermare che la corte territoriale ha correttamente ricondotto le
vicende portate alla sua attenzione al paradigma normativa del
delitto associativo di cui all’art. 416 bis, c.p., inserendole in un
contesto storico-giudiziario, costituente ormai fatto notorio,
rappresentato dalla dimostrata esistenza di un’organizzazione a

9

A

attraverso una fitta rete di imprese ad esse riconducibili che

delinquere denominata “ndrangheta”, la cui natura unitaria è
stata definitivamente accertata attraverso l’iter giudiziario
conclusosi con la sentenza pronunciata nell’ambito del
procedimento cd. “Olimpia” dalla V sezione della Corte di
Cassazione il 12 aprile del 2002, n. 24711, nei confronti di
Condello e altro, espressamente richiamata nella motivazione del
punto, dalla corte territoriale (cfr. p. 21 della sentenza
impugnata), nonché in una serie di sentenze emesse dall’autorità
giudiziaria nell’ambito dei procedimenti denominati “Panta Rei”,
“Armonia” e “Aspomonte”.
Da tutti i provvedimenti in questione è possibile, ad avviso della
corte territoriale, desumere l’esistenza dell’associazione di stampo
mafioso denominata “ndrangheta”, strutturata nel cd.
mandamento ionico, in cui sono ricomprese tutte le articolazioni
minori, denominate “locali”, della zona jonico-reggina, tra i quali
assumono particolare rilievo quelli operanti in Bova Marina, Bova
Superiore, Africa e nei territori limitrofi, al cui vertice è posto
Morabito Giuseppe, capo indiscusso del “locale” di Africa, nonché
di un originario contrasto tra la cosca della famiglia Vadalà e
quella della famiglia Talia per il controllo del “locale” di Bova
Marina (cfr. pp. 21-24 della sentenza impugnata).
Attraverso tale approccio interpretativo, la corte di appello si è
mossa nel solco da tempo delineato dalla giurisprudenza di
legittimità, secondo cui in tema di valutazione della prova, la
“notorietà” di un fatto (nella specie, l’esistenza di un’associazione
mafiosa ex art. 416-bis, c.a.) ben può desumersi in modo certo
dalle decisioni dell’autorità giudiziaria, oltre che da cognizioni
comuni in un ambito territoriale più o meno ristretto, purché il

lo

giudice per le indagini preliminari, riportata integralmente, sul

giudice non si limiti alla generica indicazione dell’avvenuta
pronuncia di tali sentenze, ma indichi, come nel caso in esame,
con precisione i provvedimenti giudiziari di riferimento e le prove
che ha ritenuto di porre a base della decisione (cfr. Cass., sez. VI,
11.11.2009, n. 50057, Gullo, rv. 245831).
Né costituisce ostacolo alla ritenuta sussistenza del delitto

fine, infatti, come si vedrà meglio in seguito, il reato di
associazione di tipo mafioso è configurabile anche in difetto della
commissione di tali reati, purché, come nel caso in esame,
l’organizzazione sul territorio, la distinzione di ruoli, i rituali di
affiliazione ed il livello organizzativo e programmatico raggiunto
ne lascino concretamente presagire la possibile realizzazione (cfr.,
in questo senso, Cass., sez. II, 11.1.2012, n. 4304, Romeo, rv.
252205).
D’altronde da tempo la Suprema Corte, con motivazione anche in
questo caso condivisa dal Collegio, ha affermato che in tema di
associazione per delinquere di stampo mafioso, di cui all’art. 416bis c.p., la prova dell’esistenza della volontà di assumere il vincolo
associativo criminoso può e deve essere assunta da facta
condudentia con ragionamento logico induttivo e deduttivo da cui

si possa dedurre che le singole intese dirette alla conclusione dei
vari reati costituiscono l’espressione di un programma di
delinquenza oggetto dell’associazione stessa (cfr. Cass., sez. I,
13/06/1987, Mandaliti).
Di tale ragionamento la corte territoriale, come si vedrà in
seguito, ha fatto buon uso.
Passando alla valutazione dei singoli ricorsi e dei relativi motivi, va
preliminarmente rilevato che appare del tutto superfluo procedere

11

associativo la mancanza di contestazioni aventi ad oggetto reati-

all’esame della posizione di TAORMINA ANTONINO, essendo
quest’ultimo deceduto il 14.12.2011, come si evince dal certificato
dell’ufficiale dello stato civile del comune di Bova, trasmesso dalla
procura generale della Repubblica presso la corte di appello di
Reggio Calabria.
Si impone, pertanto, nei suoi confronti l’annullamento

morte del reo, ai sensi dell’art. 150, c.p.
MAURO MARIO DOMENICO, invece, eccepisce i vizi di cui all’art.
606, co. 1, lett. d) ed e), c.p.p., in relazione all’art. 416 bis, co. 2,
c.p., in quanto la corte territoriale non ha motivato in ordine al
ritenuto ruolo di organizzatore svolto dal Mauro all’interno del
sodalizio di riferimento, che non si evince dalle risultanze
processuali, in base alle quali è possibile ricavare solo che egli
svolgeva un ruolo insignificante.
Si tratta, come appare evidente, di un ricorso del tutto
inammissibile, per assoluta genericità dei motivi, con conseguente
condanna di quest’ultimo al pagamento delle spese processuali ed
al pagamento, a titolo di sanzione, in favore della cassa delle
ammende, della somma di euro 1000,00.
ALTOMONTE SEBASTIANO lamenta i vizi di cui all’art. 606, co. 1,
lett. b) ed e), c.p.p., in relazione agli artt. 192, c.p.p. e 416 bis,
c.p.
Secondo il ricorrente la motivazione della sentenza della corte
territoriale è assolutamente lacunosa in ordine alla partecipazione
dell’Altomonte all’associazione a delinquere di stampo mafioso,
che non viene dimostrata da nessun elemento oggettivo in base al
quale potere affermare che egli abbia in qualche modo contribuito

12

dell’impugnata sentenza per estinzione del reato determinata da

alla vita dell’associazione (l’Altomonte, tra l’altro, non risponde di
alcun reato fine), ma solo, inammissibilmente, dal fatto che dalle
conversazioni intercettate emerge come egli avesse rapporti con
esponenti di spicco di altre cosche e con personaggi politici di
rilievo da cui era tenuto in grande considerazione, quindi sulla
base di una sorta di condivisione . ideologica di cui si fanno
In questo modo l’Altomonte viene considerato intraneo al
sodalizio de quo sulla base di una messa a disposizione della sua
persona in favore della cosca mafiosa, che avrebbe rafforzato il
proposito criminale degli altri associati, ma che, pur consistendo il
reato associativo un reato a forma libera, non è in grado di
integrare quella concreta partecipazione necessaria per
l’integrazione della fattispecie in ossequio al principio della
necessaria materialità del fatto, anche alla luce dei noti principi
affermati dalla sentenza Mannino delle Sezioni Unite della Corte di
Cassazione, potendosi affermare, a tutto voler concedere, che egli
abbia nutrito una semplice ammirazione per il mondo criminale
mafioso.
In particolare la corte territoriale, ad avviso del ricorrente, ha
errato nell’attribuire rilievo ad una conversazione intercettata tra
Modaffari Leone e Nucera Giuseppe, la n. 2407 del 17.6.2006,
senza andare alla ricerca di validi riscontri esterni ex art. 192, co.
3, c.p.p., in questo caso necessari trattandosi di conversazione
etero accusatoria, alla quale, cioè, non ha partecipato l’Altomonte.
Del tutto carente, inoltre, risulta la motivazione in ordine alla
prova dell’elemento soggettivo del reato che, in questo caso,
avrebbe dovuto essere più rigorosa in difetto della contestazione
di reati-fine.

13

portatori altri coimputati.

Il ricorrente lamenta ancora il vizio di cui all’art. 606, co. 1, lett.
b) c.p.p., in relazione agli artt. 192, c.p.p. e 416 bis, co. 2, c.p., in
quanto all’Altomonte viene attribuito il ruolo di promotore,
dirigente ed organizzatore del sodalizio esclusivamente sulla base
della sua ritenuta partecipazione in posizione apicale al sodalizio
medesimo, senza alcuna indicazione dei comportamenti concreti

ed organizzazione.
L’Altomonte, infine, lamenta i vizi di cui all’art. 606, co. 1, lett. b)
ed e), c.p.p., in relazione agli artt. 62 bis, 133, c.p. e 125, co. 3,
c.p.p., in quanto la corte territoriale, da un lato non ha motivato
adeguatamente in ordine alla commisurazione della pena, come
avrebbe dovuto, essendosi allontanata dal minimo edittale,
adottando, sul punto, una decisione che contrasta con il
trattamento sanzionatorio riservato ad altri coimputati; dall’altro
ha omesso di motivare in ordine al mancato riconoscimento delle
circostanze attenuanti generiche, a fronte di specifiche circostanza
dedotte dalla difesa sulla positiva personalità del ricorrente che,
quale appartenente alla organizzazione sindacale SNALS, ha
prestato assistenziale in favore di numerose persone senza
ricevere alcun compenso.
I rilievi prospettati dall’Altomonte non appaiono fondati.
Al riguardo va innanzitutto osservato, trattandosi di una
eccezione, da disattendere, comune a numerosi ricorrenti, che da
tempo la Suprema Corte •ha affermato, in una serie di arresti
condivisi da questo Collegio, che il contenuto di un’intercettazione,
anche quando si risolva in una precisa accusa in danno di terza
persona, indicata come concorrente in un reato alla cui
consumazione anche uno degli interlocutori dichiari di aver

14

in cui sarebbe consistita questa attività di promozione, direzione

partecipato, non è equiparabile alla chiamata in correità e
pertanto, se anch’esso deve essere attentamente interpretato sul
piano logico e valutato su quello probatorio, non è però soggetto,
in tale valutazione, ai canoni di cui all’art. 192, comma 3, c.p.p.
(cfr. Cass., sez. V, 26/03/2010, n. 21878, C. e altro, rv. 247447,
Cass., sez. I, 23/09/2010, n. 36218, P. e altro, rv. 248290; Cass.,

sez. II, 12/01/2012, n. 4976, S., rv. 251812).
Tale orientamento è stato riaffermato da ultimo con una decisione
in cui ne è stata evidenziata la compatibilità con il diritto europeo,
ribadendosi come la disposizione contenuta nell’art. 192, comma
3, c.p.p. si applica esclusivamente alle dichiarazioni
procedimentali non estendendosi al contenuto delle
intercettazioni, in quanto il principio enunciato nell’art. 6 della
Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo non riguarda, neppure
nella forma elaborata dall’interpretazione convenzionalmente
orientata dell’art. 512 c.p.p., la materia (cfr. Cass., sez. II,
10/05/2012, n. 31064, F.M.).
In ordine agli altri motivi, va rilevato che l’Altomonte non contesta
l’esistenza del sodalizio di stampo mafioso, di cui si discute, ma
soltanto la circostanza che la partecipazione ad esso del ricorrente
possa ricavarsi dall’essere stato egli ritenuto una persona “a
disposizione” dell’associazione a delinquere di cui si discute.
A tale proposito occorre svolgere alcune brevi considerazioni,
trattandosi, anche in questo caso, di una eccezione comune ad
altri imputati, che acquista particolare rilievo nel presente
giudizio, in considerazione della mancata contestazione di reatifine.
Va, dunque, evidenziato che la sussistenza del reato associativo di
stampo mafioso, nelle diverse forme in cui la fattispecie legale (//,///

15

/

declina le modalità di partecipazione del singolo al sodalizio in
qualità di semplice partecipe (art. 416 bis, co. 1, c.p.) ovvero di
organizzatore, dirigente o promotore (art. 416 bis, co. 2, c.p.),
prescinde, al pari dell’ipotesi non qualificata, dalla commissione
dei reati-fine, essendo sufficiente alla sua consumazione, come
affermato da tempo dalla dottrina e dalla giurisprudenza

tra i sodali con il programma di creare una forza di intimidazione
al fine di utilizzarla per il perseguimento degli obiettivi associativi
(cfr. Cass., sez. I, 1/7/1987, n. 9859, Ingemi, rv. 176676; Cass.
sez. I, 21.10.1986, n. 6330, Musacco, rv. 176087), il che non
esclude, ma, in un certo senso limita al piano probatorio, la
rilevanza della accertata partecipazione di determinati soggetti ai
reati-fine effettivamente realizzati, nel giudizio relativo
all’esistenza del vincolo associativo (cfr. Cass., sez. II, 13/7/1999,
Amaro; Cass., sez. V, 14/9/1991, Monaco; Cass., sez. VI,
23/11/2004, Tahiri).
Non bisogna, tuttavia, trascurare il carattere speciale del reato di
cui all’art. 416 bis, c.p., su cui concordano dottrina e
giurisprudenza, evidenziando come esso si caratterizzi, sotto il
profilo attivo, per l’utilizzazione da parte degli associati
dell’intimidazione nascente dal vincolo associativo; sotto il profilo
passivo, per la condizione di assoggettamento e di omertà che ne
deriva.
La tipicità della fattispecie di cui all’art. 416 bis, c.p., si coglie,
dunque, non tanto negli scopi (pure essenziali per l’esistenza del
reato) avuti di mira dai consociati che, come appare evidente
dalla formulazione letterale del terzo comma dell’art. 416 bis, c.p.,
possono essere rappresentati, a differenza di quanto previsto dal

16

prevalenti, condivise da questo Collegio, la costituzione del vincolo

comma 1 dell’art. 416, c.p., anche da eventi diversi dalla
commissione di delitti ed, in ipotesi, anche leciti, inseriti, tuttavia,
nell’orbita dell’illecito penale proprio in conseguenza delle
modalità “mafiose” con cui vengono realizzati, ma, per l’appunto,
nelle modalità attraverso cui l’associazione decide di manifestarsi
e si manifesta concretamente: l’intimidazione ed il conseguente
derivare anche soltanto dalla conoscenza della pericolosità del
sodalizio di stampo mafioso (cfr. Cass., sez. I, 10/2/1992, n.
3223, d’Alessandro, rv. 189665; Cass., sez. I, 1/4/1992, n. 6784,
Bruno, rv. 190539).
Se, dunque, l’elemento tipizzante del delitto di cui all’art. 416 bis,
c.p., si presenta nei termini ora indicati, può a ragione affermarsi,
come si legge in una recente decisione di legittimità condivisa da
questo Collegio, che, ai fini dell’integrazione della condotta di
partecipazione all’associazione di tipo mafioso, non è necessario
che ciascuno dei membri del sodalizio si renda protagonista di
specifici atti esecutivi della condotta criminosa programmata,
perché il contributo del partecipe può essere costituito anche dalla
sola dichiarata adesione all’associazione da parte di un singolo, il
quale presti la propria disponibilità ad agire, ad esempio, quale
“uomo d’onore”.
In motivazione la Suprema Corte ha, infatti, precisato che la
qualità di “uomo d’onore” non è significativa di una adesione
morale meramente passiva ed improduttiva di effetti al sodalizio
mafioso, ma presuppone la permanente ed incondizionata offerta
di contributo, anche materiale, in favore di esso, con messa a
disposizione di ogni energia e risorsa personale per qualsiasi
impiego criminale richiesto; l’obbligo così assunto rafforza

17

il

insorgere nei terzi di quella situazione di soggezione, che può

proposito criminoso degli altri associati ed accresce le potenzialità

operative e la complessiva capacità di intimidazione ed
infiltrazione nel tessuto sociale del sodalizio. (cfr. Cass., sez.
3.5.2012, n. 23687, D’Ambrogio e altri, rv. 253222)
Tale arresto, peraltro, non rappresenta una voce isolata, ma si
pone, piuttosto, in assoluta continuità con una serie di precedenti

partecipazione all’associazione a delinquere come condotta a
forma libera, nel senso che qualunque azione, purché dotata di
efficacia causale rispetto all’evento tipico, è costitutiva della
materialità del fatto (cfr. Cass., sez. I, 27.1.1986, Scala), si
sottolinea come la partecipazione ad un sodalizio criminoso di
stampo mafioso possa configurarsi attraverso una molteplicità di
contributi, che, al tempo stesso, costituiscono, sul piano
probatorio, altrettanti indici rivelatori dell’esistenza del vincolo
associativo, tutti contrassegnati proprio dalla intervenuta “messa
a disposizione” del singolo a favore dell’associazione a delinquere.
Si è, così, affermato che la condotta di partecipazione ad
un’associazione per delinquere, per essere punibile, non può
esaurirsi in una manifestazione positiva di volontà del singolo di
aderire alla associazione che si sia già formata, occorrendo invece
la prestazione, da parte dello stesso, di un effettivo contributo,
che può essere anche minimo e di qualsiasi forma e contenuto,
purché destinato a fornire efficacia al mantenimento in vita della
struttura o al perseguimento degli scopi di essa. Nel caso
dell’associazione di tipo mafioso, differenziandosi questa dalla
comune associazione per delinquere per la sua peculiare forza di
intimidazione, derivante dai metodi usati e dalla capacità di
sopraffazione, a sua volta scaturente dal legame che unisce gli

18

statuizioni, in cui, partendo dalla tradizionale nozione della

associati (ai quali si richiede di prestare, quando necessario,
concreta attività diretta a piegare la volontà dei terzi che vengano
a trovarsi in contatto con l’associazione e che ad essa
eventualmente resistano), il detto contributo può essere costituito
anche dalla dichiarata adesione all’associazione da parte del
singolo, il quale presti la sua disponibilità ad agire come “uomo

Papalia ed altri, rv. 230718).
In tema di associazione di stampo mafioso, dunque, la
permanente “disponibilità” al servizio dell’organizzazione mafiosa
a porre in essere attività delittuose, anche se di bassa
manovalanza (come tagli di alberi, incendi, et similia), ma pur
sempre necessarie per il perseguimento dei fini
dell’organizzazione, indipendentemente dalla prova di una formale
iniziazione, rappresenta univoco sintomo di inserimento
strutturale nella compagine associativa sodalizio e, quindi, di vera
e propria partecipazione, ad un livello pur minimale, al sodalizio
delinquenziale, mentre la “legalizzazione” con la qualifica di “uomo
d’onore” costituisce uno stadio più evoluto nella progressione
carrieristica del mafioso nell’organigramma piramidale del
sodalizio (cfr. Cass., sez. V, 21.11.2003, n. 6101, Bruno e altro,
rv. 228058)
Ciò appare assolutamente conforme ai principi affermati in
materia dalla nota sentenza “Mannino” delle sezioni unite del
Supremo Collegio (richiamata dal ricorrente), che, evidenziando la
natura “dinamica” del contributo che il singolo sodale deve
apportare alla compagine associativa perché esso possa essere
definito in termini di “partecipazione” ai sensi dell’art. 416 bis,
c.p., ne individua l’essenza proprio nella “messa a disposizione”

19

d’onore”, ai fini anzidetti (cfr. Cass., sez. Il, 21.12.2004, n. 2350,

del singolo in favore del sodalizio per il perseguimento dei comuni
fini criminosi.
Rileva, infatti, il Supremo Collegio nella sua massima espressione
che in tema di associazione di tipo mafioso, la condotta di
partecipazione è riferibile a colui che si trovi in rapporto di stabile
e organica compenetrazione con il tessuto organizzativo del

un ruolo dinamico e funzionale, in esplicazione del quale
l’interessato “prende parte” al fenomeno associativo, rimanendo a
disposizione dell’ente per il perseguimento dei comuni fini
criminosi.
Precisa, inoltre, la Corte, nel corpo della motivazione, che la
partecipazione può essere desunta da indicatori fattuali dai quali,
sulla base di attendibili regole di esperienza attinenti
propriamente al fenomeno della criminalità di stampo mafioso,
possa logicamente inferirsi la appartenenza nel senso indicato,
purché si tratti di indizi gravi e precisi – tra i quali, esemplificando,
i comportamenti tenuti nelle pregresse fasi di “osservazione” e
“prova”, l’affiliazione rituale, l’investitura della qualifica di “uomo
d’onore”, la commissione di delitti-scopo, oltre a molteplici, e però
significativi “facta concludentia” -, idonei senza alcun
automatismo probatorio a dare la sicura dimostrazione della
costante permanenza del vincolo (cfr. Cass., sez. un., 12.7.2005,
n. 33748, Mannino, rv. 231670, nonché, nello stesso senso,
Cass., sez. I, 11.12.2007, n. 1470, p.g. in proc. Addante e altri,
rv. 238839).
Orbene, tanto premesso e ribadito che sul punto i motivi di ricorso
dell’Altomonte appaiono inammissibili, in quanto meramente
ripetitivi di questioni già prospettate in sede di appello e risolte in

20

sodalizio, tale da implicare, più che uno “status” di appartenenza,

senso per lui sfavorevole dai giudici di merito, non può non
rilevarsi come la corte territoriale, con motivazione approfondita
ed immune da vizi, ha ricostruito in termini esaustivi l’inserimento
in posizione di vertice dell’Altomonte all’interno del sodalizio
criminale di stampo mafioso di cui si discute.
Le conversazioni intercettate hanno evidenziato non solo come

articolazioni e delle composizioni di vertice delle cosche della
“ndrangheta” operanti nel territorio compreso tra Bova ed Africo,
ma come in tale contesto criminoso egli abbia svolto un ruolo di
assoluto rilievo.
Avvenuta da tempo a Bova Superiore la sua formale affiliazione e
tenuto in particolare considerazione dallo stesso Vadalà Carmelo,
classe 1922, capo storico dell’omonima cosca, come si evince dal
contenuto della conversazione tra Modaffari Leone e Nucera
Giuseppe, intercettata il 17 giugno 2006, all’interno
dell’autovettura in uso al Nucera, l’Altomonte colloca se stesso,
nella conversazione con la moglie Giulia intercettata il 20.12.2007,
tra i cinque membri di una struttura segreta dell’organizzazione
mafiosa, di recente costituzione, denominata “gli Invisibili”, in
quanto nota soltanto ai suoi componenti ed a quelli
dell’articolazione provinciale della “ndrangheta”, non anche agli
altri affiliati; progetta di costituire, nel corso della conversazione
con Modaffari Leone, intercettata il primo aprile del 2007, insieme
con quest’ultimo, Morello Leone e Vadalà Antonino una “cupola”
finalizzata ad esercitare un predominio assoluto nel comprensorio
di Bova Marina, rimarcando nel corso di tale conversazione la sua
appartenenza ad un gruppo criminale, che definisce come “gli
intoccabili”, dotato di un vero e proprio “esercito”, in grado di

21

egli sia perfettamente a conoscenza delle vicende, delle

imporre con la forza il proprio dominio sul territorio,
compiacendosi con il suo interlocutore della posizione di prestigio
da lui assunta nel sodalizio; sottolinea al Modaffari Leone, da un
lato, nella conversazione intercettata 1’11.6.2007, come il rispetto
che hanno nei suoi confronti gli affiliati delle cosche di Africo e di
San Luca deriva anche dal fatto che quando lavorava nel
in ulteriori due conversazioni intercettate lo stesso giorno ed in
quello successivo, la sua vicinanza al potente Morabito Bruno,
capo della cosca di Africo, che l’imputato indica come uno dei suoi
“maestri”, con cui si incontra almeno in due occasioni, una il 20
gennaio 2007, di cui discutono Vadalà Antonino e Nucera
Pasquale, l’altra, di cui riferisce lo stesso ricorrente alla moglie
Giulia, in cui egli si è recato presso il Morabito per difendere la
posizione di Mafrica Antonio, “caduto in disgrazia”, garantendo
con il suo nome per il gruppo di Bova Superiore”; mantiene
contatti con esponenti di altri cosche, come Roda Domenico, capo
cosca di Bruzzano Zeffirio, e Iamonte Remingo; ancora una volta,
sempre conversando con la moglie, evidenzia come la sua
importanza nel territorio di Bova sia cresciuta proprio in
conseguenza dell’intervento presso il Morabito (da cui veniva
apprezzato al punto tale da paragonarlo al capo della mafia
siciliana Nitto Santapaola per la sua determinazione e per il suo
carisma), consentendogli di assumere “la leadership”, avendo egli,
grazie alla stima di cui godeva, salvato il Mafrica, il quale, non
avendo rispettato un accordo preso da Taormina Giacomo, in virtù
del quale in cambio degli omicidi perpetrati doveva essere versata
agli Africoti la metà dei proventi illeciti realizzati sul territori, i
vertici della cosca Morabito avevano deciso di ucciderlo,

22

settentrione aveva nascosto dei compaesani “latitanti”, dall’altro,

incaricando dell’esecuzione i fratelli Nucera; risulta direttamente
impegnato nel sostenere l’attività politica e la candidatura alle
lezioni provinciali del 2006 di Crea Domenico, condannato per
reato associativo (cfr. pp. 81-99 dell’impugnata sentenza).
Appare, dunque, evidente che l’Altomonte abbia partecipato
all’associazione di stampo mafioso di cui si discute, secondo i

sua formale affiliazione, egli ha messo consapevolmente la sua
persona a completa disposizione del sodalizio criminoso di stampo
mafioso, con una continuità ed un capacità tali da fargli scalare il
vertice della cosca Vadalà, ruolo che gli veniva riconosciuto, come
si è visto, dallo stesso Morabito Bruno.
Proprio in considerazione di tale ruolo del tutto correttamente i
giudici di merito hanno ritenuto di potere configurare a carico
dell’Altomonte il ruolo di promotore, dirigente ed organizzatore del
sodalizio in parola, posto che, da un lato per promotore deve
intendersi non solo chi della associazione si sia fatto iniziatore, ma
anche colui che, come il ricorrente, agisca per rafforzare la
potenzialità pericolosa del gruppo associativo (cfr. Cass., sez. VI,
21/9/1995, n. 8, Cassuto, rv, 203854), governandolo nei delicati
equilibri con le cosche operanti nelle zone limitrofe ed
allargandone gli spazi di penetrazione, attraverso l’infiltrazione nei
gangli della politica, dall’altro per dirigente ed organizzatore deve
intendersi colui, che, come l’imputato, rispetto ad un gruppo già
costituito, ne sovraintende l’attività complessiva e assume
funzioni decisionali (cfr. Cass, sez. V, 21/12/1998, Barbanera).
Inammissibile, perché meramente ripetitivo di una censura
formulata in appello, è, poi, il motivo riguardante l’elemento
soggettivo del reato: la corte territoriale, infatti, ha correttamente

23

principi in precedenza evidenziati, in quanto, a prescindere dalla

replicato alle osservazioni difensive rilevando come, dal contenuto
delle

conversazioni

intercettate

si

evinca

l’assoluta

consapevolezza dell’Altomonte di agire nell’interesse della cosca
mafiosa di appartenenza, per mantenerne e rafforzarne il
controllo sul territorio (cfr. p. 97 dell’impugnata sentenza).
Ciò appare del tutto conforme ai principi da tempo affermati al

delitto di partecipazione semplice o qualificata ad un’associazione
per delinquere consiste nella coscienza e volontà di apportare il
contributo richiesto dalla norma incriminatrice e di contribuire con
esso alla vita dell’associazione (cfr. Cass., sez. I, 22/4/1985,
Aslan; Cass., sez. VI, 9/2/1996, Meocci), di partecipare, in altri
termini, attivamente alla realizzazione del programma
delinquenziale in modo stabile e permanente (cfr. Cass., sez. VI,
16/12/2011, n. 9117, Tedesco, rv. 252388; Cass., sez. I,
25.112003, n. 4043, Cito, rv. 229992).
Inammissibile, infine, è il motivo di ricorso sul trattamento
sanzionatorio, perché generico ed attinente a censure sul merito
della valutazione in ordine alla entità della pena irrogata,
dovendosi, peraltro, evidenziare come i giudici di primo e di
secondo grado abbiano tenuto correttamente conto della gravità
dei fatti e della spiccata tendenza a delinquere dell’Altomonte, a
prescindere dalla pur significativa esistenza a suo carico di
precedenti penali, per negare il riconoscimento in suo favore delle
circostanze attenuanti generiche.
Ed invero, ai fini dell’assolvimento dell’obbligo di motivazione in
ordine al diniego della concessione delle circostanze attenuanti
generiche, il giudice non è tenuto a prendere in considerazione
tutti gli elementi prospettati dall’imputato, essendo sufficiente che

24

riguardo dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui il dolo del

egli spieghi e giustifichi l’uso del potere discrezionale conferitogli
dalla legge con l’indicazione delle ragioni ostative alla concessione
e delle circostanze ritenute a tal fine di preponderante rilievo (cfr.
Cass., sez. I, 15.4.2010, n. 32324, M. e altro; Cass., sez. II,
23.9.2009, n. 2035, K.).
Ai fini, dunque, della concessione o del diniego delle circostanze

in esame, tra gli elementi indicati dall’art. 133 c.p., quello (o
quelli) che ritiene prevalente e atto a consigliare o meno la
concessione del beneficio; e il relativo apprezzamento
discrezionale, laddove supportato, come nel caso in esame, da
una motivazione idonea a far emergere in misura sufficiente il
pensiero dello stesso giudice circa l’adeguamento della pena
concreta alla gravità effettiva del reato e alla personalità del reo,
non è censurabile in sede di legittimità se congruamente
motivato.
Ciò vale, a maggior ragione, anche per il giudice d’appello,

il

quale, pur non dovendo trascurare le argomentazioni difensive
dell’appellante, non è tenuto a un’analitica valutazione di tutti gli
elementi, favorevoli o sfavorevoli, dedotti dalle parti, ma, in una
visione globale di ogni particolarità del caso, è sufficiente che dia
l’indicazione di quelli ritenuti rilevanti e decisivi ai fini della
concessione o del diniego, rimanendo implicitamente disattesi e
superati tutti gli altri, pur in carenza di stretta contestazione (cfr.
Cass., sez. III, 8.10.2009, n. 42314, E.).

MORABITO DOMENICO lamenta innanzitutto i vizi di cui all’art.
606, co. 1, lett. d) ed e), c.p.p., in relazione agli artt. 192, c.p.p.,
603, c.p.p e 546, co. 1, lett. e), c.p.p, avendo la corte territoriale

25

attenuanti generiche, è sufficiente che il giudice di merito prenda

disatteso la richiesta difensiva di escutere in qualità di teste Clarà
Antonio, titolare dell’omonima ditta costituitasi in ASTI
(Associazione Temporanea di Imprese) con la ditta Gioffrè,
ricevendo in subappalto i lavori di movimento terra, che, secondo
l’impostazione accusatoria sotto lo schermo di contratti di “nolo a
freddo”, avrebbe consentito di fatto che il subappalto venisse

gestito da imprese espressione delle cosche mafiose di cui al capo
d’imputazione, tra cui quella riconducibile al Morabito Domenico,
trattandosi di una prova decisiva, in quanto solo il darà avrebbe
potuto chiarire la reale natura dei suoi rapporti con il Morabito.
In tale rifiuto si individua un motivo di contraddizione della
motivazione della corte territoriale, che, nel momento in cui
attribuisce al Morabito di essersi intromesso nella gestione del
subappalto nell’interesse della cosca mafiosa di riferimento
utilizzando come giustificazione formale il rapporto con il suddetto
darà, rigetta la richiesta di escutere in qualità di teste
quest’ultimo, affermando, con motivazione inadeguata perché
apodittica, che tale prova non sia assolutamente necessaria ai fini
del decidere.
I giudici di merito, infatti, hanno ritenuto (erroneamente ad avviso
del ricorrente) che gli elementi di prova a carico del Morabito sono
già sufficientemente delineati alla luce delle conversazioni
intercettate tra quest’ultimo ed il Mancuso Luca, responsabile dei
lavori della ditta Clarà, evidenziando come la stessa polizia
giudiziaria procedente non abbia avvertito la necessità di sentirlo
ritenendo sufficientemente dimostrata l’infiltrazione mafiosa; in tal
modo, tuttavia, secondo la prospettazione difensiva, si è
privilegiata l’ipotesi accusatoria rispetto ad una ipotesi diversa che

26

74

avrebbe potuto emergere attraverso l’escussione del suddetto
Clarà.
Il ricorrente lamenta poi i vizi di cui all’art. 606, co. 1, lett. b) ed
e), c.p.p., in relazione agli artt. 546, co. 1, lett. e) e 192, c.p.p. e
416 bis, c.p.
La corte territoriale ha desunto illegittimamente la partecipazione
logico, secondo il quale, una volta accertata nella esecuzione dei
lavori della variante della strada statale n. 106 in prossimità
dell’abitato di Palizzi l’infiltrazione delle cosche mafiose operanti
nel territorio di Palizzi-Bova Marina, automaticamente devono
ritenersi espressione di tali cosche tuti i responsabili delle ditte
che avevano partecipato ai suddetti lavori.
Il ricorrente contesta, altresì, che l’attività di ingerenza nella
esecuzione dei lavori posta in essere dal Morabito, che andava
oltre il semplice “nolo a freddo” della macchina escavatrice da
utilizzare nei lavori, possa essere necessariamente interpretata
come sintomo del suo agire nell’interesse della consorteria
mafiosa di riferimento, posto che, se così fosse stato, il Morabito
avrebbe utilizzato degli accorgimenti per nascondere la sua
presenza alle forze di polizia e non avrebbe agito, come ha fatto,
alla luce del sole contattando stabilmente il committente, nella
persona del geometra Mancuso e gli esecutori materiali dei lavori,
comportamenti che si spiegano, invece, nell’ottica di un
imprenditore interessato alla realizzazione di un profitto maggiore,
senza che se ne possa ricavare, come preteso dalla corte
territoriale, un “metus” del Mancuso e della ditta subappaltatrice
nei confronti del Morabito quale esponente di una cosca mafiosa.

27

del Morabito al sodalizio de quo sulla base di un mero sillogismo

La corte territoriale, inoltre, ad avviso dell’imputato, non forniva
adeguata risposta ad una ulteriore serie di rilievi prospettati
nell’atto di appello che non consentono di ritenere dimostrata la
partecipazione del Morabito al sodalizio di cui si discute ed, in
particolare, alla duplice circostanza che in nessuna delle
conversazioni intercettate (sia in quelle telefoniche sia in quella

sodalizio commentano con soddisfazione il lavoro ben eseguito
nella gestione illecita dell’appalto di cui si discute) si fa mai
riferimento al Morabito, né quest’ultimo, la cui utenza è stata
oggetto di captazione per un lungo periodo, risulta in contatto con
altre persone del suo nucleo familiare, tra cui quel Morabito
Giuseppe, esponente di spicco dell’omonimo clan, di cui è nipote
(essendo il figlio di un fratello) o con altri sodali, di talché la sua
partecipazione al sodalizio si fa discendere unicamente da tale
rapporto di parentela.
Oggetto di censura è anche la ritenuta partecipazione del Morabito
al “summit” mafioso del 4.11.2007 presso il casolare di Morabito
Bruno al quale parteciparono diversi coimputati: in questo caso,
infatti, la corte territoriale, desumendo la partecipazione del
Morabito dai risultati dell’attività di indagine, non ha fornito alcuna
risposta ai rilievi critici del difensore, che evidenziava nei motivi di
appello come non vi fosse alcuna prova che quell’incontro avesse
avuto natura illecita, trattandosi di un semplice incontro
conviviale, come dimostrato dal contenuto delle intercettazioni;
ma soprattutto come non vi fosse alcuna prova dell’effettiva
partecipazione del Morabito a tale riunione: infatti nelle
conversazioni intercettate prima dell’incontro i coimputati non ne
fanno menzione, né si premurano di contattarlo; inoltre la sua

28

ambientale nel carcere di Parma in cui alcuni dei componenti del

partecipazione viene desunta da due elementi assolutamente
ambigui: una pattuglia della polizia giudiziaria procedente, che
aveva accertato lo svolgersi del “summit”, nel fare ritorno alla
base, incrociava a diversi chilometri dal casolare l’autovettura
Volkswagen, modello Golf, di colore grigio riconducibile al
Morabito che si muoveva in direzione del casolare ed in occasione
quella in uso al ricorrente parcheggiata all’esterno del casolare,
per cui non è possibile affermare con certezza che vi sia
coincidenza tra le due autovetture, ammesso che quella notata
per prima si sia effettivamente recata al luogo dell’incontro e non
abbia indirizzato la sua marcia altrove.
Ulteriori lacune motivazionali vengono, poi, segnalate in ordine
alla dedotta circostanza della completa assenza di precedenti
penali del Morabito, il quale non è mai stato oggetto di
accertamenti nel corso delle ventennali attività investigative che
hanno riguardato la cosca Morabito e non ha mai avuto contatti
con i suoi parenti, ed alla mancata indicazione del ruolo e del
contributo che il Morabito stesso avrebbe assicurato all’interno del
sodalizio di riferimento.
Infine lamenta il ricorrente violazione di legge, mancanza,
manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione della
corte territoriale anche in ordine al trattamento sanzionatorio, con
riferimento al mancato riconoscimento in suo favore delle
circostanze attenuanti generiche ed alla determinazione della
pena non entro i limiti del minimo edittale.
Premesso che, come si è già visto per la posizione dell’Altomonte,
il Morabito non contesta l’esistenza dell’associazione a delinquere
di stampo mafioso di cui si discute, ma solo la sua partecipazione

29

di un successivo passaggio individuava un’autovettura simile a

a tale sodalizio, non può non rilevarsi come, nonostante lo sforzo
compiuto, i motivi di ricorso siano, sulla base dei principi in
precedenza menzionati, in massima parte del tutto inammissibili,
in quanto si risolvono, per un verso nella mera riproposizione di
rilievi sollevati in sede di appello, già disattesi dai dai giudici di
merito, per l’altro in una prospettazione di censure di fatto e di
detto, non sono ammissibili in sede di legittimità.
Del tutto infondato, poi, è il motivo riguardante la mancata
escussione in qualità di teste del Clarà Antonio.
Come è noto, infatti, per prova decisiva, la cui mancata
assunzione può costituire motivo di ricorso per Cassazione, deve
intendersi solo quella che, confrontata con le argomentazioni
addotte in motivazione a sostegno della decisione, risulti
“determinante” per un esito diverso del processo. Per l’effetto,
tale vizio è ravvisabile solamente quando la prova richiesta e non
ammessa, confrontata con le argomentazioni formulate in
motivazione a sostegno e illustrazione della decisione, risulti tale
che, se esperita, avrebbe sicuramente determinato una diversa
pronuncia (cfr. Cass., sez. II, 21/09/2010, n. 36276, P. e altro;
Cass., sez. III, 15/06/2010, n. 27581, M., rv. 248105).
Tale non può considerarsi l’escussione del darà Antonino, in
quanto la stessa difesa si esprime in termine meramente
probabilistici ed indefiniti sul contenuto della sua deposizione che,
in ipotesi, “avrebbe potuto disvelare quali fossero i rapporti
sottostanti” tra lo stesso Clarà ed il Morabito “e quali le ragioni per
le quali esso Morabito avrebbe assunto le condotte oggetto di
apprezzamento in sede di attività di intercettazione” (cfr. p. 4 del
ricorso).

30

versioni alternative dei fatti per cui si procede, che, come si è

Inoltre va rilevato come non sia pertinente l’individuazione da
parte del ricorrente dei parametri fissati nell’art. 606, co. 1,
c.p.p., che si assumono violati dalla corte territoriale.
In riferimento al giudizio di appello, infatti, in caso di diniego della
rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, la mancata assunzione
di una prova decisiva può costituire motivo di ricorso per
quando si tratti di prove sopravvenute o scoperte dopo la
pronuncia di primo grado, che avrebbero dovuto essere ammesse
secondo il disposto dell’art. 603, co.2, c.p.p.
Negli altri casi, la decisione istruttoria è ricorribile, ai sensi dell’art.
606, co. 1, lett. e), c.p.p., solo sotto il solo profilo della mancanza
o manifesta illogicità della motivazione (cfr. Cass., sez. IV,
12/11/2010, n. 116, C.).
Orbene, nel caso in esame, l’escussione in qualità di teste del
Clarà, come ammesso dallo stesso ricorrente, era già stata
invocata da quest’ultimo con la richiesta di giudizio abbreviato
condizionato, che il giudice per le indagini preliminari aveva
respinto, mentre, nel rigettare sul punto il relativo motivo di
appello, la corte territoriale, con motivazione dotata di intrinseca
coerenza logica, evidenzia l’inutilità di tale escussione, in quanto,
essendo stata dimostrata sulla base delle altre acquisizioni
probatorie (contenuto delle conversazioni intercettate; esiti delle
attività di appostamento e di controllo del territorio da parte delle
forze dell’ordine) l’intervenuto ingresso nel subappalto di imprese
controllate dalle cosche mafiose, grazie anche alla disponibilità del
Clarà, l’audizione di quest’ultimo non avrebbe potuto fornire alcun
contributo sulla natura dei suoi rapporti con il Morabito (cfr. p.
297 dell’impugnata sentenza).

31

Cassazione ai sensi dell’art. 606, co. 1, lett. d), c.p.p., solo

In ciò non può certo ravvisarsi il vizio della manifesta illogicità
della motivazione che ricorre solo quando il giudice di merito, nel
compiere l’esame degli elementi probatori sottoposti alla sua
analisi e nell’esplicitare, in sentenza, l’iter logico seguito, si
esprima attraverso una motivazione incoerente, incompiuta,
monca e parziale (cfr. Cass., sez. V, 16/3/2000, n. 4893, P.G. in
frattura logica evidente tra una premessa, o più premesse nel
caso di sillogismo, e le conseguenze che se ne traggono (cfr.
Cass., sez. I, 12.5.1999, n. 9539, Commisso ed altri, rv. 215132),
a nulla rilevando eventuali altre letture del materiale probatorio,
pur, in ipotesi, egualmente corrette sul piano logico (cfr. Cass.,
sez. VI, 17.10.2006, n. 37270, Ouardass, rv. 235506).
Anche in questo caso, peraltro, la corte territoriale, con
motivazione approfondita e immune da vizi, confermando la
valutazione svolta al riguardo dal giudice di primo grado, ha
individuato correttamente nella condotta posta in essere dal
Morabito Domenico un chiaro indice rivelatore della sua
consapevole partecipazione al sodalizio criminoso di cui si discute,
ed in particolare, alla cosca “Morabito-Bruzzaniti-Palamara”,
storicamente capeggiata dallo zio Morabito Giuseppe, classe ’34,
soprannominato “u tiradrittu”.
Il Morabito, infatti, lungi dal limitarsi a fornire un escavatore, in
virtù della stipula di un contratto di nolo “a freddo” (cioè senza
assicurare anche la disponibilità di un conducente del mezzo
meccanico noleggiato) con la ditta del Clarà Antonino, operante in
regime di subappalto nella esecuzione dei lavori relativi alla strada
statale n. 106, si è comportato come il vero e proprio “dominus”
del relativo cantiere, gestendo in prima persona anche gli altri

32

proc. Frasca, rv. 215966) ovvero nella quale sia ravvisabile nella

mezzi impegnati nei lavori in questione e gli autisti assunti
formalmente dalla ditta del Clarà per condurli, che venivano
contattati direttamente dal ricorrente, in quanto il responsabile del
cantiere per conto del Clarà, il geometra Mancuso Luca, non ne
possedeva i recapiti telefonici; aggiornandosi continuamente sullo
stato dei mezzi e sul numero dei viaggi effettuati dai vari autisti;
preferenza degli altri ed anche di domenica; rappresentando un
vero e proprio punto di riferimento per il Mancuso, che, nel
rivolgersi all’imputato per la soluzione di problemi per i quali egli
non aveva (formalmente) alcun titolo specifico per intervenire,
appariva, come sottolineato dalla corte territoriale, in una
“posizione di totale sudditanza” rispetto al ricorrente (come, ad
esempio, quando il Morabito aveva dato disposizioni al Mancuso in
ordine ad una assunzione che doveva essere effettuata dalla ditta
darà; cfr. pp. 296-299 dell’impugnata sentenza)
Appare evidente, peraltro che siffatta ingerenza non può spiegarsi
nella semplice (e riduttiva) prospettiva di un incontenibile
attivismo imprenditoriale del Morabito, assumendo, invece,
proprio in ragione della sua atipicità rispetto al ruolo formalmente
svolto da quest’ultimo (quello, lo si ripete, di semplice fornitore di
un mezzo meccanico secondo lo schema contrattuale del nolo “a
freddo”), l’inequivocabile valore sintomatico del diretto
interessamento, attraverso lo stesso Morabito, della cosca
mafiosa di appartenenza alla esecuzione dei lavori, reso evidente
da due ulteriori circostanze su cui, correttamente, si soffermano le
sentenze di primo e di secondo: 1) la dimostrata spartizione dei
lavori per la variante della strada statale n. 106 dell’abitato di
Palizzi tra le cosche di Africo (Morabito), Palizzi (Maisano), Bova

33

pretendendo che il proprio escavatore venisse utilizzato a

(Vadalà-Talia), oggetto di diverse conversazioni intercettate tra
Vadalà Carmelo, classe 1980 e Mauro Mario Domenica, in un
contesto associativo in cui appare dominante (come si è visto
anche affrontando la posizione dell’Altomonte) Morabito Bruno,
reggente della omonima cosca; 2) la comprovata partecipazione
del Morabito Domenico ad un incontro organizzato il 4 novembre

quale parteciparono, oltre a quest’ultimo ed al suddetto Morabito
Domenica, i coimputati D’Aguì Terenzio, D’Aguì Francesco, Vadalà
Antonino, Vadalà Carmelo, classe ’80, Morello Leone e Palamara
Santo, che, proprio in considerazione del contesto criminale in cui
operavano i predetti partecipanti, alcuni dei quali come il Morabito
Domenica, D’Aguì Terenzio, il D’Aguì Francesco ed il Vadalà
Carmelo, classe ’80, titolari di imprese operanti nel settore
dell’edilizia, non poteva che avere ad oggetto, come ritenuto dalla
corte territoriale con motivazione logicamente coerente, questioni
relative all’infiltrazione delle cosche mafiose nei lavori innanzi
indicati (cfr. pp. 300-301 della sentenza impugnata).
Se ne deduce, di conseguenza, la non pertinenza dell’assunto
difensivo, in quanto l’affermazione di responsabilità del Morabito
Domenica per il reato associativo non deriva (sulla scorta di un
automatismo che, ove effettivamente operante, sarebbe
inammissibile) dalla semplice dimostrazione dell’interessamento
delle cosche della “ndrangheta” di Africa, Bova e Palizzi
all’appalto pubblico dei lavori per la variante della strada statale n.
106, ma, piuttosto, è proprio la condotta posta in essere
dall’imputato che consente, una volta ritenuto acquisito come
dato probatorio pacifico tale interessamento, a dimostrare la sua
partecipazione alla compagine associativa, in quanto uomo

34

2007 presso il casolare di Morabito Bruno, nei pressi di Africa, al

consapevolmente a disposizione della cosca mafiosa per

il

raggiungimento di una o più delle finalità tipiche dell’associazione
individuate nel modello legale: il controllo di appalti pubblici
ovvero la realizzazione di profitti o vantaggi ingiusti, attraverso la
forza di intimidazione promanante dal vincolo associativo e la
condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva,

dall’imputato nel cantiere del Clarà e dall’atteggiamento succube
del Mancuso, non spiegabili altrimenti se non come conseguenza
dell’esercizio del potere di intimidazione mafiosa.
In questa prospettiva, infine, non può non rilevarsi che anche il
rapporto di parentela che lega il ricorrente allo zio Morabito
Giuseppe, classe 34, capo storico dell’omonimo “clan” ed a
Morabito Bruno (fratello del padre e cugino del “Tiradrittu”),
reggente del sodalizio, nel periodo preso in considerazione dalle
indagini, dopo l’arresto del suddetto Morabito Giuseppe, del
genero Pansera Giuseppe e del figlio Morabito Giovanni, assume
un valore di non poco momento ai fini della conferma della validità
del quadro accusatorio.
Costituisce, infatti, principio da tempo affermato in sede

di

legittimità da una serie di pronunce, condivise da questo collegio,
che, pur dovendosi escludere che la semplice esistenza di relazioni
di parentela costituisca prova o solo indizio della appartenenza di
un soggetto ad un’associazione mafiosa, tuttavia nulla impedisce
che, una volta accertata, da un lato, come nel caso in esame,
l’esistenza di una organizzazione delinquenziale a base familiare e,
dall’altro lato, una non occasionale attività criminosa di singoli
esponenti della famiglia, alla quale fa capo l’organizzazione
stessa, venga considerato non privo di valore indiziante in ordine

35

manifestata in tutta evidenza dal predominio esercitato

alla partecipazione al sodalizio criminoso anche il fatto che vi
siano legami di affinità e di parentela tra determinati soggetti e
coloro che nel sodalizio occupano posizioni di vertice o,
comunque, di rilievo (cfr. Cass., sez. IV, 1.8.1996, n. 1956, De
Stefano G., rv. 205940; Cass., sez. VI, 21.5.1998, n. 3089,
Caruana G. ed altri, rv. 213569; Cass., sez. VI, 31.1.1996, n.

30.5.2001, n. 35914, Hsiang Khe ed altri, rv. 221246).
Inammissibile, infine, è il motivo di ricorso sul trattamento
sanzionatorio, perché generico ed attinente a censure sul merito
della valutazione in ordine alla entità della pena irrogata,
dovendosi, peraltro, evidenziare come i giudici di primo e di
secondo grado abbiano tenuto correttamente conto della gravità
dei fatti e della spiccata tendenza a delinquere del Morabito, a
prescindere dalla pur significativa esistenza a suo carico di
precedenti penali, per negare il riconoscimento in suo favore delle
circostanze attenuanti generiche, rimandandosi, sul punto, alle
considerazioni già svolte esaminando la posizione dell’Altomonte.

MORELLO LEONE lamenta, innanzitutto, con il primo motivo di
ricorso, i vizi di cui all’art. 606, co. 1, lett. c) ed e), c.p.p., in
relazione all’art. 453, co. 1 bis, c.p.p., eccependo la nullità del
decreto che dispone il giudizio per violazione dell’art. 453, c.p.p.,
per essere stato disposto il giudizio immediato oltre centottanta
giorni dall’esecuzione della misura cautelare adottata nei suoi
confronti; con il secondo motivo di ricorso eccepisce, poi, i vizi di
cui all’art. 606, co. 1, lett. c) ed e), c.p.p., in relazione all’art.
192, co. 3 e 4, c.p., sollecitando il Collegio a sollevare la
questione di illegittimità costituzionale di tale disposizione

36

7627, P.M. in proc. Alleruzzo ed altri, rv. 206596; Cass., sez. VI,

normativa, nella parte in cui non prevede che le dichiarazioni rese
nell’ambito di conversazioni intercettate debbano essere
corroborate da riscontri per violazione degli artt. 3, 24, 111, Cost.
Ad avviso del ricorrente, infatti, la decisione di colpevolezza del
Morello risulta fondata sul contenuto di una serie di
intercettazioni, telefoniche ed ambientali, di dubbio significato, in
corroborate da riscontri esterni, secondo le regole in tema di
valutazione della prova sancite dall’art. 192, co. 3 e 4, c.p.p.
Nei successivi motivi di ricorso il Morello lamenta, ancora, la
mancanza, la contraddittorietà e la manifesta illogicità della
motivazione della sentenza della corte territoriale, rilevando come
non sia stata dimostrata l’esistenza di un’associazione a
delinquere di stampo mafioso di cui avrebbe fatto parte il
ricorrente; reitera la doglianza sulla mancanza di riscontri
oggettivi alle conversazioni intercettate tra terzi in cui viene
delineato, secondo l’accusa, il ruolo apicale del Morello all’interno
della menzionata “base”, con particolare riferimento alla
conversazione intercettata nel luglio del 2006 in cui Mauro Mario
Domenica delinea l’organigramma del sodalizio ed il ruolo del
Morello; l’errore in cui sarebbero incorsi i giudici di merito
nell’affermare come dimostrata l’avvenuta partecipazione del
Morello al “summit” mafioso svoltosi a Bova il 25.11.2006 in cui si
sarebbe proceduto all’affiliazione di due nuovi sodali, laddove dalla
conversazione del 26.11.2006 tra il Mauro e Spanò Francesco
appare evidente che si tratta di due episodi del tutto diversi,
nonché nell’attribuire valore sintomatico del suo ruolo di capo ad
un messaggio che egli avrebbe ricevuto per mezzo del genero
D’Aguì Francesco da tale Bruno.

37

quanto oggetto di semplice trascrizione, che andavano, pertanto,

Infine il ricorrente lamenta i vizi di violazione di legge ed omessa
motivazione anche nel non avere la corte territoriale riconosciuto
in suo favore le circostanze attenuanti generiche e nel non avere
considerato, ai tini del trattamento sanzionatorio, che il preteso
ruolo apicale del Morello era soggetto a termine, come affermato
dallo stesso Mauro nella conversazione intercettata nel luglio del
Orbene infondato è il primo motivo di ricorso, poiché il termine di
centottanta giorni dall’esecuzione della misura cautelare per la
proposizione della richiesta di giudizio immediato, come
correttamente evidenziato dalla corte territoriale, ha natura
tassativa per quanto concerne il completamento delle indagini ma
ordinatoria con riferimento all’instaurazione del rito (cfr.
Cassazione penale, sez. I, 09/12/2009, n. 2321, Stilo. rv. 246036,
nonché, in senso conforme, Cass., sez. VI, 20/10/ 2009, n.
41038, Amato), per cui il decorso di tale termine senza che sia
stato disposto il giudizio immediato non comporta la nullità del
decreto di giudizio immediato emesso successivamente e degli atti
conseguenti.
Per completezza va rilevato che i difensori del Morello a pag. 7 del
ricorso sembrano prospettare anche il diverso tema della
inutilizzabilità del materiale investigativo raccolto successivamente
alla scadenza del menzionato termine di centottanta giorni.
Tuttavia, sul punto, il motivo va dichiarato inammissibile per
evidente genericità, non contenendo uno specifico riferimento agli
atti di indagine che sarebbero stati compiuti dopo la scadenza del
termine in questione (peraltro genericamente indicato nel
“dicembre 2008” dallo stesso ricorrente), non potendosi ritenere
sufficiente al riguardo il richiamo (ancora una volta generico) alla

38

2006.

informativa del 9.3.2009, anche perché la data di redazione di un
atto di siffatta natura, come è noto, non coincide, di regola, con la
data di formazione o di acquisizione degli atti in essa consacrati.
Con riferimento, poi, alla censura a proposito della mancanza di
necessari riscontri oggettivi al contenuto delle conversazioni
intercettate, si rimanda a quanto già detto sulla inconsistenza di

sottolineare la manifesta infondatezza della questione di
legittimità costituzionale prospettata al riguardo dal ricorrente,
che non tiene conto della evidente e profonda differenza
strutturale tra la chiamata di reità o di correità ed il contenuto di
una conversazione oggetto di captazione, sia pure intervenuta tra
soggetti diversi da quello nei cui confronti vengono utilizzate le
dichiarazioni intercettate, per cui sarebbe non conforme a
Costituzione, ma del tutto irragionevole, applicare alle seconde il
particolare regime di valutazione della prova previsto per le prime
dall’art. 192, co. 3, c.p.p.
Quanto agli altri motivi di ricorso, essi, sulla base dei principi in
precedenza evidenziati, risultano inammissibili, risolvendosi nella
mera riproposizione di rilievi sollevati in sede di appello, già
disattesi dai giudici di merito ed in una prospettazione di versioni
alternative dei fatti per cui si procede e di censure di fatto, anche
in relazione al trattamento sanzionatorio (profilo quest’ultimo per
il quale valgono le stesse considerazioni già svolte per l’Altomonte
ed il Morabito Domenico, alle quali si rimanda, evidenziandosi
come anche Morello Leone risulti gravato da precedenti penali),
che, come si è detto, non sono ammissibili in sede di legittimità.
Nel rimandare a quanto già si è osservato a proposito della
dimostrata esistenza dell’associazione a delinquere di stampo

39

tale rilievo trattando la posizione dell’Altomonte, non senza

mafioso di cui si discute, va solo osservato che numerosi sono gli
indici dai quali si ricava la partecipazione del Morello al sodalizio
criminoso in posizione di vertice, puntualmente evidenziati dalla
corte territoriale.
Il Morello, infatti, come si evince dal contenuto delle numerose
conversazioni intercettate: risulta uno dei componenti della
ricorrente nel corso della conversazione n. 11862, intercettata il
27.11.2007 ed intercorsa con Altomonte Sebastiano e Modaffari
Leone, funzioni che lo pongono in continuo contatto con gli altri
esponenti del sodalizio per assumere decisioni relative, tra l’altro,
alle nuove affiliazioni ed alla distribuzione dei compiti tra i singoli
associati, che seguono rigidi criteri predeterminati, sintomo
evidente della presenza di una dimensione organizzativa
fortemente radicata ed articolata a vari livelli, come nel caso in cui
il Morello, intrattenendosi sempre con il Modaffari Leone e con
l’Altomonte Sebastiano, si soffermava sul rifiuto da parte di
Nucera Giuseppe di assumere la carica di “capo giovani”, che,
quindi, era stata attribuita al fratello Pasquale, commentando, in
una successiva conversazione intercettata sempre nello stesso
giorno, a riprova di quanto egli fosse inserito da tempo negli
ambienti della “ndrangheta”, come negli ultimi anni le affiliazioni
fossero state concesse con troppa facilità, laddove, in passato,
occorreva fare “il picciotto” per un lungo periodo, prima di essere
affiliato; nell’esercizio dei suoi poteri direttivi adotta un
provvedimento di “sospensione” dalla vita del sodalizio nei
confronti di Modaffari Salvatore della durata di tre mesi; gode
della stima incondizionata di Modaffari Leone e di Altomonte
Sebastiano, in considerazione della sua vicinanza al Vadalà

“base”, con funzioni di “direzione”, come affermato dallo stesso

Antonino e della sua capacità di assicurare la “pace” tra le due
“famiglie” mafiose dei Talia e dei Vadalà; a lui rivela di essersi
rivolto il Modaffari per spendere la sua “autorità” nei confronti di
una terza persona non identificata; esercita un penetrante
controllo sulla aggiudicazione dei lavori nel territorio di
“competenza” delle cosche mafiose, tanto che, come si ricava dal

tra Mauro Domenica e Nucera Bruno, egli impone a Palamara
Annunziato, il quale non lo aveva preventivamente avvisato dei
lavori che stava eseguendo alle spalle del plesso scolastico
“Euclide” (vicenda di cui discutono in separate conversazioni
anche Mauro Domenica, D’Aguì Terenzio, Vadalà Antonino e
Vadalà Carmelo, classe ’80), il divieto di assumere nuovi lavori nel
territorio controllato dal clan, sintomo inequivocabile della forza
intimidatoria nascente dal vincolo associativo e della infiltrazione
delle cosche mafiose nel relativo appalto, che peraltro viene
sottolineata in maniera del tutto evidente proprio dal Vadalà
Antonino, il quale manifesta al Mauro, nel corso di una
conversazione intercettata, il timore che il Palamara, se
contrastato, potesse rivolgersi alle forze dell’ordine; viene
indicato, infine, da Mauro Domenico a Nucera Giuseppe, nella
conversazione n. 890, intercettata il 15.6.2006, come il soggetto
che, all’interno della “base”, ricopre “la carica più grossa”.
Ad ulteriore conferma dell’importanza del ruolo svolto dal Morello,
inoltre, la corte territoriale evidenzia come, alla luce dei risultati
dei servizi di intercettazione e di appostamento, sia possibile
affermare che quest’ultimo abbia preso parte alla importante
riunione svoltasi il 25.11.2006 in Bova Superiore, presso
l’abitazione della famiglia D’Aguì, prolungatasi sino a sera, alla

41

contenuto della conversazione n. 1960 del 4.10,2006, intercorsa

quale avevano partecipato, oltre al ricorrente, Mauro Domenico;
Vadalà Carmelo, classe ’80; D’Aguì Terenzio; i fratelli D’Aguì
Francesco e D’Aguì Pietro; il padre di questi ultimi, D’Aguì
Antonino; uno dei dipendenti della società “D’Aguì Beton”, La
Morte Gerardo, Fortugno Giuseppe; Labate Giovanni e Carrozza
Pasquale, rispettivamente assistente di cantiere e capo cantiere

aggiudicataria dell’appalto pubblico relativo ai lavori per la strada
statale n. 106, nella parte finale della quale, in assenza dei
dipendenti della menzionata società, ma in presenza del Morello,
del D’Aguì Francesco, del Vadalà Carmelo, classe ’80 e del Mauro
Domenico, si era proceduto all’affiliazione di nuovi sodali (cfr. pp.
70.81 dell’impugnata sentenza).
Tale riunione, peraltro, in considerazione del contesto mafioso in
cui operavano la maggior parte di coloro che vi parteciparono,
come dimostrato anche dalla circostanza che, nello stesso giorno,
quasi senza soluzione di continuità si procedette a nuove
affiliazioni, rappresenta conferma evidente da un lato degli accordi
intervenuti tra le diverse cosche per la suddivisione in subappalto
dei lavori appaltati alla “Società Condotte”, dall’altro dell’avvenuta
infiltrazione delle imprese mafiose in tali lavori.
Ove si tenga presente, poi, che il Morello ha preso parte anche ad
altra analoga riunione svoltasi il 4 novembre del 2007 presso il
casolare di Morabito Bruno, di cui si è parlato trattando la
posizione di Morabito Domenico, non può che condividersi
l’assunto dei giudici di merito in ordine alla posizione di assoluto
rilievo assunta nella compagine mafiosa dal ricorrente nel quadro
degli accordi presi dai diversi “locali” della “ndrangheta” di Bova,
Palizzi ed Africo per assicurarsi una posizione preminente nella

42

della “Società Italiana per Condotte D’Acqua S.P.A.”,

esecuzione dei lavori riguardanti gli appalti in precedenza
menzionati, di cui le periodiche riunioni alle quali partecipano gli
uomini di vertice delle cosche, i titolari delle imprese riconducibili
ai suddetti gruppi criminali ed i responsabili dei cantieri aperti
dalle società appaltatrici, rappresentano uno degli indici rivelatori
più evidenti.

dell’Altomonte e del Morabito Domenico, che il Morello Leone deve
considerarsi uno dei partecipi dell’associazione di stampo mafioso
di cui si discute, secondo i principi in precedenza evidenziati, in
quanto egli ha messo consapevolmente la sua persona a completa
disposizione del sodalizio criminoso, collocandosi al vertice del
raggruppamento formato dalle cosche Vadalà e Talia, in quanto
membro di assoluto prestigio all’interno della struttura decisionale
denominata “base”
Proprio in considerazione di tale ruolo del tutto correttamente i
giudici di merito hanno ritenuto di potere configurare a suo carico
il ruolo di promotore, dirigente ed organizzatore del sodalizio in
parola, posto che egli ha agito sia per rafforzare la potenzialità
pericolosa del gruppo associativo, assicurandone il predominio sul
territorio di rispettiva “competenza” e facendosi garante, con la
sua abilità “diplomatica”, della pace raggiunta tra cosche un
tempo rivali, sia per sovraintenderne l’attività complessiva,
assumendo funzioni decisionali.

VADALA’ ANTONINO prospetta otto motivi di ricorso.
Con il primo lamenta la mancanza della motivazione della
sentenza della corte territoriale in ordine agli elementi in base ai
quali è possibile affermare che il Vadalà abbia partecipato

43

Appare, dunque, evidente, come già detto a proposito

all’associazione in parola, come si legge nel capo d’imputazione,
con il ruolo di capo, quale vicario del fratello Domenico, di cui
esegue fedelmente gli ordini, nel periodo in cui quest’ultimo era
ristretto in carcere, in quanto non è stato accertato nessun
contatto tra i due germani Vadalà in tale periodo, né quali siano
state le direttive impartite dal Domenico al ricorrente.

o l’erronea applicazione della legge penale in quanto la corte
territoriale valorizza alcune vicende indiziarie prive di rilevanza per
ritenere il Vadalà partecipe al sodalizio di cui si discute, senza
indicare significativi collegamenti del ricorrente con la maggior
parte dei coimputati ovvero eventi cruciali per la vita del sodalizio
che lo vedano protagonista, facendo riferimento ad un arco
temporale limitato e circoscritto.
Con il terzo motivo di ricorso il ricorrente lamenta l’ inosservanza
ovvero l’erronea applicazione della legge penale e la mancanza di
motivazione dela sentenza impugnata in ordine al valore
probatorio delle dichiarazioni eteroaccusatorie contenute nelle
conversazioni intercettate, che non sono sostenute, come
avrebbero dovuto, ex art. 192, c.p.p., da adeguati riscontri.
Con il quarto motivo di ricorso il Vadalà lamenta la manifesta
illogicità della motivazione della sentenza impugnata ed il
travisamento degli elementi probatori, in quanto, da un lato la
corte territoriale avrebbe desunto illogicamente la partecipazione
del Vadalà al sodalizio de quo da circostanze aventi ad oggetto
fatti del tutto diversi (un presunto furto ed un pestaggio) da quelli
oggetto di verifica; dall’altro ha ritenuto sussistente, con evidente
travisamento della prova assunta, un interesse del Vadalà alla
spartizione negli appalti dall’esito di una conversazione

44

Con il secondo motivo di ricorso l’imputato lamenta l’inosservanza

intercettata il 29.6.2006 in cui il nipote Vadalà Carmelo riferisce,
parlando di Giovanni Calò, come quest’ultimo avesse chiesto allo
zio se fosse interessato agli appalti ricevendone risposta negativa.
Con il quinto motivo di ricorso l’imputato lamenta il medesimo
vizio in ordine alla valutazione delle conversazioni intercettate il
2.12.2006 sull’autovettura in uso a Nucera Giuseppe, dalle quali
territoriale, che in tale occasione il ricorrente si era portato in
Africo presso l’abitazione di Morabito Bruno, con i Nucera ed il
nipote Vadalà Carmelo cl. 80, per discutere questioni rilevanti per
la vita dell’associazione, ma, al contrario, come si ricava dalla viva
voce di Vadalà Antonino, la completa estraneità di quest’ultimo
alla gestione degli appalti di cui si discute.
Con settimo motivo di ricorso il Vadalà eccepisce la mancanza o la
illogicità della motivazione della sentenza impugnata nella parte in
cui, senza spiegarne le ragioni attribuisce valore fondante ai fini
del convincimento sulla responsabilità del ricorrente alle
conversazioni n. 859, 950 e 951 del 23.12.2006.
Con il settimo motivo di ricorso, l’imputato lamenta l’inosservanza
o l’erronea applicazione della legge penale nella parte in cui la
corte territoriale ha ritenuto di qualificare il ricorrente in termini di
promotore senza indicare in concreto quali attività avrebbe svolto
in tale veste all’interno del sodalizio di appartenenza.
Con l’ottavo, motivo, infine, l’imputato lamenta violazione di legge
e la manifesta illogicità della motivazione della sentenza
impugnata nella parte in cui, pur riconoscendo al ricorrente un
ruolo in qualche modo subordinato a quello del fratello, e
caratterizzato da provvisorietà, applica nei suoi confronti una
pena maggiore di quella comminata al Vadalà Domenico.

45

non si evince, come erroneamente affermato dalla corte

Con motivi aggiunti depositati il 3.10.2012 il ricorrente reitera le
proprie doglianze in ordine alla mancanza, alla manifesta illogicità
della motivazione, sotto il profilo del travisamento della prova, ed
alla erronea applicazione della legge penale, con riferimento
all’art. 416 bis, c.p., proponendo una lettura alternativa del
contenuto di alcune delle conversazioni intercettate e contestando

suo dire, avrebbe proceduto ad un esame parcellizzato e non
unitario dei singoli elementi di prova.
Avuto riguardo al trattamento sanzionatorio, poi, sempre con i
motivi aggiunti, il ricorrente lamenta nuovamente l’eccessivo
rigore della pena inflitta, rimarcando come nel caso in esame la
corte territoriale, pur irrogando al Vadalà Antonino una pena
meno grave di quella inflittagli in primo grado, sia comunque
partita da una pena base elevata.
In tal modo i giudici di secondo grado, da un lato, in violazione
dell’art. 2, c.p., hanno applicato erroneamente la nuova disciplina
sanzionatoria prevista dall’art. 416, co. 2, c.p., come modificato
dalla I. 24 luglio 2008, n. 125, che, viceversa, non può trovare
applicazione nel caso in esame né per le ipotesi di partecipazione
“semplice” all’associazione a delinquere di stampo mafioso di cui
all’art. 416 bis, co. 1, c.p., né per quelle “qualificate” di cui all’art.
416, co. 2, c.p., trattandosi di legge penale posteriore più
sfavorevole al reo, in quanto inasprisce il trattamento
sanzionatorio precedentemente previsto; dall’altro non hanno
motivare le ragioni che li hanno indotti a partire da una pena-base
così elevata, in violazione dell’art. 133, c.p.
Tanto premesso, con riferimento al terzo motivo di ricorso, esso si
appalesa infondato alla luce delle considerazioni già svolte al

46

il percorso argomentativo seguito dalla corte territoriale, che, a

riguardo trattando le posizioni dell’Altomonte e del Morello, alle
quali si rimanda.
Anche solo la semplice elencazione degli altri motivi di ricorso
(originari ed aggiunti) articolati dal Vadalà Antonino, invece, ne
rende palese l’inammissibilità, risolvendosi essi nella mera
riproposizione di rilievi sollevati in sede di appello, già disattesi dai

giudici di merito, ed in una prospettazione di versioni alternative
dei fatti per cui si procede e di censure di fatto, anche in relazione
al trattamento sanzionatorio, che, come si è detto, non sono
ammissibili in sede di legittimità.
Inconferente è anche il richiamo ad un preteso vizio di
travisamento della prova in ordine alla valutazione del contenuto
delle conversazioni intercettate, in quanto, come è noto, in tema
di ricorso per Cassazione, quando ci si trova dinanzi a una ipotesi
di “doppia pronuncia conforme”, in primo e in secondo grado,
l’eventuale vizio di travisamento della prova può essere rilevato in
sede di legittimità, ex art. 606, co. 1, lett. e) c.p.p., nel solo caso
in cui il giudice di appello, al fine di rispondere alle censure
contenute nell’atto di impugnazione, abbia richiamato atti a
contenuto probatorio non esaminati dal primo giudice, ostandovi
altrimenti il limite del devoluto, che non può essere superato
ipotizzando recuperi in sede di legittimità (cfr., ex plurimis, Cass.,
sez. II, 09/07/2010, n. 28683, B.).
Anche in questo caso la corte territoriale, seguendo un percorso
motivazionale coerente ed immune da vizi, ha compiutamente
ricostruito ed analiticamente esposto, sulla base di una
valutazione, non parcellizzata, ma, al contrario, unitaria dei singoli
elementi di prova, le ragioni che fanno considerare il ricorrente
inserito stabilmente nella compagine associativa di stampo

47

/1

mafioso di riferimento, con compiti di direzione, che sono stati
valorizzati soprattutto nel periodo in cui il capo della cosca, il
fratello Domenico, era detenuto, quando, come riferisce Mauro
Domenico al Vadalà Carmelo, classe’82, figlio del Vadalà Antonino,
nel corso della conversazione intercettata il 23.7.2006, il
contributo di quest’ultimo è stato decisivo per risolvere i problemi

Come si legge in motivazione, infatti, in tale periodo il ricorrente
esercitava uno stretto controllo sulle attività criminali che si
svolgevano sul territorio di Bova Marina, come dimostrato dalla
circostanza, emersa nel corso di una conversazione tra Cilione
Angelo e Vadalà Salvatore, figlio minore di Vadalà Domenica,
intercettata il 29.8.2006, che gli autori di un furto effettuato
all’interno del deposito dell’esercizio commerciale “Crai” ubicato in
Bova Marina, prima di agire avevano chiesto ed ottenuto la
necessaria “autorizzazione” dal Vadalà Antonino, al quale era
andata una parte del bottino; nonché dal suo diretto intervento in
un altro episodio, di notevole importanza, al pari del precedente,
non per il suo valore intrinseco, ma in quanto sintomo rivelatore
del ferreo controllo sul territorio esercitato dal Vadalà Antonino
fondato sulla forza di intimidazione derivante dal vincolo
associativo, avendo il ricorrente, come si ricava dal contenuto di
alcune conversazioni intercorse tra Vadalà Carmelo, classe ’80,
Mauro Domenico e Cilione Pietro, autorizzato il “pestaggio” di un
cittadino rumeno che lavorava presso una carrozzeria di Bova
Marina, sospettato di essere l’autore di una serie di furti
consumati in quella zona, commesso dal figlio Carmelo e da altri
soggetti, proprio allo scopo di dimostrare come, all’interno del

48

7r

del gruppo.

paese, “l’ordine” venisse assicurato dalla cosca mafiosa di
appartenenza.
Tale episodio evidenzia l’importanza del ruolo assunto dal Vadalà
Antonino, anche perché quest’ultimo, come si evince dal
contenuto della conversazione tra il Cilione ed il Mauro, non
poteva tollerare che la sua immagine “pubblica” di esponente di
consumati nel suo territorio, nonché i reciproci collegamenti tra le
altre cosche con cui erano stati conclusi gli accordi spartitori,
posto che, come si desume sempre dal contenuto delle
menzionate conversazioni, il Morello Leone si era doluto di non
essere stato previamente informato della spedizione punitiva, a
differenza di Talia Domenica.
La corte territoriale evidenzia anche il diretto interessamento del
Vadalà Antonino agli accordi spartitori in materia di appalti e la
posizione dominante da quest’ultimo assunta al riguardo, come si
ricava con assoluta chiarezza dalla conversazione n. 659,
intercettata il 29.6.2006 all’interno dell’autovettura di Mauro
Domenica, in cui il nipote Vadalà Carmelo, classe ’80, figlio del
fratello Vadalà Domenico, rivelava al suo interlocutore che tale
Giovanni Calò, prima di accettare un lavoro di movimento terra, si
era preventivamente accertato che non rientrasse tra quelli per
cui vi era un interesse dello zio, ricevendo da quest’ultimo il
necessario beneplacito, condotta che aveva irritato il nipote, il
quale pretendeva che il ricorrente lo tenesse informato di come
gestiva i rapporti con le ditte aggiudicatrici degli appalti di
maggiore rilievo.
Quello dei rapporti tra il Vadalà Antonino ed il nipote, peraltro, è
un tema di particolare rilievo, sul quale pure la corte territoriale si

49

rilievo del sodalizio potesse essere compromessa dai furti

sofferma, sottolineando l’esistenza di un contrasto tra i due
uomini, alimentato dal timore del Vadalà Carmelo, classe ’80, di
vedere assumere allo zio un ruolo di maggiore importanza
all’interno del sodalizio criminoso in suo pregiudizio, sentendosi
egli l’erede predestinato del padre, perché mette in luce la
struttura di base del sodalizio di appartenenza dei due imputati,

vertice.
Continui e stretti sono poi i rapporti tra il Vadalà Antonino ed il
potente il capocosca di Africo, Morabito Bruno.
Accertata, infatti, è la partecipazione del Vadalà Antonino, il
2.12.2006, ad un importante incontro con il Morabito Bruno,
presso la cui abitazione egli si recava, viaggiando a bordo di
un’automobile, in compagnia di Nucera Giuseppe, Nucera
Pasquale e di Vadalà Carmelo, classe ’80.
Sia nel corso del viaggio di andata che in quello di ritorno il
ricorrente affronta con i suoi compagni temi che riguardano la vita
del sodalizio, manifestando più volte il timore di essere arrestato a
causa delle indagini in corso, di cui aveva appreso l’esistenza e
che riconduceva, significativamente, proprio ai lavori in corso di
esecuzione sulla strada statale n. 106.
Particolarmente negativo è, poi, il giudizio che nell’occasione il
Vadalà Antonino esprime nei confronti del coimputato D’Aguì
Terenzio, la cui posizione sarà esaminata in seguito, da lui
accusato di essersi alleato con il Morabito Bruno, per assicurarsi il
maggior numero di lavori, stante l’indubbio predominio degli
“Africoti” sulle cosche di Bova e di Palizzi.
Il timore, manifestato dal ricorrente in tale contesto narrativo,
che, con la sua condotta imprudente, il D’Aguì possa attirare

50

fondata sugli stretti legami di parentela tra i suoi componenti di

l’attenzione delle forze dell’ordine, consentendo l’arresto dello
stesso Vadalà Antonino, è una dimostrazione eloquente della
partecipazione all’accordo sulla spartizione tra le varie cosche
mafiose dei lavori oggetto degli appalti in precedenza indicati, cui
appartengono tutti i soggetti presenti all’incontro.
La frequentazione del Vadalà Antonino e del Morabito Bruno,

A testimonianza del legame fondato sul reciproco comune
interesse economico-mafioso, la corte territoriale segnala, infatti,
altri due incontri: uno verificatosi il 17.1.2007, in cui il Morabito si
reca con la moglie presso l’abitazione del ricorrente, in Bava
Marina, che forma oggetto di commento il giorno successivo tra il
Vadalà ed il Nucera Pasquale; l’altro, che si svolgeva 1’11.2.2007
in Africa, dove il Vadalà si recava in compagnia di Nucera
pasquale e di Cilione Francesco (cfr. p,188-201 dell’impugnata
sentenza).
Infine non può non rilevarsi un ultimo elemento che, unitamente a
quelli presi in considerazione nelle pagine precedenti, conferma
l’appartenenza del ricorrente alla cosca Vadalà nei termini illustrati
esaminando la posizione di Morabito Domenica, cui si rimanda,
vale a dire il rapporto di parentela che lo lega al fratello Vadalà
Domenica, al figlio Vadalà Carmelo, classe ’82 ed al nipote Vadalà
Carmelo, classe. ’80, tutti elementi di spicco della compagine
mafiosa.
Appare, dunque, evidente, alla luce dei principi di diritto in
precedenza affermati, che il Vadalà Antonino deve considerarsi
uno dei partecipi dell’associazione di stampo mafioso di cui si
discute, in quanto egli ha messo la sua persona consapevolmente

51

peraltro, non appare episodica.

a completa disposizione del sodalizio criminoso, collocandosi in
posizione di assoluto rilievo al vertice del cosca Vadalà.
Proprio in considerazione di tale ruolo del tutto correttamente i
giudici di merito hanno ritenuto di potere configurare a suo carico
il ruolo di promotore, dirigente ed organizzatore del sodalizio in
parola, posto che egli ha agito sia per rafforzare la potenzialità

territorio di rispettiva “competenza” ed assicurandone la piena
operatività in una fase particolarmente delicata per l’assenza
forzata del capoclan Vadalà Domenico, sia per sovraintenderne
l’attività complessiva, assumendo funzioni decisionali.
Con particolare riferimento, poi, alle doglianze relative al
trattamento sanzionatorio, va rilevato come esse siano in parte
inammissibili, perché generiche ed attinenti a censure sul merito
della valutazione in ordine alla entità della pena irrogata,
dovendosi, peraltro, evidenziare come i giudici di primo e di
secondo grado abbiano tenuto correttamente conto della gravità
dei fatti e della spiccata tendenza a delinquere del Vadalà
Antonino, per negare il riconoscimento in suo favore delle
circostanze attenuanti generiche, rimandandosi, sul punto, alle
considerazioni già svolte esaminando la posizione dell’Altomonte.
Infondate sono, poi, le doglianze espresse al riguardo nei motivi
aggiunti: in motivazione sono state, infatti, puntualmente
specificate le ragioni che hanno indotto la corte territoriale a
partire da una pena-base pari ad anni dieci mesi sei di reclusione,
individuate “nel ruolo particolarmente significativo rivestito”
dall’imputato all’interno della compagine associativa (cfr. p. 346
dell’impugnata sentenza).

52

pericolosa del gruppo associativo, assicurandone il predominio sul

Tale determinazione, peraltro, appare assolutamente conforme
alla disciplina sanzionatoria prevista per i promotori, i dirigenti e
gli organizzatori dall’art. 416 bis, co. 2, c.p. (prima dell’intervento
riformatore disposto con il d.l. 23 maggio 2008, n. 92, convertito
con modificazioni nella I. 24 luglio 2008, n. 125), il cui contenuto
era già stato modificato dall’art. 1, co. 2, lett. b), I. 5 dicembre
qualificata all’associazione di stampo mafioso la pena della
reclusione dai sette ai dodici anni, laddove la disciplina
attualmente in vigore prevede la pena della reclusione da nove a
quattordici anni.
Ne consegue che, avendo la corte territoriale applicato, come si
evince dal riferimento contenuto in motivazione alla normativa
previgente all’inasprimento sanzionatorio di cui alla citata I. 24
luglio 2008, n. 125 (cfr. p. 346 della sentenza impugnata), proprio
la disciplina di cui all’art. 1, co. 2, lett. b), I. 5 dicembre 2005, n.
251, cioè la legge penale vigente al tempo in cui fu commesso il
reato, la doglianza difensiva appare priva di fondamento, in
quanto tale disciplina, prevedendo una pena edittale inferiore, nel
minimo e nel massimo, a quella introdotta nel 2008, è quella più
favorevole al reo, giusta la previsione dell’art. 2, co. 4, c.p.
VADALA’ CARMELO, classe ’82 lamenta l’assenza di una reale
motivazione della sentenza della corte territoriale, che,
nell’affermare la responsabilità del suddetto Vadalà, si è limitata a
recepire acriticamente la sentenza di primo grado e ha
completamente omesso di fornire adeguata risposta alle censure
prospettate nei motivi di appello, laddove nessun elemento è
emerso dagli atti che possa consentire di attribuire ricorrente il

53

2005, n. 251, che aveva previsto per tali forme di partecipazione

ruolo di organizzatore della cosca mafiosa di cui è stato ritenuto
partecipe, ruolo che non si può certamente desumere dalla
frequentazione di una serie di coetanei quali il Nucera Pasquale, il
Verducci Domenico ed il Cilione Francesco, a lui legati da semplici
vincoli di amicizia e da comuni esperienze scolastiche, non
criminali; contesta l’imputato che gli elementi raccolti possano
pessimi rapporti tra il ricorrente ed il cugino Vadalà Carmelo,
classe ’80, e la circostanza che in diverse occasioni alcuni sodali
hanno affermato che di alcuni argomenti non bisognava parlare
con “Melo”, sono elementi che depongono in senso opposto
all’ipotesi accusatoria; sottolinea, inoltre, il Vadalà come le
intercettazioni valorizzate in senso accusatorio in cui si parla del
pestaggio dell’ex socio Minniti Alessandro e di un cittadino rumeno
non hanno alcun rapporto con l’imputazione ed, in ogni caso, sono
prive di riscontri esterni; ancora evidenzia il ricorrente che dal
contenuto della conversazione intercettata il 15.7.2006, intercorsa
tra Nucera Pasquale e Mauro Domenico, emerge che il Vadalà non
fa parte della “base”, mentre dal contenuto della ulteriore
conversazione del 23.7.2006 si evince che sentirsi capo in pectore
come afferma l’imputato, non significa esserlo, in quanto la
semplice volontà di aderire o di sentirsi affiliato non equivale ad
essere tale, essendo necessario, l’accordo di altre volontà
palesemente inesistenti in questo caso, né si può evincere dalla
stessa conversazione, il cui contenuto è stato travisato dalla corte
di appello, la volontà dell’imputato di succedere al padre; infine la
corte territoriale ha omesso di valutare un dato di particolare
importanza: con provvedimento del 5.10.2007 il tribunale di
Reggio Calabria, sezione misure di prevenzione, ha restituito al

54

farlo ritenere un componente della “base”, anzi, l’esistenza di

Vadalà la cauzione prestata sul presupposto che egli non aveva
violato le prescrizioni impostegli durante il periodo di
sottoposizione alla misura della sorveglianza speciale per anni tre
ed aveva serbato una buona condotta, il che appare
assolutamente incompatibile con la sua partecipazione al sodalizio
in un periodo di tempo coperto dalla applicazione della suddetta

Anche in questo caso, per i motivi già esposti trattando la
posizione dell’Altomonte, va disattesa, perché infondata, la
censura relativa alla necessità che siano munite di riscontri le
dichiarazioni auto ed eteroaccusatorie contenute nelle
conversazioni oggetto di captazione.
Inammissibili, invece, si appalesano le altre doglianze risolvendosi
esse nella mera riproposizione di rilievi sollevati in sede di appello,
già disattesi dai giudici di merito, ed in una prospettazione di
versioni alternative dei fatti per cui si procede e di censure di
fatto, che, come si è detto, non sono ammissibili in sede di
legittimità.
Inconferente è anche il richiamo ad un preteso vizio di
travisamento della prova in ordine alla valutazione del contenuto
della conversazione intercettata il 23.7.2006, in quanto, come già
detto, in tema di ricorso per Cassazione, quando ci si trova
dinanzi a una ipotesi di “doppia pronuncia conforme”, in primo e
in secondo grado, l’eventuale vizio di travisamento della prova
può essere rilevato in sede di legittimità, ex art. 606, co. 1, lett.
e) c.p.p., nel solo caso in cui il giudice di appello, al fine di
rispondere alle censure contenute nell’atto di impugnazione, abbia
richiamato atti a contenuto probatorio non esaminati dal primo
giudice, ostandovi altrimenti il limite del devoluto, che non può

55

misura.

essere superato ipotizzando recuperi in sede di legittimità (cfr., ex
plurimis, Cass., sez. II, 09/07/2010, n. 28683, B.).

Ciò non è avvenuto nel caso in esame, in quanto la menzionata
conversazione ha formato oggetto di specifica valutazione da
parte del giudice di primo grado, che veniva condivisa dalla corte
territoriale (cfr., in particolare, p. 202 dell’impugnata sentenza).
motivazione approfondita ed immune da vizi ha evidenziato come
la partecipazione del Vadalà Carmelo, cl. ’82, alla cosca Vadalà si
evinca con assoluta certezza da una serie di elementi dotati di
pregnante valore sintomatico a partire dalla esecuzione da parte
del Vadalà Carmelo del “pestaggio” del cittadino rumeno di cui si è
parlato nelle pagine precedenti esaminando la posizione del padre
del ricorrente, Vadalà Antonino, eseguito su incarico di
quest’ultimo proprio per ribadire la sottoposizione del territorio
alla forza intimidatrice della cosca Vadalà.
Di tale episodio parlano diffusamente anche Mauro Domenico e
Vadalà Carmelo, classe ’80, ed appare di particolare importanza
che nella conversazione n. 2501 dell’11.11.2006, a conferma
dell’appartenenza del Vadalà Carmelo, classe ’82 alla cosca dei
Vadalà, di cui fa parte anche il cugino, il Mauro evidenzi al suo
interlocutore come l’atteggiamento spavaldo del ricorrente
preoccupi i membri anziani del sodalizio, che non condividono i
comportamenti dei membri più giovani, rappresentati, per
l’appunto, dal Vadalà Carmelo, classe’82.
Anche l’episodio del “pestaggio” di tale Minniti Alessandro da parte
del ricorrente e di Nucera Giuseppe, che pure forma oggetto di
commenti nelle conversazioni intercettate tra Cilione Pietro, Mauro
Domenico, Vadalà Carmelo, classe ’80 e lo stesso Minniti, viene

56

Tanto premesso va rilevato che la corte territoriale, con

ricondotto ad una causale “mafiosa”, come esplicitamente riferito
al cugino del ricorrente dal suddetto Minniti nel corso della
conversazione del 21.7.2006, n. 1849, in cui egli, dimostrandosi
amareggiato per la condotta del Vadalà Carmelo, classe ’82, che,
pur essendo suo socio nella gestione di un esercizio commerciale,
voleva approfittare del suo ruolo, prelevando la merce e non
parole: “ha confuso il commercio con la ‘ndrangheta”.
Dimostrata, attraverso le conversazioni intercettate tra Vadalà
Carmelo, classe ’82, Nucera Giuseppe, Mauro Domenico e
Modaffari Leone, puntualmente indicate e valutate nel loro
contenuto, come tutte le altre in precedenza richiamate, dalle
corte territoriale nella motivazione della sentenza impugnata, è
anche la vicinanza al ricorrente delle giovani leve della cosca,
come Palamara Donato, Nucera Pasquale e Nucera Giuseppe, che
vedono in lui un punto di riferimento, operando sostanzialmente ai
suoi ordini.
In questo contesto non va, peraltro, dimenticato, ad ulteriore
dimostrazione dei legami esistenti tra le diverse cosche e
dell’egemonia esercitata da Morabito Bruno, che i fratelli Nucera,
come si è visto esaminando la posizione dell’Altomonte, erano i
“killers” ai quali il capoclan di Africo aveva affidato l’incarico di
uccidere Mafrica Antonio, prima di essere distolto dai suoi
propositi dall’intervento “diplomatico” dell’Altomonte.
Assumono, ancora, un assoluto rilievo al fine di dimostrare lo
stabile inserimento del ricorrente all’interno del sodalizio
criminoso di cui si discute, due ulteriori circostanze: da un lato il
significato della conversazione n. 1001 intercettata il 23.7.2006,

4., ,

non ammette equivoci, in quanto in essa il suddetto Vadalà, nel

57

facendo pagare i suoi amici, pronunciava le seguenti testuali

discutere con il Mauro Domenico di vicende relative al
comportamento ed alla affidabilità delle giovani leve del sodalizio,
nonché dei suoi rapporti con il cugino “Vadalà Carmelo, classe’80,
al quale si sentiva molto legato, manifesta chiaramente la sua
disponibilità ad assumere le redini della cosca ove venisse meno

Mauro, il quale, come si evince dal contenuto della conversazione
n. 9063 intercettata il 4.2.2007 ed intercorsa tra Nucera Pasquale,
il ricorrente e Modaffari Salvatore, essendo entrato a far parte
della “base”, pretendeva un maggiore rispetto dai membri giovani
del sodalizio, minacciando, diversamente, di “spogliarli”, cioè di
far perdere loro la qualità di “uomo d’onore”, entrando, per tale
motivo, in contrasto con il Vadalà Carmelo, classe ’82, il quale, in
risposta all’attacco subito, aveva ottenuto che il Mauro venisse
“ripreso” dal padre Vadalà Antonino.
In questo contrasto che riguardava una modalità di non poco
momento nella vita del sodalizio, investendo gli assetti gerarchici
ed i rapporti tra vecchie e nuove generazioni di affiliati, erano
intervenuti, per placare le tensioni, a dimostrazione del loro
inserimento in posizione di rilievo all’interno della compagine
associatica, anche Cilione Pietro e Morello Leone (cfr. pp. 201-209
dell’impugnata sentenza)
Infine non può non rilevarsi un ultimo elemento che, unitamente a
quelli presi in considerazione nelle pagine precedenti, conferma
l’appartenenza del ricorrente alla cosca Vadalà nei termini illustrati
esaminando la posizione di Morabito Domenico, cui si rimanda,
vale a dire il rapporto di parentela che lo lega a Vadalà Domenico,
al padre Vadalà Antonino ed al cugino Vadalà Carmelo, classe ’80.

58

l’apporto del padre; dall’altro il conflitto insorto con lo stesso

Ciò posto, appare del tutto inidoneo ad escludere la
partecipazione del ricorrente alla cosca Vadalà il suo mancato
inserimento nella “base” (probabilmente fondato sulla sua giovane
età), che, peraltro, la stessa corte territoriale sembra escludere,
in quanto l’organizzazione prescelta dai “locali” della “ndrangheta”

elastica, in cui l’attività di coordinamento e controllo svolta, con
poteri decisionali, dai componenti della “base” si concilia con la
relativa autonomia degli altri membri del sodalizio.
Appare, dunque, evidente, alla luce dei principi di diritto in
precedenza affermati, che anche il Vadalà Carmelo, classe ’82
deve considerarsi uno dei partecipi dell’associazione di stampo
mafioso di cui si discute, in quanto egli ha messo
consapevolmente la sua persona a completa disposizione del
sodalizio criminoso di appartenenza, collocandosi in posizione di
assoluto rilievo all’interno della cosca Vadalà.
Proprio in considerazione di tale posizione del tutto correttamente
i giudici di merito hanno ritenuto di potere configurare a suo
carico il ruolo di organizzatore del sodalizio in parola, posto che
egli ha agito con autonomia coagulando intorno a sé le leve più
giovani della cosca, che operavano alle sue dipendenze, come nel
caso del “pestaggio” del cittadino rumeno e del Minniti.
Le posizioni degli imputati VADALA’ DOMENICO E VADALA’
CARMELO, classe ’80, vanno affrontate unitariamente, avendo
essi presentato ricorsi con motivi in parte comuni, a firma dei loro
difensori, avv. Managò e Russo.
L’avv. Managò, in relazione alla posizione di Vadalà Domenico,
lamenta un unico vizio quello di cui all’art. 606, co.1, lett. e),

59

oggetto del presente procedimento, si fonda su di una struttura

c.p.p., eccependo, innanzitutto la mancanza di motivazione della
sentenza della corte territoriale in ordine all’esistenza del clan
Vadalà e del ruolo che vi avrebbe svolto il Vadalà Domenico.
Al riguardo, osserva il ricorrente, la corte territoriale non ha
tenuto conto che quest’ultimo è stato assolto in passato dal delitto
di cui all’art. 416 bis, c.p., rimanendo in stato di detenzione dal
all’anno 2006, quando il tribunale di sorveglianza di Napoli
revocava tale regime, riconoscendo la carenza di pericolosità
attuale dell’imputato scaturente da possibili collegamenti con la
criminalità organizzata; che il tribunale di Reggio Calabria, sezione
misure di prevenzione, il 20.10.2006 aveva disposto il
dissequestro dei beni del Vadalà Domenico; che il medesimo
tribunale, nell’ambito del procedimento denominato “Oerazione
Porto” mandava assolto l’imputato dal reato di estorsione per
insussistenza del fatto.
Risulta, inoltre, del tutto indimostrato l’accordo di non belligeranza
tra le cosche mafiose per il controllo del territorio e la spartizione
degli appalti, siglato presso il carcere di Napoli Secondigliano tra il
Vadalà ed il Talia Giovanni, in nome delle rispettive cosche.
A tale ultimo proposito evidenzia il ricorrente come le
conversazioni intercettate tra Vadalà Carmelo, classe ’80, Della
Villa Leonardo, Mauro Domenico, Vadalà Salvatore, altro figlio di
Vadalà Domenico, e Cilione Angelo, dalle quali secondo la corte
territoriale si desume l’esistenza di un accordo tra i Vadalà ed i
Talia, sono tutte precedenti di circa sei mesi all’incontro avvenuto
in carcere presso la sala colloqui tra il Vadalà Domenico ed il Talia
Giovanni ed i rispettivi familiari, che, secondo l’impostazione
accusatoria, avrebbe sancito il patto tra i due gruppi, nel corso del

60

1989, con sottoposizione al regime di cui all’art. 41 bis, c.p., sino

quale, invece, come attestato dall’avvenuta videoregistrazione, i
due nuclei familiari si limitarono a scambiarsi saluti affettuosi,
senza affrontare alcuna questione relativa al controllo criminale
dei territorio, per cui appare evidente che nelle menzionate
conversazioni telefoniche si fa riferimento ad episodi

affermare, come fatto dalla corte territoriale, che l’incontro tra il
Vadalà Domenica ed il Talia Giovanni si fosse verificato all’interno
del carcere in un altro momento o con altre modalità, tenuto
conto del fatto che entrambi erano sottoposti al regime di cui
all’art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario.
Il Vadalà Domenica eccepisce ancora l’inadeguatezza del
contenuto delle conversazioni intercettate innanzi menzionate ad
integrare il quadro accusatorio a suo carico, in quanto non
supportate da idonei riscontri, nel caso in esame necessari,
sottolineando, anche con richiami giurisprudenziali, come non
possano avere alcuna valenza indiziarla le informazioni fornite dai
familiari ad un congiunto detenuto sottoposto, come il suddetto
Vadalà, al regime di cui all’art. 41 bis dell’ordinamento
penitenziario, sull’andamento dei lavori eseguiti da un’impresa, in
mancanza della prova che quest’ultimo abbia impartito direttive
all’esterno incidenti sulla vita del sodalizio, in quanto appare in
contrasto con i principi costituzionali sulla responsabilità penale
ritenere che un soggetto, per il semplice fatto di essere stato a
suo tempo il fondatore del sodalizio criminoso di stampo mafioso,
benché detenuto e sottoposto al menzionato regime carcerario,
possa essere ritenuto ancora il capo della compagine associativa
solo perché messo al corrente dei familiari che si recano a visitarlo
degli eventi esterni.

61

completamente diversi e che appare una mera congettura

Rileva inoltre il ricorrente che nessun accertamento è stato
effettuato per verificare se la famiglia Vadalà si fosse resa
aggiudicataria di appalti pubblici, emergendo, anzi dagli atti,
elementi di segno opposto, in quanto dei tre appalti vinti da ditte
ritenute espressione della consorteria criminosa, uno, riguardante
la ristorazione, è stato aggiudicato da Della Villa Leonardo, che,
un escavatore e di un camion impiegati dalla ditta di Vadalà
Carmelo per la costruzione della scuola Euclide ha un valore
modestissimo (circa 10/15.000,00 euro) rispetto all’entità
milionaria dei lavori appaltati; l’appalto, infine, del valore di
50.000,00 euro appaltato dalla “MABE” non può assumere rilievo,
in quanto appare frutto di una mera congettura affermare che tale
ditta sia riconducibile al clan Vadalà per il solo fatto che in passato
il Vadalà Domenico era stato socio di Mauro Benito, padre
dell’odierno titolare della “MABE”.
Con riferimento, poi, alla posizione di Vadalà Carmelo, classe 80,
osserva il difensore che la corte territoriale non ha fornito risposta
alle specifiche censure prospettate nei motivi di appello, in cui si
faceva rilevare come nella fondamentale conversazione tra Mauro
Mario Domenico e Nucera Giuseppe intercettata in ambientale in
cui il primo descrive l’organigramma della “base”, non si fa
menzione del Vadalà Carmelo, classe ’80, ed inoltre il contenuto di
tale conversazione non è dotato di riscontri esterni; ancora,
osserva il ricorrente che nelle conversazioni oggetto di captazione
utilizzate a suo carico, non solo non si fa mai riferimento ad un
suo coinvolgimento nella “base”, ma più in generale, si evince la
mancanza di una reale forza intimidatrice della famiglia Vadalà e
del Vadalà Carmelo, classe ’80 in particolare, ad imporre il proprio

62

tuttavia, è stato assolto; quello avente ad oggetto il noleggio di

volere sul territorio di Bova Marina e zone limitrofe, come
dimostrato inequivocabilmente dal modesto importo dei lavori che
il ricorrente si era aggiudicato.
Lamenta, infine, il difensore il mancato riconoscimento delle
circostanze attenuanti generiche, concedibili ad entrambi i
Carmelo, in considerazione dei buoni precedenti penali e della
giovane età.
L’ avv. Russo reitera le medesime osservazioni dell’avv. Managò
ed inoltre contesta l’uso del fatto notorio per descrivere
l’infiltrazione delle cosche nel sistema degli appalti, nonché
l’interpretazione operata dai giudici di merito della sentenza
relativa alla operazione “Olimpia”, in cui non si fa riferimento ai
contrasti tra le cosche Vadalà e Tana per la spartizione delle opere
pubbliche, ma solo per il controllo del territorio.
Evidenzia, inoltre, il difensore la mancanza e la contraddittorietà
della motivazione della sentenza della corte territoriale nella parte
in cui, senza descriverne le modalità di funzionamento e le
caratteristiche, afferma l’esistenza della “base” e la partecipazione
del Vadalà Domenico e del Vadalà Carmelo, classe 1 80 a tale
struttura, come pure la mancata dimostrazione dell’utilizzo da
parte del sodalizio del metodo intimidatorio e l’erronea
interpretazione da parte dei giudici di merito delle conversazioni
intercettate, che peraltro non presentano quei caratteri di
chiarezza, decifrabilità dei significati e assenza di ambiguità che
ne consentono l’utilizzabilità a fini decisori.
Ulteriori lacune motivazionali vengono, poi, individuate nella
omessa motivazione da parte dei giudici dell’appello sulla dedotta
sussistenza dell’ipotesi di cui all’art. 416 c.p., piuttosto che di

63

ricorrenti per il ruolo minimale da essi svolto e, per il solo Vadalà

quella di cui all’art. 416 bis, c.p.; nella mancanza di motivazione
sulla censura relativa alla insussistenza della circostanza
aggravante di cui all’art. 416 bis, co. 6, c.p.; nella omessa
motivazione in ordine alla mancata applicazione delle circostanze
attenuanti generiche di cui all’art. 62 bis, c.p., e nella mancata
irrogazione di una pena più mite, anche alla luce della circostanza

dell’entrata in vigore della modifica dell’art. 62 bis, co. 3, c.p.,
dovuta alla I. n. 125 del 24.7.2008; nella intervenuta condanna al
risarcimento del danno in favore delle costituite parti civili, non
avendo, al riguardo, la corte territoriale motivato in ordine alla
prova dell’esistenza di un danno concreto.
Infine il difensore eccepisce la violazione di legge in ordine alla
misura di sicurezza della libertà vigilata, imposta dalla corte di
appello senza nulla disporre in ordine al divieto di soggiorno
applicato in primo grado, che, dunque, va revocato, non
potendosi applicare, ai sensi dell’art. 417, c.p.p., in caso di
condanna ex art. 416 bis, c.p., più misure di sicurezza,
richiedendo, peraltro, la misura di cui all’art. 233, c.p., in quanto
facoltativa, una motivazione in ordine alla pericolosità sociale, nel
caso in esame del tutto assente.
Orbene non può non rilevarsi che la maggior parte dei motivi di
ricorso articolati nell’interesse di Vadalà Domenico e di Vadalà
Carmelo, classe ’80 appaiono inammissibili, risolvendosi essi nella
mera riproposizione di rilievi sollevati in sede di appello, già
disattesi dai giudici di merito, ed in una prospettazione di versioni
alternative dei fatti per cui si procede e di censure di fatto, anche
in relazione alla severità del trattamento sanzionatorio ed al
mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche4
_

64

che la contestazione si conclude il 9.6.2008, quindi prima

(profilo, quest’ultimo, per il quale si rimanda alle considerazioni
già svolte esaminando la posizione dell’Altomonte, rilevando che
anche il Vadalà Carmelo, classe ’80 ed il Vadalà Domenico
risultano gravati da precedenti penali), che, come si è detto, non
sono ammissibili in sede di legittimità.
Anche in questo caso, inoltre, per i motivi già esposti trattando la
infondata, la censura relativa alla necessità che siano munite di
riscontri le dichiarazioni auto ed eteroaccusatorie contenute nelle
conversazioni oggetto di captazione.
Infondata è anche la censura riguardante l’erronea applicazione
dei principi in tema di “fatto notorio”, di cui, invece, la corte
territoriale ha fatto buon governo, per le ragioni già esposte nella
parte della presente motivazione dedicata alle questioni di
carattere generale.
Uguale rimando alle considerazioni svolte nella parte introduttiva
della presente motivazione va operato poi con riferimento ai
principi in materia di partecipazione al reato associativo di cui
all’art. 416 bis, c.p., che, come si è visto, non richiedono
necessariamente l’esecuzione di alcun reato-fine, essendo
sufficiente la semplice messa a disposizione del singolo a favore
del sodalizio operante con le modalità e per i fini indicati nella
menzionata disposizione normativa, per cui, ed a prescindere per
un momento da ciò che è emerso in ordine alla posizione dei due
ricorrenti, occorre ribadire che, una volta accertata l’esistenza di
un sodalizio siffatto ed il contributo ad esso assicurato dal singolo
in termini di messa a disposizione della propria persona alla
compagine associativa, ininfluente sarebbe, ai fini dell’esistenza
del reato, la (eventuale) mancata dimostrazione della concreta

65

posizione dell’Altomonte, cui si rinvia, va disattesa, perché

aggiudicazione di uno o più lotti di lavoro in appalto o in
subappalto da parte delle imprese controllate dal sodalizio mafioso
nelle sue varie articolazioni.
Ciò posto, come si è già avuto modo di osservare, la corte
territoriale, con motivazione approfondita ed immune da vizi, ha
puntualmente ricostruito, nella parte della sentenza impugnata
oggetto delle indagini che hanno dato vita al presente
procedimento (cfr. pp. 19-70 dell’impugnata sentenza).
Attraverso l’esame compiuto in questa sede delle posizioni dei
singoli ricorrenti, inoltre, come si è visto e come si vedrà, in
particolare, a proposito di Morello Leone, Altomonte Sebastiano,
Cilione Pietro, Cilione Francesco, Vadalà Antonino, Vadalà
Carmelo, classe ’82, Modaffari Leone, Catroppa Dante, Talia
Giovanni, Morabito Bruno, Morabito Domenico, Stilo Costantino e
Carrozza Vincenzo, alla cui lettura si rimanda, sono emerse con
assoluta chiarezza le seguenti circostanze di fatto: l’esistenza
della cosca Vadalà, operante con le modalità e per gli obiettivi
previsti dall’art. 416 bis, c.p., che vede tra i suoi componenti, tra
gli altri, Morello Leone, Altomonte Sebastiano, Mauro Mario
Domenico, Cilione Pietro, Vadalà Antonino, Vadalà Carmelo, classe
’82, Modaffari Leone e Catroppa Dante, alleata con la cosca
mafiosa un tempo rivale dei Talia; l’operatività della struttura
segreta denominata “base”, sorta con il compito di coordinare
l’attività degli associati e di assicurare l’equilibrio tra le due cosche
un tempo rivali; l’intervenuto accordo in ordine alla spartizione dei
lavori oggetto degli appalti pubblici in precedenza indicati tra i
“locali” della “ndrangheta” di Africo (Morabito), Palizzi (Malsano),
Bova (Vadalà-Talia), oggetto di diverse conversazioni intercettate

66

dedicata al reato associativo, le vicende delle cosche mafiose

proprio tra Vadalà Carmelo, classe ’80, Mauro Mario Domenico,
Vadalà Antonino, Nucera Giuseppe e D’Aguì Terenzio, tra le quali
quella intercorsa tra il Vadalà Carmelo, classe ’80, ed il D’Aguì
Terenzio il 15.9.2006 a proposito di alcuni lavori alle spalle del
complesso scolastico “Euclide”, della cui esecuzione si era
impadronito un soggetto estraneo all’accordo criminoso, tal
Antonino, Mauro Domenico e Morello Leone, spingendo
quest’ultimo ad intervenire per vietare al Palamara, attraverso
l’esercizio della forza intimidatrice nascente dal vincolo
associativo, di assumere nuovi impegni lavorativi nel territorio,
come si è visto trattando proprio la posizione del Morello) appare
particolarmente sintomatica del patto stretto tra le diverse cosche
mafiose, in quanto in essa il Vadalà Carmelo, classe ’80,
direttamente impegnato, si badi, con la sua impresa nella
esecuzione in regime di subappalto dei lavori oggetto degli appalti
più volte menzionati, affronta il tema della “intrusione”
dell’imprenditore estraneo al cartello con il D’Aguì Terenzio, vale a
dire con un altro imprenditore del settore presente nei subappalti,
che, come si è visto esaminando la posizione di Vadalà Antonino,
era entrato nell’orbita criminale della cosca Morabito proprio per
tentare di acquisire un maggior peso nella spartizione dei lavori
(cfr. pp. 43-62 dell’impugnata sentenza).
In questo contesto la posizione del Vadalà Carmelo, classe ’80,
figlio di Vadalà Domenico, correttamente è stata definita in
aderenza al dato normativo, in termini di partecipazione in qualità
di organizzatore all’associazione a delinquere di stampo mafioso di
cui si discute.

67

Palamara Annunziato (vicenda che aveva allarmato anche Vadalà

Egli, infatti, non solo ha una perfetta conoscenza delle dinamiche
e delle vicende associative, mantenendosi in stretto contatto
telefonico con gli altri associati, che frequenta con assoluta
continuità, ma partecipa direttamente anche alla gestione
dell’accordo intercorso tra le diverse cosche per la spartizione dei
lavori (prefigurando nel corso di una conversazione intercettata il

scuole di nuovo, ci sistemiamo, là sono 50.000″ – cfr. p. 123 della
sentenza impugnata), di cui beneficia direttamente attraverso la
sua ditta di scavo e di movimentazione terra, impegnata, in
regime di subappalto, nella realizzazione dei lavori relativi al
plesso scolastico Euclide, prendendo parte, inoltre,
sistematicamente alle importanti riunioni tra gli esponenti delle
cosche mafiose del 25.11.2006 presso l’abitazione dei D’Aguì, del
2.12.2006 e del 4.11.2007, queste ultime presso il casolare di
Morabito Bruno, ubicato nei pressi di Africo, che dimostrano la
piena operatività dell’accordo; la sua posizione di rilievo
nell’associazione viene riconosciuta, come si è visto trattando la
relativa posizione, anche dal cugino Vadalà Carmelo, classe ’82,
che appare un suo competitore nell’assunzione della guida della
cosca Vadalà, all’interno della quale il ricorrente aspira ad
assumere un ruolo di sempre maggiore prestigio, entrando in
contrasto, per tale ragione, con lo zio Vadalà Antonino, reggente
del sodalizio in assenza del fratello Vadalà Domenico, in quel
periodo detenuto, come emerso esaminando il ricorso presentato
nell’interesse del suddetto Vadalà Antonino; riferisce
puntualmente al padre, nel corso dei colloqui nel carcere dove
quest’ultimo si trova ristretto, l’andamento dei lavori, ricevendo
da quest’ultimo precise direttive al riguardo e, più in generale, per

68

29.5.2006 lauti guadagni – “guarda se comincia il lavoro delle

la gestione del sodalizio criminoso; come si vedrà a proposito dei
ricorsi presentati da Cilione Francesco e Tuscano Carmelo, inoltre,
il ricorrente aveva prestato il proprio consenso all’affiliazione di
due nuovi consociati, indicati nelle conversazioni intercettate con i
nomi di “Melo e Mario”, e, conversando con il Mauro, aveva
delineato un possibile elenco delle giovani leve del sodalizio cui

eseguire estorsioni presso i pubblici esercizi, inserendovi il Cilione
Francesco.
Il ruolo del Vadalà Carmelo, classe ’80, come innanzi delineato,
viene, peraltro, confermato dal contenuto di ulteriori
conversazioni oggetto di captazione puntualmente analizzate dalla
corte territoriale in sede di esame della posizione del ricorrente,
rispetto alle quali appare solo opportuno rileva come da alcune di
esse, ed, in particolare, da quelle intercettate il 13.4.2006 ed il
20.10.2006, si ricava l’assoluta adesione dell’imputato ai metodi
della sopraffazione, tipici della intimidazione mafiosa, in quanto
egli, in un caso consiglia il Mauro, al fine di ottenere il pagamento
di un credito vantato da quest’ultimo nei confronti di un terzo, di
sparare contro il suo debitore o di sequestrarlo, nell’altro ipotizza
sempre con il Mauro di incendiare, per ritorsione, l’autovettura dei
responsabili di una ditta di Crotone che si era aggiudicata lavori di
sbancamento e movimento terra per la strada statale n. 106,
evidentemente al di fuori dell’accordo stipulato tra le cosche
mafiose(cfr. pp. 114-126 dell’impugnata sentenza).
Infine non può non rilevarsi un ultimo elemento che, unitamente a
quelli presi in considerazione nelle pagine precedenti, conferma
l’appartenenza del ricorrente alla cosca Vadalà nei termini illustrati
esaminando la posizione di Morabito Domenico, cui si rimanda,

69

affidare l’incarico, in ragione della loro capacità criminale, di

vale a dire il rapporto di parentela che lo lega al padre Vadalà
Domenico, allo zio Vadalà Antonino ed al cugino Vadalà Carmelo,
classe ’82, tutti elementi di vertice della compagine mafiosa.
In ordine poi al dedotto mancato inserimento del Vadalà Carmelo,
classe ’80, nella “base” si osserva che, da un lato esso appare
contraddetto dal contenuto della conversazione n. 583,
Mauro Domenico di essere entrato a far parte dell suddetto
organismo di coordinamento subito prima del suddetto Vadalà,
dall’altro appare, comunque, del tutto inidoneo ad escludere la
partecipazione del ricorrente alla cosca Vadalà, in quanto, come
già detto a proposito del cugino, l’organizzazione prescelta dai
“locali” della “ndrangheta” oggetto del presente procedimento, si
fonda su di una struttura elastica, in cui l’attività di coordinamento
e controllo svolta, con poteri decisionali, dai componenti della
“base” si concilia con la relativa autonomia degli altri membri del
sodalizio.
Appare, dunque, evidente, alla luce dei principi di diritto in
precedenza affermati, che il Vadalà Carmelo, classe ’80, deve
considerarsi uno dei partecipi dell’associazione di stampo mafioso
di cui si discute, in quanto egli ha messo la sua persona
consapevolmente a completa disposizione del sodalizio criminoso,
collocandosi in posizione di assoluto rilievo all’interno della cosca
Vadalà, aggiudicandosi con la sua impresa, in regime di
subappalto, grazie alla forza di intimidazione derivante dal
sodalizio di appartenenza, una parte dei lavori oggetto degli
appalti pubblici di cui si è più volto discusso.
Proprio in considerazione di tale posizione del tutto correttamente
i giudici di merito hanno ritenuto di potere configurare a suo

70

intercettata il 24.6.2006, in cui Modaffari Leone comunica al

carico il ruolo di organizzatore del sodalizio in parola, posto che
egli ha agito allo scopa di sovraintenderne l’attività complessiva,
assumendo funzioni decisionali.
Quanto alla posizione del Vadalà Domenica, anche in questo caso
la motivazione della corte territoriale appare esaustiva ed immune
da vizi, nel definirlo il “capo” della cosca Vadalà, benché egli fosse
seguito di condanne passate in giudicato per i reati, tra gli altri, di
omicidio e di associazione a delinquere di stampo mafioso.
Ed invero, come evidenziano i giudici di primo e di secondo grado,
dal contenuto delle conversazioni tra il ricorrente ed i suoi
familiari, oggetto di captazione ambientale all’interno dell’istituto
di pena dove quest’ultimo era recluso, si evince che, a differenza
del Morabito Giuseppe, alla cui posizione i difensori vorrebbero
indebitamente assimilare quella del ricorrente, il Vadalà Domenica
non si limitava a ricevere informazioni su quanto accadeva
all’esterno del carcere, ma, da un lato riceveva dal figlio Vadalà
Carmelo, classe ’80, una sorta di rendiconto sull’andamento dei
lavori, dall’altro impartiva precise istruzioni ai suoi figli, Vadalà
Carmelo, classe ’80, e Vadalà Salvatore su come comportarsi
nella gestione dei lavori e delle vicende del sodalizio,
manifestando la sua preoccupazione per la possibilità che gli
organi inquirenti avessero attivato servizi di intercettazione
telefonica.
In questo contesto l’ulteriore circostanza che, sempre dalle
conversazioni intercettate, emerge come il fratello Vadalà
Antonino, parlando con Vadalà Carmela e Battaglia Giacomo
durante il viaggio che li conduceva presso la casa circondariale di
Avellino, dove erano reclusi i figli della suddetta Vadalà Carmela,

71

detenuto in carcere, in esecuzione di due ergastoli comminatigli a

Battaglia Carmelo e Francesco, nel ricostruire le dinamiche della
cosca in quel particolare momento storico, contrassegnate
dall’ambizione del nipote Vadalà Carmelo, classe ’80, di assumere
un ruolo di sempre maggior potere, sentendosi l’erede
predestinato del padre, affermasse che “l’ultima parola su ogni
questione spettasse al fratello Domenica”, rende evidente la
mafiosa, che, nonostante lo stato detentivo cui era sottoposto,
continuava a dirigere in posizione apicale.
Ciò dimostra, conformemente a quanto affermato da tempo nella
giurisprudenza di legittimità, la permanenza del vincolo sociale ed
il proseguimento dell’attività del gruppo, la cui capacità operativa
non è venuta meno nonostante l’arresto del capo, essendo rimasti
in libertà altri componenti, capaci ed efficienti, la cui azione si è
dispiegata in conformità delle direttive impartite dal Vadalà
Domenica (cfr. Cass., sez. I, 20/01/1988, Muto, rv. 177871).
Un importante caso in cui le determinazioni del Vadalà si sono
manifestate in tutta la loro portata strategica per la vita
dell’associazione è rappresentato dalla decisione di stringere
un’alleanza con la cosca un tempo rivale dei Talia, finalizzata ad
accrescere il controllo delle attività illecite sul territorio e, quindi, a
potenziare la forza intimidatrice delle due cosche mafiose.
L’esistenza di un accordo siffatto emerge inequivocabilmente dalle
conversazioni oggetto di captazione su cui si sofferma, con ampia
motivazione, la corte territoriale, che hanno per protagonista, tra
gli altri, il Vadalà Carmelo, classe ’80, soggetto, come si è detto,
inserito a pieno titolo nel sodalizio mafioso di cui si discute, il
quale con i suoi interlocutori (Mauro Domenica e Della Villa
Leonardo) rivela come, nel corso dei colloqui avvenuti all’interno

72

perdurante ingerenza del Vadalà Domenica nella vita della cosca

del carcere dove erano detenuti, il Vadalà Domenico ed il Talia
Giovanni avessero avuto modo di incontrarsi, delineando strategie
proprio per la gestione dei lavori in argomento, circostanza che
aveva allarmato non poco i fratelli Dieni Pasquale e Dieni Carmelo,
che si erano tranquillizzati solo quando al Vadalà ed al Talia non
era stato più consentito partecipare “uniti”, cioè insieme, ai

Il che dimostra, come evidenziato dalla corte territoriale in
maniera logicamente coerente, che essendo stato revocato al
ricorrente nel giugno del 2006 il regime restrittivo di cui all’art. 41
bis, dell’ordinamento penitenziario, il Vadalà Domenico era riuscito
ad entrare in contatto con il Talia Giovanni, concludendo l’accordo
per la spartizione dei lavori di cui si è ampiamente discusso, non
assumendo rilievo, in senso contrario, la circostanza che nel corso
del colloquio registrato 1’8.2.2007, al quale i due imputati avevano
partecipato insieme, l’argomento non venisse affatto trattato,
potendo trovare tale omissione adeguata spiegazione
nell’improvviso timore di essere sottoposti ad intercettazione da
parte degli organi inquirenti.
Ancora la corte territoriale sottolinea come sui rapporti tra il
Vadalà Domenico ed il Talia Giovanni si soffermi anche Vadalà
Salvatore, il quale, parlando con Cilione Angelo, figlio di Cilione
Pietro (entrambi componenti della cosca mafiosa), nel corso della
conversazione intercettata il 16.10.2006, rivela come Talia
Giovanni non nutrisse alcuna fiducia nei confronti del fratello
Domenico, il quale non riusciva nemmeno a comprendere gli
ordini che quest’ultimo gli faceva pervenire dal carcere, motivo
per il quale il Vadalà Domenico lo aveva esortato ad eliminarlo.

73

colloqui con i familiari.

Orbene, come si vede, a dimostrazione dello stretto legame che lo
univa al Vadalà Domenica, in quanto entrambi al vertice di sodalizi
ormai alleati, il Talia non esitava ad affrontare il delicato tema
dell’affidabilità del fratello con il capo della cosca un tempo
avversaria, il quale, senza timore di esporsi alla reazione del suo
interlocutore, in tutta evidenza proprio grazie alla intensità del
Domenica (cfr. pp. 180-188 dell’impugnata sentenza)
Per quanto riguarda, poi, la rilevanza dei rapporti di parentela del
ricorrente con Vadalà Antonino, Vadalà Carmelo, classe ’80 e
Vadalà Carmelo, classe ’82 e l’irrilevanza, per converso, della
mancata dimostrazione del suo inserimento nell’organico della
“base”, si rimanda alle considerazioni già svolte per la posizione
del Vadalà Carmelo, classe ’80, nonché a quelle che si
svolgeranno esaminando il ricorso dei Talia Giovanni..
Appare, dunque, evidente, alla luce dei principi di diritto in
precedenza affermati, che il Vadalà Domenica deve considerarsi
uno dei partecipi dell’associazione di stampo mafioso di cui si
discute, in quanto egli ha messo la sua persona consapevolmente
a completa disposizione del sodalizio criminoso, collocandosi in
posizione di vertice all’interno della cosca Vadalà, nonostante il
suo stato detentivo.
Proprio in considerazione di tale posizione del tutto correttamente
i giudici di merito hanno ritenuto di potere configurare a suo
carico il ruolo di promotore, dirigente ed organizzatore posto che
egli ha agito sia per rafforzare la potenzialità pericolosa del
gruppo associativo, assicurandone il predominio sul territorio di
rispettiva “competenza” ed accrescendone la capacità operativa

74

rapporto ormai consolidato, gli proponeva di uccidere Talia

attraverso l’accordo con i Talia, sia per sovraintenderne l’attività
complessiva, assumendo funzioni decisionali.
Quanto alla sussistenza della circostanza aggravante di cui all’art.
416 bis, co. 6, c.p., su cui la corte territoriale si è soffermata con
motivazione concisa, ma sufficiente (cfr. p. 69), va osservato che
il relativo motivo di ricorso non appare fondato.

della sussistenza della circostanza aggravante di cui al comma 6
dell’art. 416 bis c.p., che si configura ove le attività economiche di
cui gli associati intendano assumere o mantenere il controllo siano
finanziate in tutto o in parte con il prezzo, il prodotto o il profitto
di delitti, non può non rilevarsi come appartenga ormai da anni al
patrimonio conoscitivo comune che le organizzazioni a delinquere
di stampo mafioso storicamente presenti da tempo in ampie e non
circoscritte parti del territorio nazionale, con ramificazioni anche
all’estero, come “cosa nostra” e la “ndrangheta”, operano nel
campo economico utilizzando ed investendo i profitti di delitti che
tipicamente pongono in essere in esecuzione del loro programma
criminoso.
Ne consegue che tale circostanza ha natura oggettiva e va riferita
all’attività dell’associazione e non necessariamente alla condotta
del singolo partecipe, il quale ne risponde per il solo fatto della
partecipazione, dato che un’ignoranza al riguardo in capo ad un
soggetto che sia a tale organizzazione affiliato è inconcepibile (cfr.
Cass., sez. II, 28/01/2000, n. 5343; Cass., sez. II, 31/01/2006,
n. 6259, M.), in particolar modo quando si tratta di soggetti come
il Vadalà Domenico ed il Vadalà Carmelo, classe ’80, posti ai
vertici della cosca mafiosa di appartenenza.

75

Questo Collegio condivide, infatti, il principio secondo cui ai fini

Va, peraltro, considerato che, stante la letterale formulazione
normativa di cui all’art. 416 bis, c.p., è sufficiente, per
l’integrazione della menzionata circostanza aggravante, che il
prezzo, il prodotto o il profitto derivanti dai delitti posti in essere
in esecuzione del programma criminoso dell’associazione a
attività economiche di cui gli associati intendono assumere o
mantenere il controllo, non essendo, dunque, necessario che tale
controllo sia effettivamente assunto o mantenuto, ma solo che il
finanziamento alimentato dalle fonti di provenienza illecita sia
idoneo a conseguire tale risultato, in linea con il modello legale
della fattispecie tipica, in cui assume valore decisivo, ai sensi del
comma terzo dell’art. 416 bis, c.p., la natura degli scopi avuti di
mira dagli associati.
Orbene nel caso in esame l’associazione si è strutturata proprio
secondo un modello organizzativo che nelle sue dinamiche
comprende inevitabilmente il percorso indicato nella suddetta
circostanza aggravante, posto che le attività economiche foriere di
profitti per le singole imprese espressione del cartello mafioso,
lungi dall’essere state assunte conformemente alla regole che
disciplinano il confronto tra soggetti operanti nel mercato in
posizioni di eguaglianza secondo i principi della libera
concorrenza, hanno formato oggetto di un vero e proprio
accaparramento, reso possibile dalla forza intimidatrice
promanante dal vincolo associativo, che ha consentito un impiego
remunerativo dei capitali provenienti dalle pregresse e
concomitanti attività illecite delle cosche mafiose, dando vita ad
un circuito economico-criminale in grado di autoalimentarsi senza
soluzione di continuità.

76

delinquere di stampo mafioso siano destinati a finanziare le

Infondato è anche il motivo di ricorso sulla mancanza di
motivazione in ordine alla sussistenza di un danno risarcibile in
capo alle parti civili costituite, in quanto, come è noto, il giudice
penale, nel pronunciare condanna generica al risarcimento dei
danni, come fatto dal giudice per le indagini preliminari in questo
caso, non è tenuto a dovere espletare alcuna indagine in ordine

decisione soltanto l’accertamento della potenziale capacità lesiva
del fatto dannoso e della esistenza – desumibile anche
presuntivamente, con criterio di semplice probabilità – di un nesso
di causalità tra questo e il pregiudizio lamentato, restando infatti
impregiudicato l’accertamento riservato al giudice della
liquidazione dell’esistenza e dell’entità del danno, senza che ciò
comporti alcuna violazione del giudizio formatosi sull'”an” (cfr., ex
plurimis, Cass., sez. IV, 03/04/2012, n. 20231, P.).

Infine va disatteso anche il motivo di ricorso riguardante la
mancata valutazione della pericolosità sociale al fine della
applicazione della misura di sicurezza della libertà vigilata,
disposta dalla corte territoriale nei confronti di tutti : la
disposizione di cui all’art. 417, c.p., infatti, afferma il principio che,
in caso di condanna per uno dei delitti previsti dagli artt. 416 e
416 bis, c.p., il giudice debba sempre applicare una misura di
sicurezza, senza che sia necessario l’accertamento in concreto
della pericolosità del soggetto, dovendosi ritenere operante al
riguardo una presunzione semplice desunta dalle caratteristiche
del sodalizio criminoso e dalla persistenza nel tempo del vincolo
malavitoso, la quale può essere superata quando siano acquisiti
elementi idonei ad escludere in concreto la sussistenza della
pericolosità (cfr., Cass., sez. I, 12/01/2011, n. 7196, I., rv.

77

alla concreta esistenza di un danno risarcibile, postulando la

249224; Cass., sez. I, 29/10/2007, n. 6847, A. e altro,

rv.

238651), che, nel caso in esame, non vengono prospettati dal
ricorrente, la cui doglianza, sul punto, è pertanto inammissibile
per genericità.
Peraltro la corte territoriale, sul punto, ha adeguatamente
motivato evidenziando proprio come l’elevatissimo coefficiente di

pericolosità sociale degli imputati giustifichi la misura di sicurezza
della libertà vigilata per un periodo minimo di tre anni, senza nulla
disporre in ordine alla misura di sicurezza del divieto di soggiorno
nella provincia di Reggio Calabria pure applicata, unitamente alla
libertà vigilata, dal giudice per le indagini preliminari, divieto di
soggiorno che, pertanto, deve ritenersi implicitamente revocato
dai giudici di secondo grado, in quanto, alla luce del combinato
disposto degli artt. 417, e 215, co. 2, c.p., coloro che sono stati
condannati per uno dei delitti di cui agli artt. 416 o 416 bis, c.p.,
non possono essere sottoposti contemporaneamente a più misure
di sicurezza della stessa specie o di specie diversa.
Eventuali questioni al riguardo, peraltro, potranno sempre essere
proposte e risolte innanzi al magistrato di sorveglianza ai sensi
dell’art. 679, c.p.p., conformemente ai principi di diritto innanzi
affermati.

MODAFFARI LEONE lamenta la violazione di cui all’art. 606, co. 1,
lett. b) ed e) in relazione agli artt. 192 co. 2 e 416 bis, co. 3, c.p.,
in quanto la partecipazione del Modaffari al sodalizio in questione
con il ruolo di promotore sarebbe stata ricavata dalla semplice
attribuzione della qualità di uomo d’onore, senza alcuna
dimostrazione di un suo contributo effettivo, dotato di rilevanza
causale, alle attività del sodalizio.

78

.,„

Al riguardo, evidenzia il ricorrente come il contenuto della
conversazione oggetto di captazione in cui interloquisce con
l’Altomonte Sebastiano risulta assolutamente inidoneo a
configurare un suo ruolo all’interno dell’associazione mafiosa, alle
cui attività egli risulta del tutto estraneo, come dimostrato dalla

conversazioni lo dileggiano e lo ridicolizzano.
Contesta, inoltre, il Modaffari la sussistenza della circostanza
aggravante di cui all’art. 416 co. 6, c.p., mentre la ritenuta
esclusione della circostanza aggravante di cui all’art. 416 bis, co.
4, c.p., dimostra la contraddittorietà e la manifesta illogicità della
motivazione nella parte in cui ritiene sussistente la compagine
associativa, in quanto appare evidente come un’associazione di
stampo mafioso non possa operare senza l’impiego di armi.
Ulteriore difetto motivazionale viene poi individuato dal Modaffari
nel mancato riconoscimento in suo favore della particolare
circostanza attenuante di cui all’art. 114, co. 1, c.p. e nella
mancata irrogazione della pena nel minimo edittale.
Orbene i motivi di ricorso volti ad escludere la partecipazione del
Modaffari al sodalizio mafioso di cui si discute, devono
considerarsi inammissibili, risolvendosi essi nella mera
riproposizione di rilievi sollevati in sede di appello, già disattesi dai
giudici di merito, ed in una prospettazione di versioni alternative
dei fatti per cui si procede e di censure di fatto, anche in relazione
al trattamento sanzionatorio, che, come si è detto, non sono
ammissibili in sede di legittimità.
Peraltro sulla rilevanza della qualifica di “uomo d’onore”, come
sintomo dell’appartenenza di chi ha assunto tale investitura ad
un’associazione a delinquere di stampo mafioso, si rimanda alle
(0.,..”

79

circostanza che i componenti del sodalizio spesso nelle loro

considerazioni già svolte trattando la posizione del coimputato
Altomonte.
Allo stesso modo, sulle ragioni che hanno indotto questo Collegio
ad affermare la sussistenza della circostanza aggravante di cui
all’art. 416 bis, co. 6, c.p., si rimanda alle osservazioni articolate
esaminando i ricorsi di Vadalà Carmelo, classe ’80, e di Vadalà
La corte territoriale, del resto, dedica al ricorrente un’approfondita
motivazione, immune da vizi logici, in cui evidenzia come, sulla
base del contenuto di una serie di conversazioni oggetto di
captazione tra il suddetto Modaffari, Mauro Domenico, Altomonte
Sebastiano, Nucera Pasquale, il ricorrente ricostruisce con i suoi
interlocutori le tappe più significative della sua “carriera” criminale
di appartenente alla “ndrangheta”, nel corso della quale aveva
ricoperto le cariche di “capo giovani”, di “crimine” e di
componente della “base”, che lo aveva condotto ad occupare
posizioni di sempre maggiore responsabilità lungo la scala
gerarchica,
operando un raffronto tra il passato ed il presente
dell’organizzazione mafiosa, a dimostrazione di una sua
ininterrotta affiliazione.
Che non si tratti di una forma di semplice millanteria criminale,
come preteso dalla difesa, appare peraltro evidente, come
sottolineato dalla corte territoriale, dalla circostanza che il ruolo
del Modaffari viene riconosciuto dagli altri sodali e dalla sua
approfondita conoscenza delle dinamiche associative, che poteva
essere posseduta solo da un membro del sodalizio.
Nella conversazione n. 890 intercettata il 15.7.2006, infatti, il
Mauro lo inserisce tra i componenti della “base”, unitamente a

80

Domenico.

Morello Leone, Cilione Pietro e Catroppa Dante; il ricorrente
partecipa alla conversazione con Altomonte Sebastiano e Morello
Leone in cui si discute delle cariche da distribuire all’interno del
sodalizio e presta il proprio consenso ad affidare provvisoriamente
a Nucera Pasquale il ruolo di “capo giovani”, dimostrando di
essere a conoscenza del fatto che la carica era stata rifiutata dal

il Modaffari, infine, si lamenta con l’Altomonte, nel corso della
conversazione intercettata il 27.11.2007, del fatto che si era
proceduto alla nomina del nuovo “capo giovani” nella persona di
Cilione Pietro, prima ancora che fossero celebrati i funerali del
figlio Salvatore, precedente titolare della carica (cfr. pp. 133-140
dell’impugnata sentenza).
Appare, dunque, evidente, come già detto a proposito di altri
ricorrenti, come Altomonte Sebastiano e Morello Leone, che il
Modaffari Leone deve considerarsi uno dei partecipi
dell’associazione di stampo mafioso di cui si discute, secondo i
principi in precedenza evidenziati, in quanto egli ha messo
consapevolmente la sua persona a completa disposizione del
sodalizio criminoso, collocandosi al vertice del raggruppamento
formato dalle cosche Vadalà e Talia, in quanto membro di assoluto
prestigio all’interno della struttura decisionale denominata “base”
Proprio in considerazione di tale ruolo del tutto correttamente i
giudici di merito hanno ritenuto di potere configurare a suo carico
il ruolo di dirigente ed organizzatore del sodalizio in parola, posto
che egli ha agito sia per rafforzare la potenzialità pericolosa del
gruppo associativo, assicurandone il predominio sul territorio di
rispettiva “competenza” sia per sovraintenderne l’attività
complessiva, assumendo funzioni decisionali, con particolare

81

fratello Nucera Giuseppe, con cui aveva avuto contatti al riguardo;

riferimento alla distribuzione delle “cariche” e, quindi, dei compiti
ad esse relativi tra gli affiliati.

CATROPPA DANTE lamenta innanzitutto la violazione dell’art. 268
c.p.p., perché le conversazioni utilizzate contro di lui hanno
formato oggetto di intercettazioni disposte nei confronti di
iniziato un procedimento penale, né il Catroppa, in particolare, era
coinvolto in indagini relative a delitti di criminalità organizzata.
I relativi decreti sul punto, ad avviso del ricorrente, sono privi di
motivazione, così come difettano di motivazione in relazione alle
proroghe della durata delle operazioni di captazione disposte
dall’autorità giudiziaria procedente ed alla impossibilità di
effettuare le suddette operazioni attraverso gli impianti in
dotazione alla procura della repubblica presso il tribunale di
Reggio Calabria.
Lamenta, per altro verso, il Catroppa anche che le intercettazioni
si siano svolte senza procedersi alla nomina di un traduttore dal
dialetto calabrese.
La motivazione della sentenza impugnata, peraltro, ad avviso del
ricorrente è criticabile sotto diversi punti di vista in termini di
manifesta illogicità, contraddittorietà, mancanza ed erronea
applicazione della legge penale, innanzitutto per quel che riguarda
la mancanza di riscontri alle dichiarazioni eteroaccusatorie oggetto
di captazione, ex art. 192, c.p.p.
Nessun elemento, in particolare, consente di attribuire al Catroppa
il ruolo di componente della “base”, né quello di “mastro di
giornata”, addetto al controllo dei movimenti delle forze di polizia,

82

soggetti, ivi compreso il ricorrente, per i quali non era stato

potendosi tutt’al più affermare un semplice rapporto di amicizia
tra quest’ultimo e Mauro Domenico.
A conferma di ciò evidenzia il difensore del ricorrente come del
Catroppa non vi è traccia negli altri processi per delitti associativi,
caratterizzati da un numero notevole di collaboratori di giustizia,
che mai ne hanno fatto menzione nelle loro dichiarazioni; che

svolte, anche attraverso tecniche di pedinamento, non hanno
fornito alcun riscontro a quanto emerge dalle conversazioni
intercettate; che si è dimostrato come il Catroppa svolgesse
regolare attività lavorativa come impiegato comunale; che la corte
territoriale non ha ripreso il tema del doppio ruolo svolto dal
Catroppa in occasione delle gare di appalto del comune di Bova
Marina su cui si era soffermato il giudice per le indagini
preliminari, il quale, peraltro, pur avendo affermato
l’appartenenza del Catroppa al sodalizio, ne aveva anche
sottolineato la successiva desistenza, circostanza che veniva
svalutata dai giudici di secondo grado e che invece, secondo
l’impostazione difensiva, consente di configurare la sua condotta
in termini di tentativo, con conseguente applicazione del disposto
di cui all’art. 56, co. 3, c.p., in tema di desistenza, ovvero dell’art.
62, n. 6, c.p.
Eccepisce, infine, il ricorrente la mancanza di motivazione della
sentenza impugnata in ordine a tutte le circostanze aggravanti di
cui all’art. 416 bis, c.p., di cui è stata affermata la sussistenza; la
contraddittorietà della motivazione nella ritenuta esclusione della
circostanza aggravante dell’essere l’associazione armata e nella
contestuale affermazione dell’esistenza dell’associazione a
delinquere di stampo mafioso; la possibilità di configurare nei

83

l’imputato è privo di precedenti penali o di polizia; che le indagini

confronti del Catroppa, a tutto voler concedere, un condotta
penalmente rilevante in termini di favoreggiamento reale ed,
infine, la mancanza di una adeguata motivazione in ordine al
diniego delle circostanze attenuanti generiche.
Orbene inammissibili, perché generici, sono i motivi di ricorso
relativi alle intercettazioni disposte dall’autorità giudiziaria.
orientamento assolutamente dominante in sede di legittimità, in
tema di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni, qualora
venga eccepita in sede di legittimità l’inutilizzabilità dei risultati
delle intercettazioni, siccome asseritamente eseguite fuori dai casi
consentiti dalla legge o qualora non siano state osservate le
disposizioni previste dagli art. 267 e 268, commi 1 e 3, c.p.p. (art.
271, comma 1, c.p.p.), è onere della parte indicare
specificamente l’atto asseritamente affetto dal vizio denunciato e
curare che tale atto sia comunque effettivamente acquisito al
fascicolo trasmesso al giudice di legittimità, magari provvedendo a
produrlo in copia nel giudizio di cassazione.
In mancanza dell’adempimento di tale onere, come accaduto nel
caso in esame, il motivo deve ritenersi inammissibile per
genericità, non essendo consentito alla Cassazione di individuare
e rinvenire l’atto affetto dal vizio denunciato (cfr., ex plurimis,
Cass., sez. IV, 22/09/2010, n. 44839, A.).
Va, peraltro, rilevato che, pur prescindendo dalla mancata
dimostrazione da parte del ricorrente che le conversazioni rilevanti
ai fini della intervenuta condanna si siano svolte in un dialetto
locale tipico del territorio calabro in cui si sono svolte le indagini,
in ogni caso la mancata traduzione in lingua italiana sarebbe del
tutto irrilevante, posto che si tratterebbe, tutt’al più, di una mera

84

Al riguardo appare sufficiente ricordare che, secondo un

irregolarità, non sanzionate da alcuna nullità o inutilizzabilità delle
conversazioni intercettate (cfr. in questo senso Cass., sez. VI,
5.5.2009, n. 24469, Bono e altro, rv. 244383)
Infondati, per le ragioni già esposte trattando la posizione del
coimputato Altomonte, cui sul punto si rimanda, sono poi i motivi
riguardanti la necessità di riscontri esterni alle dichiarazioni auto

conversazioni intercettate.
Quanto ai motivi volti ad escludere la partecipazione del Catroppa
al sodalizio mafioso di cui si discute, essi devono considerarsi
inammissibili, risolvendosi nella mera riproposizione di rilievi
sollevati in sede di appello, già disattesi dai giudici di merito, ed in
una prospettazione di versioni alternative dei fatti per cui si
procede e di censure di fatto, anche in relazione al trattamento
sanzionatorio ed al mancato riconoscimento delle circostanze
attenuanti generiche (profilo, quest’ultimo, per il quale si rimanda
alle osservazioni già svolte esaminando la posizione
dell’Altomonte), che, come si è detto, non sono ammissibili in
sede di legittimità.
Sulle ragioni, inoltre, che hanno indotto questo Collegio ad
affermare la sussistenza della circostanza aggravante di cui all’art.
416 bis, co. 6, c.p., si richiamano le osservazioni articolate
esaminando i ricorsi di Vadalà Carmelo, classe ’80, e di Vadalà
Domenico.
Tanto premesso va rilevato che la corte territoriale dedica al
ricorrente un’approfondita motivazione, immune da vizi logici, in
cui evidenzia come, sulla base del contenuto di una serie di
conversazioni oggetto di captazione tra il suddetto Catroppa,
Mauro Domenico, Nucera Giuseppe, Cilione Pietro, Nucera

85

ed eteroaccusatorie che si ricavano dal contenuto delle

Pasquale, si evince come il ricorrente fosse organico al sodalizio
mafioso di cui si discute, al cui interno aveva ricoperto le cariche
di “mastro di giornata ” e di componente della “base”, che gli
attribuivano un potere di controllo del territorio, lo autorizzandolo,
al tempo stesso, a proporre nuove affiliazioni ed a “destituire”
dalle cariche di cui erano stati investiti i componenti del sodalizio

Domenico ipotizza possa accadere nei confronti del Nucera
Pasquale.
Peraltro quanto duraturo fosse il rapporto di immedesimazione
organica con la cosca Vadalà, si evince, come correttamente
evidenziato dalla corte territoriale, dalla conversazione n. 2524 del
13.11.2006, in cui Mauro Domenico, nel configurare con il Vadalà
Carmelo, classe ’80, la futura strategia del sodalizio, rammenta gli
attentati incendiari commessi in passato dallo stesso Mauro e da
altri componenti del gruppo criminale, tra cui collocava il suddetto
Catroppa (cfr. pp. 126-133 dell’impugnata sentenza).
Infine nella conversazione n. 890, intercettata il 15.7.2006,
sempre il Mauro inserisce il ricorrente tra i componenti della
“base”, unitamente a Morello Leone, Cilione Pietro e Modaffari
Leone.
Vero è che la stessa corte territoriale sottolinea come il Catroppa
in un periodo successivo all’ottobre del 2007 si sia allontanato
dalla compagine associativa; tale circostanza, tuttavia, essendo
successiva all’intervenuta affiliazione ed al contributo fornito per
un lungo periodo di tempo dal ricorrente all’operatività del
sodalizio di appartenenza, non consente di qualificare la sua
condotta in termini di tentativo ovvero di desistenza ex art. 56,
c.p., in quanto in questo caso l’allontanamento volontario

86

che non si erano dimostrati all’altezza del ruolo, come Mauro

dell’imputato dalla cosca ha avuto semplicemente l’effetto di far
cessare la permanenza di un reato già perfezionatosi con la sua
adesione ed attiva partecipazione alla consorteria mafiosa.
Appare, dunque, evidente, come già detto a proposito di altri
ricorrenti, come Altomonte Sebastiano, Morello Leone, Modaffari
Leone, che anche il Catroppa Dante deve considerarsi uno dei
secondo i principi in precedenza evidenziati nella parte in cui si è
trattata la posizione del coimputato Altomonte, in quanto egli ha
messo consapevolmente la sua persona a completa disposizione
del sodalizio criminoso, collocandosi al vertice del
raggruppamento formato dalle cosche Vadalà e Talia, in quanto
membro di assoluto prestigio all’interno della struttura decisionale
denominata “base”
Proprio in considerazione di tale ruolo del tutto correttamente i
giudici di merito hanno ritenuto di potere configurare a suo carico
il ruolo di organizzatore del sodalizio in parola, posto che egli ha
agito per sovraintenderne l’attività complessiva, assumendo
anche funzioni decisionali, con particolare riferimento alla
distribuzione delle “cariche” e, quindi, dei compiti ad esse relativi
tra gli affiliati.

CARROZZA VINCENZO lamenta innanzitutto “violazione e falsa
applicazione” degli artt. 192, co. 1 e 2, 546, co. 1, lett. e), 530 e
533, co. 1, c.p.p., in relazione all’art. 416 bis, c.p.”
Ad avviso del Carrozza, in particolare, le risultanze processuali
non consentono di fondare il quadro accusatorio nei suoi
confronti, in quanto dalle conversazioni intercettate, “in primis”
quelle captate tra il ricorrente ed il nonno Morabito Giuseppe

87

partecipi dell’associazione di stampo mafioso di cui si discute,

all’interno del carcere di Parma, non può ravvisarsi alcun
contributo fornito dal Carrozza al sodalizio di cui si discute.
Il Morabito, peraltro, a riprova dell’assunto difensivo, già in primo
grado veniva assolto dalla relativa imputazione, per cui può
affermarsi che il Carrozza ha operato semplicemente quale autista
dei mezzi adibiti al trasporto del calcestruzzo in qualità di

da qualsiasi dimensione criminosa, senza esercitare alcuna
pressione nei confronti dei geometri Carrozza e Labate dipendenti
della società vincitrice dell’appalto per la realizzazione della
variante esterna di Palizzi, pressioni che la stessa impostazione
accusatoria attribuisce al coimputato Stilo.
La motivazione della sentenza della corte territoriale sul punto è,
secondo il Carrozza, inadeguata, oltre ad apparire contraddittoria
nella parte in cui afferma che il compito del ricorrente era quello
di controllare i lavori sul cantiere per evitare che la ditta
appaltatrice si servisse dell’altro fornitore contrattuale di
calcestruzzo, rappresentato dalla società “D’Aguì Beton”, e,
dunque, di arrecare un oggettivo pregiudizio economico a tale
fornitore, il che contrasta con l’avere ritenuto stipulato tra le varie
cosche mafiose un patto per la gestione condivisa degli appalti
oggetto di spartizione; inoltre nelle conversazioni intercettate
presso il carcere di Parma, dove il ricorrente si reca per visitare il
nonno insieme ad altri familiari, egli si limita ad informare il
Morabito Giuseppe dell’andamento dell’attività lavorativa, senza
ricevere da quest’ultimo significativi commenti al riguardo; infine il
Carrozza contesta anche il ragionamento seguito dalla corte
territoriale nell’avere ritenuto sintomatico del suo inserimento nel
sodalizio l’esistenza di rapporti di frequentazione con altri affiliati e

88

dipendente della ditta I.M.C. dello zio Stilo Francesco, al di fuori

di legami di parentela con esponenti di spicco del sodalizio, di per
sé privi di tale valore.
Il ricorrente, infine, lamenta il vizio di cui all’art. 606, co. 1, lett.
b), c.p.p., in ordine alla motivazione con cui la corte territoriale ha
rigettato la richiesta di riconoscimento delle circostanze attenuanti
generiche, che non possono essere negate solo in relazione alla
ritenuta gravità del reato commesso.
Orbene anche in questo caso la maggior parte delle censure
prospettate dal ricorrente si collocano nell’alveo della
inammissibilità, risolvendosi esse nella mera riproposizione di
rilievi sollevati in sede di appello, già disattesi dai giudici di merito,
ed in una prospettazione di versioni alternative dei fatti per cui si
procede e di censure di fatto, anche in relazione al trattamento
sanzionatorio (per il quale si rimanda alle considerazioni già svolte
esaminando la posizione dell’Altomonte) che, come si è detto, non
sono ammissibili in sede di legittimità.
La corte territoriale, con motivazione esaustiva ed immune da
vizi, ha correttamente ritenuto il Carrozza componente
dell’associazione a delinquere di stampo camorristico di cui si
discute, in considerazione innanzitutto del ruolo affidatogli dallo
zio Stilo Francesco nel cantiere in cui venivano eseguiti i lavori
relativi alla realizzazione della variante della strada statale n. 106
all’abitato di Palizzi oggetto dell’appalto pubblico vinto dalla
“Società Condotte”.
Tale ruolo, come si evince principalmente dal contenuto delle
conversazioni tra lo stesso ricorrente e lo Stilo Francesco oggetto
di captazione, consisteva in un continuo controllo volto ad
assicurare che, in esecuzione degli accordi raggiunti in virtù della
forza intimidatrice derivante dal vincolo associativo, i responsabili

89

del cantiere per conto della società appaltatrice si rifornissero di
cemento prevalentemente presso la società “I.M.C. di Stilo & C.
s.n.c.”, di cui era amministratore Stilo Costantino, ma che di fatto
era amministrata da Stilo Francesco, padre di Stilo Costantino e
zio di Carrozza Vincenzo, ma, soprattutto, genero di Morabito
Giuseppe (“U tiradirittu”), capo storico della cosca Morabito, in
periodo oggetto di indagine.
Ciò posto, in considerazione della dimostrata spartizione dei lavori
per la variante della strada statale n. 106 dell’abitato di Palizzi tra
le cosche di Africo (Morabito), Palizzi (Maisano), Bova (VadalàTalia), che è emersa in tutta evidenza esaminando le posizioni, tra
gli altri, di Altomonte Sebastiano, Morabito Domenico, Morabito
Bruno, Morello Leone, Vadalà Antonino, Vadalà Carmelo, classe
’80, D’Aguì Terenzio Antonio, e dell’intervenuta sentenza di
condanna per il reato associativo dello Stilo Francesco (nei
confronti del quale si è proceduto con il rito ordinario),
correttamente la corte territoriale ha affermato la penale
responsabilità del ricorrente, in quanto egli, con la sua condotta
ha fornito un contributo di non poco momento alla realizzazione
dei fini della cosca di appartenenza (quella dei Morabito),
assicurando lo svolgimento della fase più propriamente esecutiva
dell’accordo mafioso, in base al quale alle imprese riconducibili
alla suddetta cosca (la “I.M.C.” e la “D’Aguì Beton” di D’Aguì
Terenzio Antonio) era stata assegnata la fornitura del cemento da
utilizzare nei lavori per la menzionata variante da parte
dell’appaltatrice “Società Condotte”.
Ed invero, come rilevato dalla corte territoriale, che il Carrozza
agisse nell’esclusivo interesse del sodalizio di appartenenza si

90

stato di detenzione presso la casa circondariale di Parma nel

evince, con assoluta certezza, non solo dal fatto che i compiti da
lui concretamente eseguiti agli ordini dello zio, esulavano
completamente dalle mansioni che avrebbe dovuto svolgere,
essendo egli stato assunto dalla I.M.C. formalmente con le
semplici mansioni di autista, ma anche dalla circostanza che, nel
riferire al Morabito Giuseppe la conclusione dell’accordo con la

colloqui avvenuti nel carcere di Parma, Stilo Francesco e la moglie
includevano il Carrozza tra i soggetti incaricati di presidiare il
cantiere, anche dopo il trasferimento di Stilo Costantino nel nord
del Paese.
Né va taciuto che lo stesso Carrozza si è più volte recato a
colloquio con il nonno Morabito Giuseppe, informandolo di quanto
avveniva in cantiere (cfr. pp. 314-321 dell’impugnata sentenza).
Le osservazioni difensive al riguardo, appaiono, peraltro,
destituite di fondamento, in quanto nessuna contraddizione o
manifesta illogicità della motivazione può ravvisarsi nell’avere la
corte territoriale valorizzato in chiave accusatoria quanto riferito al
Morabito Giuseppe.
L’assoluzione di quest’ultimo, circostanza su cui insiste la difesa
del Carrozza, infatti, appare dovuta alla mancata dimostrazione
che egli dal carcere abbia dato disposizioni agli altri componenti
del sodalizio in merito alla spartizione tra i diversi “locali” della
“ndrangheta” dei lavori oggetto degli appalti pubblici più volte
citati ed alla gestione dei lavori stessi.
Ciò non esclude, tuttavia, la sua posizione di capo storico della
cosca Morabito (peraltro non contestata dalla difesa), per cui le
informazioni che gli vengono fornite nel corso delle conversazioni
in carcere dai suoi familiari, ivi compreso il ricorrente, sulla

91

società appaltatrice e l’andamento dei lavori nel corso dei diversi

conclusione dell’accordo con la società appaltatrice, sulla presenza
di uomini di fiducia nel cantiere e sull’andamento dei lavori hanno
l’inequivocabile significato di notizie relative ad una vicenda (si
potrebbe dire ad un “affare”) di particolare importanza per la vita
dell’associazione ed evidenziano, sul piano soggettivo, la piena
consapevolezza del Carrozza di agire nell’interesse della sua cosca

Né appare contraddittoria, rispetto al quadro accusatorio ritenuto
sussistente, la contemporanea presenza di un’altra ditta
interessata alla fornitura di cemento, pure riconducibile alla cosca
Morabito, la “D’Aguì Beton” di D’Aguì Terenzio Antonio, in quanto
il potenziale conflitto di interessi economici esistente tra
quest’ultima società e la “I.M.C.” nell’accaparrarsi le quote
maggiori della fornitura di cemento con cui approvvigionare la
società appaltatrice, non esclude la sussistenza della comune
adesione al pactum sceleris, che trova il suo fondamento nella
condivisione della utilizzazione della forza intimidatrice e della
conseguente condizione di assoggettamento che ne deriva da
parte di entrambe le imprese per assicurarsi il subappalto con la
“Società Condotte”.
Ciò si evince con assoluta evidenza dalle considerazioni svolte dal
Vadalà Antonino, mentre si recava all’incontro con il Morabito
Bruno, reggente dell’omonima cosca in assenza del Morabito
Giuseppe, sulla eccessiva presenza nei lavori subappaltati della
ditta del D’Aguì Terenzio Antonio, di cui si è parlato trattando la
posizione del suddetto Vadalà, il quale, pur lamentandosene, non
ne metteva in discussione la partecipazione a pieno titolo agli
accordi spartitori sotto l’egida della cosca Morabito.

92

di appartenenza.

In questo contesto, contrariamente a quanto ritenuto dalla difesa,
la cui censura sul punto appare del tutto infondata, appaiono
rilevanti, ai fini di affermare la responsabilità del Carrozza per il
reato associativo, anche i suoi accertati rapporti di parentela con
Stilo Francesco, Stilo Costantino, Morabito Giuseppe, Morabito
Domenico, figlio di Rocco, fratello di Morabito Giuseppe, e

base delle considerazioni già svolte a proposito del coimputato
Mora bito Domenico.
Può, dunque, affermarsi alla luce dei principi di diritto in
precedenza indicati, che anche il Carrozza Vincenzo deve
considerarsi uno dei partecipi dell’associazione di stampo mafioso
di cui si discute, in quanto egli ha messo consapevolmente la sua
persona a completa disposizione del sodalizio criminoso di
appartenenza, per consentire il raggiungimento, con metodo
mafioso, degli obiettivi della compagine associativa, consistenti
nella infiltrazione delle imprese mafiose nei lavori oggetto degli
appalti più volte indicati.

STILO COSTANTINO eccepisce i vizi di cui all’art. 606, co. 1, lett.
b) e d e), c.p.p., deducendo l’inosservanza ovvero l’erronea
applicazione della legge penale, mancanza contraddittorietà e
manifesta illogicità della motivazione con riferimento agli artt.
416, bis, c.p. e 533, c.p.p.
In particolare il ricorrente lamenta l’omessa valutazione da parte
della corte territoriale delle doglianze prospettate dalla difesa nei
motivi di appello e nei motivi nuovi, evidenziando come sulla base
delle risultanze processuali non possa affermarsi, al di là di ogni
ragionevole dubbio, la riconducibilità della ditta “I.M.C.” alla cosca

93

Morabito Bruno, cugino quest’ultimo di Morabito Giuseppe, sulla

Morabito e la partecipazione di Stilo Costantino al sodalizio in
questione, secondo i parametri fissati dall’art. 416 bis, c.p., di cui
difettano gli elementi costitutivi.
Con particolare riferimento alla conversazione intercettata nel
carcere di Parma il 18.11.2006, osserva il ricorrente che dal suo
contenuto non può evincersi l’appartenenza dello alla cosca
La corte territoriale, inoltre, da un lato non ha preso in adeguata
considerazione il contenuto di una nota della “Società Condotte”,
indirizzata alla Prefettura, “con cui veniva definita la clausola
risolutiva espressa, contenuta nel protocollo d’intesa, del tutto
inapplicabile nella realtà operativa, auspicandone, nel contempo
una revisione”, dall’altro ha affermato contraddittoriamente che il
Carrozza Pasquale fosse assoggettato al potere mafioso degli
Stilo, laddove poi afferma, in relazione alla “sponsorizzata
assunzione di tale Zappia”, l’esistenza di un rapporto di complicità
tra gli Stilo ed il suddetto Carrozza.
Vizi dello stesso tenore il ricorrente lamenta anche in relazione al
trattamento sanzionatorio, con particolare riferimento alla
mancata irrogazione di una pena contenuta nei limiti edittali ed al
mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche.
In data 17.10.2012, infine, il ricorrente presentava memoria
difensiva, che tuttavia, non può essere presa in considerazione,
essendo stata depositata presso la cancelleria della corte di
Cassazione appena il giorno prima dell’udienza di trattazione del
18.10.2012.
Come è noto, infatti, il termine di quindici giorni per il deposito di
memorie difensive, previsto dall’art. 611, c.p.p., è da ritenersi
applicabile anche ai procedimenti in udienza pubblica e la sua

94

mafiosa, ma anzi elementi di segno opposto.

inosservanza esime la Corte di cassazione dall’obbligo di prenderle
in esame (cfr. Casse, sez, VI, 28/02/2012, n. 18453, C. e altro,
rv. 252711).
Tanto premesso anche in questo caso la maggior parte delle
censure prospettate dal ricorrente si collocano nell’alveo della

rilievi sollevati in sede di appello, già disattesi dai giudici di merito,
ed in una prospettazione di versioni alternative dei fatti per cui si
procede e di censure di fatto, anche in relazione al trattamento
sanzionatorio (per il quale si rimanda alle considerazioni già svolte
esaminando la posizione dell’Altomonte) che, come si è detto, non
sono ammissibili in sede di legittimità.
Al riguardo appare sufficiente rimandare alle osservazioni già
svolte a proposito della posizione di Carrozza Vincenzo,
esaminando la quale si è visto come sia stato dimostrato
l’inserimento nei lavori relativi agli appalti di cui si discute di
imprese espressione della cosca Morabito, tra cui la “I.M.C. di
Stilo & C. sen.c.”, di cui era amministratore Stilo Costantino, ma
che di fatto era amministrata da Stilo Francesco, padre del
ricorrente e zio di Carrozza Vincenzo, ma, soprattutto, genero di
Morabito Giuseppe (“U tiradirittu”)
Ed invero, in considerazione della acclarata spartizione dei lavori
per la variante della strada statale n. 106 dell’abitato di Palizzi tra
le cosche di Africo (Morabito), Palizzi (Maisano), Bova (VadalàTalia), che è emersa in tutta evidenza esaminando le posizioni, tra
gli altri, di Altomonte Sebastiano, Morabito Domenico, Morabito
Bruno, Morello Leone, Vadalà Antonino, Vadalà Carmelo, classe
’80, D’Aguì Terenzio Antonio, e dell’intervenuta sentenza di
condanna per il reato associativo dello Stilo Francesco (nei

95

inammissibilità, risolvendosi esse nella mera riproposizione di

confronti del quale si è proceduto con il rito ordinario),
correttamente la corte territoriale ha affermato la penale
responsabilità del ricorrente, in quanto egli, con la sua condotta
ha fornito un contributo di non poco momento alla realizzazione
dei fini della cosca di appartenenza (quella dei Morabito),
assicurando lo svolgimento della fase più propriamente esecutiva
alla suddetta cosca (la “I.M.C.” e la “D’Aguì Beton” di D’Aguì
Terenzio Antonio) era stata assegnata la fornitura del cemento da
utilizzare nei lavori per la menzionata variante da parte
dell’appaltatrice “Società Condotte”.
Sul punto la corte territoriale ha dato vita ad un percorso
argomentativo assolutamente condivisibile, evidenziando come lo
Stilo Costantino abbia fornito un supporto di non poco momento
all’attività paterna, non solo controllando l’esecuzione dei lavori ed
interloquendo con i responsabili della “Società Condotte”, ma,
soprattutto, prestandosi a svolgere “il ruolo di prestanome per
conto del padre Stilo Francesco, consentendo allo stesso di
procurare illecitamente l’importante fornitura di calcestruzzo in
favore della IMC e di gestire in modo occulto quest’ultima,
consentendo al genitore di esercitare indebite pressioni sugli
operatori del cantiere di Palizzi e di proseguire nel fornire
calcestruzzo anche dinanzi all’informativa interdittiva della
Prefettura” (cfr. pp. 302-314 della sentenza impugnata).
Il ricorrente, pertanto, ha agito nell’esclusivo interesse del
sodalizio di appartenenza, come si evince anche dalla circostanza
che, nel riferire al Morabito Giuseppe la conclusione dell’accordo
con la società appaltatrice e l’andamento dei lavori nel corso dei
diversi colloqui avvenuti nel carcere di Parma, Stilo Francesco e la

96

»

dell’accordo mafioso, in base al quale alle imprese riconducibili

moglie includevano lo Stilo Costantino tra i soggetti che sin
dall’inizio avevano avuto il compito di presidiare il cantiere,
rassicurando il Morabito sulla circostanza che il nipote continuasse
a mantenere i rapporti con la famiglia mafiosa evidenziando anche
dopo il suo nel nord del Paese.
In questo contesto appaiono rilevanti, ai fini di affermare la
accertati rapporti di parentela con Stilo Francesco, Carrozza
Vincenzo e Morabito Giuseppe, sulla base delle considerazioni già
svolte a proposito del coimputato Morabito Domenico.
Può, dunque, affermarsi alla luce dei principi di diritto in
precedenza indicati, che anche lo Stilo Costantino deve
considerarsi uno dei partecipi dell’associazione di stampo mafioso
di cui si discute, in quanto egli ha messo consapevolmente la sua
persona a completa disposizione del sodalizio criminoso di
appartenenza, per consentire il raggiungimento, con metodo
mafioso, degli obiettivi della compagine associativa, consistenti
nella infiltrazione delle imprese mafiose nei lavori oggetto degli
appalti più volte indicati,
D’AGUI’ FRANCESCO eccepisce innanzitutto l’inosservanza ovvero
l’erronea applicazione della legge penale per non avere la corte
territoriale accolto l’eccezione difensiva, già rigettata dal giudice di
primo grado, volta a far valere la mancata notifica all’avv.
Salvatore Staiano dell’avviso di conclusione delle indagini
preliminari ex art. 415 bi, c.p.p., notificato, invece, ai difensori
Basilio Pitasi e D’Aguì Pietro, nonostante che in data 8.11.2008
l’imputato avesse nominato il suddetto avv. Staiano difensore di
fiducia nel giudizio dì Cassazione instaurato nell’ambito della

97

responsabilità del Carrozza per il reato associativo, anche i suoi

procedura incidentale svoltasi innanzi al tribunale del riesame di
Reggio Calabria, confermando la nomina del solo avvocato Pitasi.
In conseguenza di ciò la nomina dell’avv. D’Aguì Pietro doveva
intendersi tacitamente revocata, in mancanza di dichiarazioni
contrarie da parte dell’imputato, non potendo trovare applicazione
l’art. 24 disp. att, c.p.p., proprio in considerazione della
giudizio di impugnazione
Il ricorrente contesta altresì la possibilità di fondare la decisione
sui risultati di intercettazioni che non sono corroborati da riscontri
estrinseci, sollecitando il Collegio a sollevare la questione di
legittimità costituzionale dell’art. 192, c.p.p. innanzi il Giudice
delle Leggi; lamenta, inoltre, perché viziata da contraddittorietà e
manifesta illogicità la motivazione della corte territoriale nella
parte in cui attribuisce alle conversazioni intercettate un
significato di conferma dell’ipotesi accusatoria, che esse, invece,
non posseggono; censura, infine, l’omessa motivazione in ordine
al diniego delle circostanze attenuanti generiche, che non può
essere fondato sulla gravità dei fatti e sulla capacità a delinquere
degli imputati, richiedendo, il relativo giudizio, una specifica
considerazione della personalità di ognuno di essi.
Il primo motivo di ricorso è infondato.
Se è vero, infatti che, come affermato dal Supremo Collegio nella
sua più autorevole espressione la nomina di un terzo difensore di
fiducia dell’imputato, in assenza di revoca espressa di almeno uno
dei due già nominati, resta priva di efficacia salvo che si tratti di
nomina per la proposizione dell’atto di impugnazione, la quale, in
mancanza di contraria indicazione dell’imputato, comporta la
revoca dei precedenti difensori, trovando applicazione in tale

98

intervenuta nomina dell’avv. Salvatore Staiano quale difensore del

ipotesi il disposto dell’art. 571, co. 3, c.p.p. e non quello di cui
all’art. 24, disp. att., del codice di rito (cfr. Cass., sez. un.,
15/12/2011, n. 12164, D.C.G.), è altrettanto vero, che tale
principio opera, ad avviso di questo Collegio, solo nell’ambito del
giudizio di merito e non anche in quello innanzi la Corte di
Cassazione.

decisione in precedenza indicata, il mandato per il giudizio in
Cassazione “esaurisce i suoi effetti nell’ambito del solo giudizio di
legittimità, essendo necessario, invece, perché produca effetti
anche nel giudizio di merito, che l’imputato, ove abbia nominato
già due difensori di fiducia, provveda alla revoca di uno di essi”
(v., tra le altre, Cass., sez. V, n. 25196 del 19/05/2010, Di Bona,
rv. 248473; Cass, sez. I, n. 7536 del 16/01/2002, Mesfaouyi, rv.
220895), per cui, nel caso in esame, non avendo provveduto
l’imputato alla revoca di uno dei due difensori nella fase di merito,
l’avv. Staiano non aveva diritto alla notifica dell’avviso ex art. 415
bis, c.p.p.
Infondati, per le ragioni già esposte trattando la posizione dei
coimputati Altomonte Sebastiano e Morello Leone, cui sul punto si
rimanda, sono poi i motivi riguardanti la necessità di riscontri
esterni alle dichiarazioni auto ed eteroaccusatorie che si ricavano
dal contenuto delle conversazioni intercettate e manifestamente
infondata la questione di legittimità costituzionale proposta
Quanto ai motivi volti ad escludere la partecipazione del D’Aguì
Francesco al sodalizio mafioso di cui si discute, alla luce di una
diversa lettura delle risultanze processuali, essi devono
considerarsi inammissibili, risolvendosi nella mera riproposizione
di rilievi sollevati in sede di appello, già disattesi dai giudici di

99

Come evidenziato, infatti, dalle stesse Sezioni Unite nella

merito, ed in una prospettazione di versioni alternative dei fatti
per cui si procede e di censure di fatto, anche in relazione al
trattamento sanzionatorio ed al mancato riconoscimento delle
circostanze attenuanti generiche (profilo, quest’ultimo, per il quale
si rimanda alle osservazioni già svolte esaminando la posizione
dell’Altomonte, rilevando come in questo caso la valutazione della
prevenuto), che, come si è detto, non sono ammissibili in sede di
legittimità.
Anche in questo caso, peraltro, la corte territoriale con
motivazione approfondita ed immune da vizi, sgombrando il
campo da ogni incertezza sulla identificazione nell’attuale
ricorrente del “Ciccio D’Agur di cui si parla nelle conversazioni
intercettate e partendo dalla dimostrata infiltrazione dei locali di
“ndrangheta” nei lavori oggetto degli appalti più volte indicati e
dalla riconducibilità della ditta “D’Aguì Beton”, di cui egli è socio
unitamente al cugino D’Aguì Terenzio Antonio, alla cosca
Morabito, ha evidenziato come l’inserimento dell’imputato nel
sodalizio di cui si discute si ricavi dai rapporti che lo stesso
intratteneva con esponenti di spicco della consorteria mafiosa,
come il suocero Morello Leone, Modaffari Leone e Morabito Bruno,
presso di cui in una occasione aveva accompagnato il Modaffari,
nell’ambito dell’attività connessa all’esecuzione dei lavori ottenuti
in subappalto, nella piena consapevolezza dell’intervenuto accordo
spartitorio, tanto che nella conversazione n. 2620 intercettata il
22.1.2006, Vadalà Carmelo, classe ’80, sollecitato ad intervenire
da una doglianza di Morello Leone relativa al tentativo di Dieni
Pasquale, che, incurante di turbare in tal modo l’equilibrio
raggiunto tra i vari gruppi, stava tentando di incrementare il

100

corte territoriale si fondi anche sulla non incensuratezza del

proprio giro di affari, di cui si era fatto latore il Mauro, replicava al
suo interlocutore che se ne sarebbe fatto carico solo se tale
circostanza fosse stata portata dal Morello direttamente a
conoscenza del Talia Giovanni, aggiungendo di non conoscere
quale fosse la posizione al riguardo di “Ciccio D’Aguì il genero”.
Dal contenuto di tale conversazione, come correttamente ritenuto

D’Aguì Francesco, proprio in virtù dell’inequivocabile riferimento
alla condizione di quest’ultimo di genero di Morello Leone, in un
contesto in cui appare altrettanto chiaro il suo inserimento negli
accordi stretti dalle cosche per la spartizione dei lavori, tanto che
il Vadalà ed il Mauro si interrogavano sul suo atteggiamento
rispetto all’indebita iniziativa del Dieni.
Né va dimenticato che il D’Aguì Francesco, come sottolineato dai
giudici di secondo grado, ha preso parte all’importante riunione
del 25 novembre 2006 tra alcuni dei componenti del sodalizio ed i
dipendenti della “Società Condotte” ed all’analogo “summit” del
4.11.2007, in Africo, presso il casolare di Morabito Bruno, di cui si
è parlato nelle pagine precedenti (cfr. pp. 168-180 della sentenza
impugnata).
Può, dunque, affermarsi alla luce dei principi di diritto in
precedenza indicati, che anche il D’Aguì Francesco deve
considerarsi uno dei partecipi dell’associazione di stampo mafioso
di cui si discute, in quanto egli ha messo consapevolmente la sua
persona a completa disposizione del sodalizio criminoso di
appartenenza, per consentire il raggiungimento, con metodo
mafioso, degli obiettivi della compagine associativa, consistenti
nella infiltrazione delle imprese mafiose nei lavori oggetto degli
appalti più volte indicati.

101

dalla corte territoriale, risulta evidente che il Vadalà parlasse del

D’AGUI’ TERENZIO ANTONIO lamenta i vizi di cui all’art. 606, co.
1, lett. b) ed e), per motivazione illogica, contraddittoria e viziata
da un palese travisamento dei dati probatori, attraverso la
recezione integrale della sentenza di primo grado, ritenendo
sussistente la partecipazione dell’imputato all’associazione di cui si

della relativa fattispecie e pur in presenza di specifici elementi
contrari;
Identica violazione eccepisce il ricorrente in ordine alla disposta
confisca ex artt. 240 c.p., 12 sexies I n. 356 del 1992, di cui non
sussistevano i presupposti di legge ed a fronte di dati probatori di
inequivocabile segno contrario, in quanto la consulenza tecnica del
dott. Schiavone, acquisita agli atti, consente di affermare il
legittimo operato dell’azienda del D’Aguì, la D’Aguì Beton s.r.l. e
l’assoluta lecita provenienza ed indiscutibile proporzione alla
capacità economica dell’imputato dei beni a lui riconducibili.
Infine i medesimi vengono denunciati in ordine al mancato
riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche ed alla
eccessiva gravità della pena inflitta.
Le criticità esposte dall’imputato possono così riassumersi: non
risulta dimostrato l’assunto che rappresenta il fulcro dell’indagine,
vale a dire l’accordo tra le diverse cosche per la spartizione degli
appalti pubblici relativi ai lavori da eseguire sulla strada statale n.
106 e la partecipazione dell’imputato a tale accordo, che, peraltro,
dovrebbe necessariamente presupporre la dimostrazione della
“mafiosità” dei soggetti e delle presunte cosche che lo hanno
stipulato, alla luce dei criteri fissati dall’art. 416 bis, c.p., come
fissati nella giurisprudenza di legittimità, mancando invece la

102

discute pure in assenza degli elementi oggettivi e soggettivi tipici

prova della consumazione di atti di intimidazione, minatori o di
violenza nei confronti di chicchessia ovvero dello stato di
assoggettamento che ne deriva; non appare configurabile, inoltre,
nei confronti dell’imputato nessun degli elementi necessari a
dimostrare la sua partecipazione al sodalizio criminoso, a partire
dal suo stabile inserimento in esso e dall’adesione consapevole al

Il ricorrente contesta, poi, il contenuto delle singole conversazioni
oggetto di intercettazione poste a fondamento della sentenza di
condanna, rilevando come nella valutazione delle medesime la
corte territoriale sia incorsa in un vero e proprio travisamento
della prova, in quanto, in estrema sintesi e prescindendo dal
rilevare la completa assenza di riscontri alle dichiarazioni che ne
costituiscono il contenuto, da esse si ricava, invece, l’assoluta
estraneità dell’imputato al contesto associativi in cui lo si vuole
collocare e la sua partecipazione ai lavori oggetto dell’appalto in
contestazione in qualità di imprenditore libero da ogni
condizionamento mafioso, motivo per il quale egli era inviso ai
coimputati Mauro e Vada là Carmelo, classe ’80.
Con particolare riferimento all’incontro del 25.11.2006, poi,
secondo il difensore dell’imputato non risulta che il D’Aguì abbia
partecipato alla cena in cui si procedette all’affiliazione di due
nuovi soggetti, ma solo al pranzo a cui parteciparono anche alcuni
rappresentanti delle imprese che avevano ricevuto in appalto i
lavori per la variante della strada statale n.106, da considerare
una semplice riunione aziendale.
Quanto ai rapporti con la ditta Clarà che aveva ottenuto solo
formalmente il subappalto dei lavori per la strada statale n. 106,
rileva il difensore che il fax inviato dal D’Aguì al Clarà il 3.3.2006,

103

programma criminoso.

lungi dal poter essere interpretato come prova regina del
sostegno dato alla consorteria criminosa, attraverso il D’Aguì, al
Calà al fine dell’aggiudicazione del subappalto, va ricondotto a
normali rapporti tra imprenditori in quanto con esso l’imputato si
limita a suggerire al suo interlocutore di modulare la sua offerta
per venire incontro alle esigenze della “Società Condotte”;

conversazione del 22.11.2006 in cui Mauro Domenico afferma che
è stato il Clarà a fare entrare il D’Aguì nel subappalto e non il
contrario.
In relazione ai lavori lavori della scuola Euclide, poi, emerge con
assoluta chiarezza sia dalle conversazioni intercettate, sia dai
risultati della perizia svolta dal dott. Gentile in sede di incidente
probatorio, l’assoluto scrupolo con cui il D’Aguì svolgeva il suo
compito di fornitore, rifiutandosi di fornire cemento di una qualità
diversa, cioè peggiore, in quanto meno resistente, di quello che
per contratto doveva essere fornito, nonostante il titolare della
ditta incaricata della esecuzione dei lavori, il Corsaro, volesse
utilizzare cemento a dosaggio e gli abbia pagato le relative
forniture come se si trattasse di tale tipo di cemento, mentre il
D’Aguì, subendo dunque un danno economico, gli aveva fornito
cemento strutturale.
Il D’Aguì, inoltre, non è stato inserito tra i componenti della base.
Con riferimento alla confisca delle quote sociali della “D’Aguì
Beton”, nonché degli appartamenti e degli autoveicoli intestati al
D’Aguì, il ricorrente evidenzia innanzitutto che la corte territoriale
non ha tenuto conto conto della circostanza che alcuni dei beni di
cui ha disposto al confisca sono stati restituiti all’imputato con
decreto del tribunale di Reggio Calabria, sezione misure di

104

peraltro l’assunto accusatorio viene smentito dal contenuto della

prevenzione, in palese violazione degli artt. 240 e 12 sexies I. n.
356 del 1992.
In particolare la corte territoriale ha travisato il contenuto della
consulenza tecnica del dott. Schiavone, innanzitutto con
riferimento alla confisca delle quote sociali della D’Aguì Beton, in
quanto come rilevato dal consulente, nel ricostruire il volume di
imponibile, rilevante ai fini fiscali, ma inidoneo a rappresentare la
reale crescita degli affari della società, quale si desume invece dai
bilanci di esercizio depositati presso il Registro delle Imprese,
dando così ad intendere il conseguimento di un utile di periodo
(2007) non realmente conseguito, con conseguente alterazione
della rappresentazione economica e patrimoniale della società,
che nel 2007 avrebbe ottenuto un utile di appena 131 euro, in
conseguenza della svalutazione dei crediti vantati nei confronti
della “Società Condotte” oggetto di parziale contestazione
Tale obiezione ha avuto risposta meramente apodittica dalla corte
territoriale, che non ha preso in considerazione nemmeno la storia
imprenditoriale della società del D’Aguì, fondata dal padre
dell’imputato nel 1961.
Non sussistono, dunque, ad avviso del ricorrente, i presupposti
per l’applicazione delta confisca delle quote sociali ai sensi dell’art.
416 bis, co. 7, c.p.
Quanto agli altri beni, confiscati ai sensi dell’art. 12 sexies, d.l. n.
306 del 1992, manca la prova della sproporzione tra il valore dei
beni oggetto della confisca e la capacità economica del nucleo
familiare del D’Aguì, profilo sul quale la corte territoriale ha reso
una motivazione del tutto apparente, prendendo in
considerazione, nonostante i dati di segno opposto emergenti

105

affari della società si è fatto erroneamente riferimento al reddito

dalla consulenza del dott. Schiavone, i soli redditi dichiarati ai fini
fiscali e non i proventi lecitamente conseguiti che non assumono
rilevanza fiscale, nonché le somme di denaro provenienti da
prestiti che i componenti della famiglia hanno contratto nel tempo.
Orbene anche in questo caso la quasi totalità delle censure
prospettate dal ricorrente si collocano nell’alveo della
rilievi sollevati in sede di appello, già disattesi dai giudici di merito,
ed in una prospettazione di versioni alternative dei fatti per cui si
procede e di censure di fatto, anche in relazione al trattamento
sanzionatorio (per il quale si rimanda alle considerazioni già svolte
esaminando la posizione dell’Altomonte) che, come si è detto, non
sono ammissibili in sede di legittimità.
Al riguardo appare sufficiente rimandare alle osservazioni già
svolte a proposito delle posizioni di Carrozza Vincenzo e di D’Aguì
Francesco, esaminando le quali si è visto come sia stato
dimostrato l’inserimento nei lavori relativi agli appalti di cui si
discute di imprese espressione della cosca Morabito, tra cui la
“I.M.C. di Stilo & C. s.n.c.” e la “D’Aguì Beton”, di cui erano soci il
ricorrente ed il cugino D’Aguì Francesco.
Ed invero, in considerazione della acclarata spartizione dei lavori
per la variante della strada statale n. 106 dell’abitato di Palizzi tra
le cosche di Africo (Morabito), Palizzi (Malsano), Bova (VadalàTalia), conseguente alla forza di intimidazione derivante dal
vincolo associativo, che è emersa in tutta evidenza esaminando le
posizioni, tra gli altri, di Altomonte Sebastiano, Morabito
Domenico, Morabito Bruno, Morello Leone, Vadalà Antonino,
Vadalà Carmelo, classe ’80, Vadalà Domenico, Stilo Costantino,
Carrozza Vincenzo, Spanò Francesco, correttamente la corte

106

inammissibilità, risolvendosi esse nella mera riproposizione di

territoriale ha affermato la penale responsabilità del ricorrente, in
quanto egli, con la sua condotta ha fornito un contributo di non
poco momento alla realizzazione dei fini della cosca di
appartenenza (quella dei Morabito), assicurando lo svolgimento
della fase più propriamente esecutiva dell’accordo mafioso, in
base al quale alle imprese riconducibili alla suddetta cosca era
oggetto degli appalti più volte menzionati, essendo del tutto
irrilevante al riguardo, al circostanza, sulla quale insiste il
difensore, del corretto comportamento dell’imputato
nell’esecuzione dei lavori acquisiti in subappalto, che non fa venir
meno la natura illecita del suddetto l’accordo.
Infondati, per le ragioni già esposte trattando la posizione del
coimputato Altomonte Sebastiano, cui sul punto si rimanda, sono
poi i motivi riguardanti la necessità di riscontri esterni alle
dichiarazioni auto ed eteroaccusatorie che si ricavano dal
contenuto delle conversazioni intercettate.
Anche in questo caso, dunque, la corte territoriale con
motivazione approfondita ed immune da vizi, partendo proprio
dalla dimostrata infiltrazione dei locali di “ndrangheta” nei lavori
oggetto degli appalti più volte indicati e dalla riconducibilità della
ditta “D’Aguì Beton” alla cosca Morabito, ha evidenziato come
l’inserimento dell’imputato nel sodalizio di cui si discute si ricavi
dai rapporti che lo stesso intratteneva con esponenti di spicco
della consorteria mafiosa, a partire dal Morabito Bruno reggente
del sodalizio in quel particolare momento storico, nell’ambito
dell’attività connessa all’esecuzione dei lavori ottenuti in
subappalto, nella piena consapevolezza dell’intervenuto accordo
spartitorio.

107

stata assegnata la fornitura del cemento da utilizzare nei lavori

Ciò si ricava da una molteplicità di elementi sintomatici,
puntualmente indicati e valutati dalla corte territoriale nella parte
della motivazione dedicata alla posizione del ricorrente (cfr. pp.
252-274), tra i quali assumono valore decisivo ed assorbente
alcune circostanze già emerse esaminando i ricorsi degli altri
coimputati ed, in particolare: 1) la comprovata partecipazione del
presso il casolare di Morabito Bruno, nei pressi di Africo, al quale
parteciparono, oltre a quest’ultimo ed al suddetto ricorrente, i
coimputati Morabito Domenico, D’Aguì Francesco, Vadalà
Antonino, Vadalà Carmelo, classe ’80, Morello Leone e Palamara
Santo, che, proprio in considerazione del contesto criminale in cui
operavano i predetti partecipanti, alcuni dei quali come il Morabito
Domenico, ed il Vadalà Carmelo, classe ’80, titolari di imprese
operanti nel settore dell’edilizia, non poteva che avere ad oggetto,
come ritenuto dalla corte territoriale con motivazione logicamente
coerente, questioni relative all’infiltrazione delle cosche mafiose
nei lavori innanzi indicati; 2) il commento svolto dall’imputato, in
una conversazione intercettata, circa l’indebita ingerenza di
Palamara Annunziato nell’esecuzione di lavori alle spalle del plesso
scolastico “Euclide”, senza l’autorizzazione delle cosche, che
aveva determinato l’immediata reazione di Morello Leone, il quale
aveva imposto al Palamara il divieto di assumere nuovi lavori nel
territorio controllato dai clan; 3) la dimostrata presenza del
ricorrente alla importante riunione svoltasi il 25.11.2006 in Bova
Superiore, presso l’abitazione della famiglia D’Aguì, prolungatasi
sino a sera, alla quale avevano partecipato, oltre al D’Aguì
Terenzio, Morello Leone, Mauro Domenico, Vadalà Carmelo, classe
’80, i fratelli D’Aguì Francesco e D’Aguì Pietro, il padre di questi

108

D’Aguì Terenzio ad un incontro organizzato il 4 novembre 2007

ultimi, D’Aguì Antonino, uno dei dipendenti della società “D’Aguì
Beton”, La Morte Gerardo, Fortugno Giuseppe; Labate Giovanni e
Carrozza Pasquale, rispettivamente assistente di cantiere e capo
cantiere della “Società Italiana per Condotte D’Acqua S.P.A.”,
aggiudicataria dell’appalto pubblico relativo ai lavori per la strada
statale n. 106, sulla cui natura di “summit” mafioso si è già detto
rimanda; 4) il giudizio negativo espresso nei suoi confronti da
Vadalà Antonino (oggetto di una conversazione intercettata
mentre si reca ad un incontro con il Morabito Bruno), che accusa il
D’Aguì Terenzio di essersi alleato con il suddetto Morabito per
assicurarsi il maggior numero di lavori, stante l’indubbio
predominio degli “Africoti” sulle cosche di Bova e di Palizzi, ed il
timore che sempre il Vadalà manifesta, nella medesima
conversazione che, con la sua condotta imprudente, il D’Aguì
possa attirare l’attenzione delle forze dell’ordine, consentendo
l’arresto dello stesso Vadalà Antonino; 5) il riferimento fatto dal
Vadalà Carmelo, classe ’80, nella conversazione n. 540,
intercettata il 2.12.2006, mentre si recava con Vadalà Antonino,
Nucera Pasquale e Nucera Giuseppe ad Africo per partecipare al
“summit” con Morabito Bruno, alla circostanza che il Talia
Giovanni si era “stancato” del suddetto D’Aguì, il quale, pur di
ampliare il suo giro di affari si era avvicinato al Morabito Bruno,
preferendo appoggiare il cognato Dieni Pasquale.
Può, dunque, affermarsi alla luce dei principi di diritto in
precedenza indicati nella parte generale della presente
motivazione e nell’esame delle posizioni degli altri coimputati, con
particolare riferimento a quella di Altomonte Sebastiano, che
anche il D’Aguì Terenzio Antonio deve considerarsi uno dei

109

trattando la posizione di Morello Leone, alla quale, sul punto si

partecipi dell’associazione di stampo mafioso di cui si discute, in
quanto egli ha messo consapevolmente la sua persona a completa
disposizione del sodalizio criminoso di appartenenza, per
consentire il raggiungimento, con metodo mafioso, degli obiettivi
della compagine associativa, consistenti nella infiltrazione delle
imprese mafiose nei lavori oggetto degli appalti più volte indicati.
motivi di gravame attinenti alla confisca delle quote sociali
disposta ai sensi dell’art. 416 bis, co. 7, c.p, dovendosi rilevare, al
riguardo, come la corte territoriale abbia correttamente applicato i
principi da tempo affermati dalla giurisprudenza di legittimità,
secondo cui in caso di condanna per associazione di tipo mafioso
la confisca prevista dall’art. 416 bis, co. 7, c.p., non concerne tutti
i beni comunque acquistati dai singoli associati in un determinato
periodo, ma va riferita esclusivamente ai beni che servirono o
furono destinati a commettere il reato ed a quelli che ne sono il
prezzo, il prodotto, il profitto o che ne costituiscono l’impiego,
essendo stato dimostrato in carattere strumentale dell’impresa del
ricorrente ai fini propri del sodalizio mafioso di appartenenza (cfr.,
ex plurimis, Casse, sez. I, 01/04/1992, Bruno e altro)
Con riferimento, poi, alla confisca disposta ex art. 12 sexies d.l. n.
306 del 1992, convertito in I. n. 356 del 1992, va rilevato che i
motivi di ricorso sono inammissibili, da un lato in quanto attinenti
al merito, dall’altro perché, se è pur vero che, come è stato
affermato in un arresto del Supremo Collegio, “la decisione
conclusiva del procedimento di prevenzione patrimoniale, ex art. 2
ter I. n. 575 del 1965, ha effetto preclusivo su un eventuale
procedimento avente ad oggetto gli stessi beni e in danno della
stessa persona, per la confisca ex art. 12 sexies die n. 306 del

110

Inammissibili, perché attinenti al merito, devono poi ritenersi i

1992, conv. in I. n. 356 del 1992, in mancanza di deduzione di
fatti nuovi modificativi della situazione definita” (cfr. Cass., sez. V,
28/04/2010, n. 22626), non può non rilevarsi che nel caso in
esame il ricorrente, a sostegno della sua tesi, ha fatto riferimento
agli atti di un altro procedimento che non risultano acquisiti in atti,
né allegati in forma autentica ai motivi di ricorso, non

sull’assunto difensivo.

SPANO’ FRANCESCO lamenta, in proprio, la mancanza di
motivazione in ordine alla sussistenza di elementi dai quali potere
affermare la sua partecipazione al sodalizio di cui si discute, non
essendo emerso alcun contributo concreto da parete dell’imputato
alla realizzazione degli scopi della compagine associativa, nonché
la contraddizione della motivazione nella parte in cui desume la
sua appartenenza alla cosca Malsano dalla vicinanza a personaggi
di elevato spessore criminale come il Mauro, che tuttavia gli stessi
giudici ritengono appartenere alla cosca Vadalà; il ricorrente
rileva, inoltre, di avere dimostrato che nessun Francesco
Giordano, residente a Palizzi, ha mai contattato l’imputato per
ricavarne sostegno in ordine alla partecipazione ai lavori per la
strada statale n.106.
Lo Spanò, inoltre, evidenzia come la corte territoriale non ha
tenuto conto del disinteresse da lui manifestato alla notizia
appresa dal Mauro di avere partecipato ad un rito di affiliazione,
né ha dimostrato la presunta vicinanza dell’imputato al “boss”
Malsano Giuseppe, peraltro mandato assolto dalla corte
territoriale per i medesimi fatti.

consentendo, pertanto, alla corte di svolgere il relativo controllo

Sempre in violazione di legge, i giudici di merito non hanno
indicato il numero dei componenti della cosca Malsano,
omettendo, dunque, di motivare in ordine alla sussistenza di uno
degli elementi costitutivi dell’art. 416 bis, c.p., né hanno motivato
in relazione ad uno specifico argomento addotto dal ricorrente, il

Clarà sia stato frutto di un’intimidazione, piuttosto che di normali
scelte imprenditoriali, evidenziando come egli fu il primo
dipendente ad essere sottoposto alla cassa integrazione a zero
ore.
Censura, infine, l’imputato l’omessa motivazione in ordine al
diniego delle circostanze attenuanti generiche ed all’eccessivo
rigore del trattamento sanzionatorio, non avendo la corte
territoriale valutato al riguardo il comportamento collaborativo
dello Spanò, che con le dichiarazioni rese agli organi inquirenti ha
reso possibile l’adozione di misure cautelari per gravi reati nei
confronti dei vertici locali dell’A.N.A.S.
Orbene i motivi di ricorso volti ad escludere la partecipazione dello
Spanò Francesco al sodalizio mafioso di cui si discute, alla luce di
una diversa lettura delle risultanze processuali, si collocano ai
confini della inammissibilità, risolvendosi, in sostanza, nella mera
riproposizione di rilievi sollevati in sede di appello, già disattesi dai
giudici di merito, ed in una prospettazione di versioni alternative
dei fatti per cui si procede e di censure di fatto, anche in relazione
al trattamento sanzionatorio ed al mancato riconoscimento delle
circostanze attenuanti generiche (profilo, quest’ultimo, per il quale
si rimanda alle osservazioni già svolte esaminando la posizione
dell’Altomonte, rilevando come in questo caso la valutazione della
corte territoriale si fondi anche sulla non incensuratezza del

112

quale per escludere che la sua presenza nel cantiere della ditta

prevenuto), che, come si è detto, non sono ammissibili in sede di

Anche in questo caso, peraltro, la corte territoriale con
motivazione approfondita ed immune da vizi, delinea le modalità
di partecipazione dello Spanò Francesco al sodalizio mafioso di cui
si discute, in quanto organicamente inserito nella cosca

partecipante agli accordi spartitori relativi ai lavori aventi ad
oggetto la variante della strada statale n. 106, proprio attraverso
Spanò Francesco ed il figlio Domenico, assunti in qualità di operai
dalla “Società Condotte”, che riuscivano anche ad ottenere la
stipula di un contratto di nolo “a freddo” con la ditta Clarà in
favore della società facente capo al suddetto Spanò Domenico.
Ed invero non può che concordarsi con il percorso motivazionale
seguito dai giudici di merito nel valorizzare, al fine di ritenere il
ricorrente uno dei componenti della compagine criminosa di cui si
discute, non solo e non tanto l’intervenuto arresto dello Spanò per
violazione delle prescrizioni relative alla misura di prevenzione
della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, cui era stato
sottoposto, essendo stato ritenuto soggetto vicino alla cosca
Malsano, controllato più volte in compagnia del capo di sodalizio,
Malsano Giuseppe, quanto piuttosto il contenuto della
conversazione intercorsa tra Vadalà Carmelo, classe ’80, e Mauro
Domenico, intercettata il 20.10.2006.
In tale occasione il Vadalà Carmelo, si lamenta con il suo
interlocutore in relazione alle modalità con cui si era addivenuti
tra le varie cosche alla suddivisione dei lavori relativi agli appalti
pubblici più volte citati, sottolineando come l’accordo concluso
avesse penalizzato le imprese espressione delle cosche Vadalà-

113

“Malsano”, attiva tradizionalmente nel territorio di Palizzi,

Talia e Malsano (quest’ultima indicata con l’inequivoco termine di
“palizzitani”), a tutto vantaggio di quelle riconducibili alla cosca
dei Morabito di Africo.
A riprova di quanto affermato il Vadalà rivelava al Mauro che
Spanò Francesco non era riuscito ad imporre nella fase esecutiva
dei lavori un escavatore di tale “Ciccio Giordano”, per cui appare
criminoso avente ad oggetto la spartizione tra le varie cosche dei
menzionati lavori, ottenuti in virtù della forza di intimidazione
nascente dal vincolo associativo, obiettivo, la cui realizzazione,
pur non essendo necessaria, per le ragioni già esposte ai fini della
sussistenza né del reato associativo, né della circostanza
aggravante di cui all’art. 416 bis, co. 6, c.p., veniva comunque
assicurata dal prevenuto imponendo la sua assunzione e quella
del figlio alla “Società Condotte” e la stipula di un contratto di nolo
“a freddo” con la ditta darà.
La partecipazione dei “palizzitani” al menzionato accordo
criminoso, viene ribadita, come evidenziato dalla corte territoriale,
anche nella conversazione intercorsa sempre tra il Mauro ed il
Vadalà Carmelo, classe ’80, oggetto di captazione in data
13.6.2006, nonché in quella n. 2665, intercettata il 26.11.2006, in
cui il Mauro e lo Spanò affrontano temi relativi ai lavori in
questione ed alle modalità da seguire per consentire ai soggetti
espressione delle cosche di parteciparvi ed il Mauro, a
dimostrazione della fiducia che nutriva nel suo interlocutore, in
quanto immerso negli stessi riti che accomunavano le diverse
espressioni locali della “ndrangheta”, pur appartenendo ad una
diversa cosca (quella dei Vadalà) gli rivelava di avere proceduto

114

evidente come lo Spanò Francesco abbia aderito all’accordo

alla affiliazione di due nuovi “camorristi” (cfr. pp. 328-335
dell’impugnata sentenza).
In questo contesto l’avvenuta assoluzione del Malsano Giuseppe
pronunciata dalla corte territoriale non assume alcun rilievo al fine
di incrinare il quadro accusatorio.
Il Maisano, infatti, condannato in via definitiva proprio per il

delitto di cui all’art. 416 bis, c.p., nell’ambito di altro
procedimento, è stato assolto esclusivamente perché i giudici di
secondo grado hanno ritenuto che non fosse stato dimostrato che
egli dal carcere in cui era ristretto nel periodo preso in
considerazione dalle indagini che hanno dato vita al presente
processo, si fosse adoperato per consentire a soggetti riconducibili
alla sua cosca di inserirsi nei lavori innanzi indicati.
Può, dunque, affermarsi alla luce dei principi di diritto in
precedenza indicati, che anche lo Spanò Francesco deve
considerarsi uno dei partecipi dell’associazione di stampo mafioso
di cui si discute, in quanto egli ha messo consapevolmente la sua
persona a completa disposizione del sodalizio criminoso di
appartenenza, per consentire il raggiungimento, con metodo
mafioso, degli obiettivi della compagine associativa, consistenti
nella infiltrazione da parte di singoli esponenti del sodalizio, come
lo stesso ricorrente, e delle imprese mafiose nei lavori oggetto
degli appalti più volte indicati.

MORABITO BRUNO eccepisce la inutilizzabilità delle conversazioni
oggetto delle intercettazioni poste a fondamento della sentenza di
condanna, per assoluta mancanza di motivazione dei decreti
autorizzativi di proroga in relazione al doppio requisito della

115

/f

,

insufficienza ovvero della inidoneità degli impianti installati presso
l’ufficio della procura della repubblica procedente e delle
eccezionali ragioni di urgenza, nonché per violazione della
mancata verbalizzazione delle operazioni di intercettazione.
Lamenta inoltre la mancanza di riscontri al contenuto accusatorio
delle conversazioni intercettate e la mancanza di motivazione
idonei a provare che il Morabito abbia partecipato al sodalizio di
cui si discute in qualità di promotore, fornendo al medesimo un
contributo di qualsivoglia natura causalmente rilevante; rileva,
inoltre, la contraddittorietà della motivazione della sentenza
impugnata nella parte in cui la corte territoriale, pur riconoscendo
al Morabito Giuseppe di continuare a ricoprire il ruolo di capocosca
all’interno del carcere in cui si trova ristretto, attribuisce al tempo
stesso al Morabito Bruno di averne preso il posto proprio in
seguito all’intervenuto arresto del cugino.
Evidenzia, inoltre, il ricorrente come il Morabito Bruno non risulta
destinatario delle sentenze passate in giudicato che hanno
attestato l’esistenza del clan Morabito, né risulta coinvolto
personalmente nella esecuzione dei lavori relativi agli appalti di cui
si discute.
Contesta, infine, la mancata concessione in suo favore delle
circostanze attenuanti generiche e la condanna ad una pena
contenuta nei limiti edittali.
Tanto premesso va innanzitutto rilevata la inammissibilità dei
motivi di ricorso relativi alle intercettazioni disposte dall’autorità
giudiziaria, perché generici, alla luce delle considerazioni svolte
nelle pagine relative alla posizione del Catroppa Dante, alle quali,
sul punto, si rimanda, così come si rimanda a quanto già

116

della sentenza impugnata in ordine alla sussistenza di elementi

osservato esaminando la posizione dell’Altomonte Sebastiano in
ordine alla infondatezza della tesi difensiva circa la necessità di
riscontri estrinseci alle dichiarazioni auto ed eteroaccusatorie
contenute nelle conversazioni oggetto dei servizi di intercettazione
disposti dal giudice procedente.
In relazione, poi, ai motivi volti ad escludere la partecipazione del
considerarsi inammissibili, risolvendosi nella mera riproposizione
di rilievi sollevati in sede di appello, già disattesi dai giudici di
merito, ed in una prospettazione di versioni alternative dei fatti
per cui si procede e di censure di fatto, anche in relazione al
trattamento sanzionatorio ed al mancato riconoscimento delle
circostanze attenuanti generiche (profilo, quest’ultimo, per il quale
si rimanda alle osservazioni già svolte esaminando la posizione
dell’Altomonte, rilevando come in questo caso la valutazione della
corte territoriale si fondi anche sulla non incensuratezza del
ricorrente), che, come si è detto, non sono ammissibili in sede di
legittimità.
Nel percorso motivazionale seguito dai giudici di merito,
attraverso un esame approfondito ed immune da vizi della sua
posizione, la figura del Morabito Bruno, si staglia in assoluta
nitidezza come soggetto collocato in posizione apicale all’interno
della cosca Morabito-Bruzzaniti-Palamara di Africo, di cui regge le
sorti in un momento particolarmente delicato per la vita del
sodalizio, a causa dell’arresto degli altri esponenti di vertice, il
cugino Morabito Giuseppe, “u tiradrittu”, ed il genero di
quest’ultimo Pansera Giuseppe, rappresentando, al tempo stesso,
un punto di riferimento imprescindibile per gli esponenti delle altre
cosche che con lui operano in stretta e costante collaborazione

117

Morabito Bruno al sodalizio mafioso di cui si discute, essi devono

per assicurare il soddisfacimento dei comuni interessi criminosi
(cfr. pp. 274-293 dell’impugnata sentenza).
Allo scopo di non appesantire ulteriormente l’apparato
motivazionale della presente decisione, appare opportuno, al
riguardo, rimandare alle considerazioni già svolte sull’importanza
della cosca Morabito e del ruolo egemone da essa svolta, proprio

attraverso il Morabito Bruno, nella spartizione dei lavori relativi
agli appalti pubblici di cui si è già detto, nella parte introduttiva ed
affrontando le posizioni di Altomonte Sebastiano, di Morello
Leone, di Vadalà Antonino, di Vadalà Carmelo, classe ’80, di
Vadalà Domenico, di Vadalà Carmelo, classe ’82, di Morabito
Domenico, di D’Aguì Terenzio Antonio, di Stilo Costantino, di
Carrozza Vincenzo.
Anche in questo caso, dunque, può ritenersi, alla luce dei principi
di diritto in precedenza affermati, che il Morabito Bruno deve
considerarsi uno dei partecipi dell’associazione di stampo mafioso
di cui si discute, in quanto egli ha messo la sua persona
consapevolmente a completa disposizione del sodalizio criminoso,
collocandosi in posizione di vertice all’interno della cosca
Morabito-Bruzzaniti-Palamara.
Proprio in considerazione di tale posizione del tutto correttamente
i giudici di merito hanno ritenuto di potere configurare a suo
carico il ruolo di promotore, dirigente ed organizzatore posto che
egli ha agito sia per rafforzare la potenzialità pericolosa del
gruppo associativo, assicurandone il predominio sul territorio di
rispettiva “competenza” ed accrescendone la capacità operativa
attraverso l’accordo con gli altri locali della “ndrangheta” reggina,
sia per sovraintenderne l’attività complessiva, assumendo funzioni
decisionali.

118

TALIA GIOVANNI Contesta sotto il profilo del vizio di cui all’art.
606, co. 1, lett. b), c.p.p., in relazione all’art. 416 bis, c.p., la
mancata dimostrazione dell’esistenza di un’associazione a
delinquere di stampo camorristico facente capo a Talia Giovanni,

tal senso, anzi ve ne sono di segno opposto (sentenze di
assoluzione anche degli unici soggetti riferibili al Talia, i fratelli
Dieni; ); né vi è prova della partecipazione dell’imputato (che si
badi bene è detenuto dal luglio del 2004 ininterrottamente) a tale
sodalizio ovvero alla struttura denominata “base”, non essendo
stato individuato alcun contributo causale da quest’ultimo
apportato al menzionato sodalizio finalizzato alla spartizione degli
appalti per la esecuzione dei lavori sulla strada statale 106,
eseguiti da imprese che in alcun modo risultano riconducibili al
Talia; inoltre, rileva il ricorrente, dal contenuto della
conversazione oggetto di captazione tra il Nucera ed il Mauro si
evince l’estraneità del Talia al sodalizio, in quanto il Mauro nel
delineare l’organigramma della base esclude che ne faccia parte il
Talia
Infine l’imputato sottolinea l’intervenuta assoluzione di Modafferi
Saverio e di Maisano Giuseppe nei confronti dei quali l’accusa
presenta le stesse criticità del Talia e l’ assoluta mancanza di
motivazione sulla prova dell’elemento soggettivo.
Con motivi nuovi depositati il 29.5.2012 a firma dell’avv. Roberto
Rampioni, vengono reiterate ed arricchite le argomentazioni già
svolte in sede di ricorso, eccependo il difensore, in particolare
,non solo il vizio di cui all’art. 606, co. 1, lett. b), c.p.p.,

119

non essendo stati acquisiti provvedimenti giudiziari irrevocabili in

in relazione agli artt. 416 bis, c.p., 125, co. 3 e 546, c.p.p., ma
anche la mancanza di una reale motivazione ovvero la manifesta
illogicità e la contraddittorietà della motivazione della sentenza
impugnata.
Orbene anche in questo caso i motivi di ricorso si collocano sul
crinale della inammissibilità, risolvendosi nella mera riproposizione

merito, ed in una prospettazione di versioni alternative dei fatti
per cui si procede e di censure di fatto, che, come si è detto, non
sono ammissibili in sede di legittimità.
Non può non rilevarsi al riguardo che, sulla base delle
considerazioni, alla cui lettura si rimanda, svolte sia nella parte
introduttiva della presente motivazione, sia esaminando la
posizione dei singoli ricorrenti, appare assolutamente pacifica la
dimostrazione dell’intervenuto accordo tra le cosche della
“ndrangheta” calabrese per la spartizione dei lavori oggetto degli
appalti pubblici più volte menzionati, aggiudicati proprio sulla base
della forza di intimidazione promanante dal vincolo associativo.
Si tratta, dunque, di verificare se il Talia, in quanto espressione
dell’omonima “famiglia mafiosa” sia da ritenere partecipe a tale
accordo ed a tale quesito la corte territoriale, al pari del giudice di
primo grado, ha fornito una risposta positiva, seguendo un
articolato percorso argomentativo, nel corso del quale ha
evidenziato come le sentenze di merito passate in giudicato che
hanno mandato assolto il Talia dal reato di cui all’art. 416 bis non
assumono valore decisivo per escludere la sussistenza
dell’omonima cosca, non solo perché nella sentenza del tribunale
di Reggio Calabria si dà comunque atto di rapporti tra le famiglie
Vadalà e Talia aventi ad oggetto la spartizione dei proventi

120

di rilievi sollevati in sede di appello, già disattesi dai giudici di

derivanti dalla esecuzione dei lavori relativi ad una variante della
strada statale n. 106, mentre in quella pronunciata dalla Corte di
Assise di Appello riguardava il diverso tema della appartenenza
dell’imputato alla diversa cosca Iamonte (cfr. p. 243 e 244
dell’impugnata sentenza), ma, soprattutto, perché l’esistenza di
un accordo spartitorio tra i due gruppi criminali per il

conseguimento degli scopi tipici di un sodalizio mafioso in
precedenza indicati, si ricava in tutta evidenza dal contenuto delle
conversazioni intercettate, che la corte territoriale puntualmente
indica, facendone oggetto di valutazione approfondita ed esente
da vizi logici, nella parte della motivazione dedicata al suddetto
Talia(cfr., in particolare, pp. 244-252 dell’impugnata sentenza).
In questo contesto la partecipazione del ricorrente al menzionato
accordo, nonché alla decisione di creare un organismo di
coordinamento tra i due gruppi, nonostante il suo stato detentivo,
ed il controllo che manteneva sulla compagine, facendo pervenire
messaggi contenti le sue direttive all’esterno del carcere
messaggi, emergono con assoluta evidenza dalle osservazioni già
svolte esaminando i ricorsi dei coimputati Morello Leone, Vadalà
Antonino, Vadalà Carmelo, classe ’80, Vadalà Domenico, D’Aguì
Francesco, D’Aguì Terenzio Antonio e da quelle che si svolgeranno
affrontando la posizione di Cilione Pietro, il che consente di
affermare la sussistenza della cosca facente capo al Talia,
operante con le modalità e per i fini tipici delle associazioni
mafiose.
Per quanto riguarda, poi, l’irrilevanza della mancata dimostrazione
dell’inserimento del ricorrente nell’organico della “base”, si
rimanda alle considerazioni già svolte per la posizione del Vadalà
Carmelo, classe ’80, inserimento che, peraltro, appariva superfluo

121

//

in considerazione, da un lato del ruolo di coordinamento “sul
campo” svolto da tale organo, dall’altro, al pari di Vadalà
Domenico, dall’indiscusso ruolo di direzione svolto dal Talia, che
non richiedeva necessariamente un suo inserimento nella “base”.
Anche in questo caso, dunque, può ritenersi, alla luce dei principi
di diritto in precedenza affermati, che il Talia Giovanni deve

di cui si discute, in quanto egli ha messo la sua persona
consapevolmente a completa disposizione del sodalizio criminoso,
collocandosi in posizione di vertice all’interno della cosca VadalàTalia.
Proprio in considerazione di tale posizione del tutto correttamente
i giudici di merito hanno ritenuto di potere configurare a suo
carico il ruolo di promotore, dirigente ed organizzatore posto che
egli ha agito sia per rafforzare la potenzialità pericolosa del
gruppo associativo, assicurandone il predominio sul territorio di
rispettiva “competenza” ed accrescendone la capacità operativa
attraverso l’accordo con gli altri locali della “ndrangheta” reggina,
sia per sovraintenderne l’attività complessiva, assumendo funzioni
decisionali.

Le posizioni degli imputati CILIONE PIETRO, CILIONE FRANCESCO
E TUSCANO CARMELO vanno affrontate unitariamente, avendo
essi presentato un unico ricorso, con motivi in parte in comune, a
firma del loro difensore, avv. Giuseppe Putorti.
I ricorrenti eccepiscono il vizio di cui all’art. 606, co. 1, lett. e),
c.p.p., in relazione all’art. 192, co. 2, c.p.p. ed agli artt. 110 e
416, c.p., 606 co. 1 lett. e), in quanto per nessuno di loro può
dirsi raggiunta la prova della esistenza dei requisiti richiesti dalla

122

considerarsi uno dei partecipi dell’associazione di stampo mafioso

giurisprudenza di legittimità per poterne affermare la
partecipazione ad un’associazione a delinquere di stampo mafioso.
Con particolare riferimento alla posizione del Tuscano, il difensore
contesta l’identificazione dello stesso nel “Melo” di cui si parla
nelle conversazioni intercettate il cui contenuto è stato utilizzato
per fondare l’affermazione di responsabilità nei suoi confronti;
lavoro tra il suo assistito ed il Vadalà Carmelo, classe ’80, che
invece risulta realmente instaurato alla luce del contenuto della
conversazione n. 4799 del 21.9.2007, nel corso della quale il
Tuscano reclama il pagamento degli arretrati.
In ordine alla posizione del Cilione Pietro, il difensore, invece,
contesta l’identificazione dell’imputato nelle conversazioni
intercettate in cui quest’ultimo compare personalmente, in quanto
tale identificazione si basa esclusivamente sul riconoscimento
vocale operato dalla p.g. procedente, che può valere solo come
indizio e non come prova e sulla relativa eccezione non vi è stata
risposta da parte della corte territoriale; lo stesso dicasi, ad
avviso del ricorrente, per quel che riguarda il ruolo di partecipe in
qualità di organizzatore al sodalizio, desunto unicamente ed
inammissibilmente dalle conversazioni intercettate, da sole
inadeguate a fungere da prova ed il cui contenuto non consente di
attribuire alcun ruolo al Cilione Pietro.
Identiche censure, infine, vengono svolte dal difensore per il
Cilione Francesco, ivi compresa quella sulla identificazione da
ritenersi dubbia, in quanto effettuata sempre attraverso il metodo
del riconoscimento auditivo personale.
Infine i ricorrenti deducono la violazione dell’art. 606, c.p.p., in
relazione agli artt. 133 e 62 bis, c.p., censurando la motivazione

123

contesta; inoltre, anche il ritenuto carattere fittizio del rapporto di

della corte territoriale, sotto il profilo che la giovane età del Cilione
Francesco, la mancanza di precedenti e di pendenze penali a loro
carico, il ruolo marginale svolto nel sodalizio dal Tuscano,
impongono la concessione delle circostanze attenuanti generiche
da applicare su di una pena base determinata in misura pari al
minimo edittale.
aggiunti, con cui reiteravano le doglianze sulla eccessiva asprezza
del trattamento sanzionatorio, evidenziando, in particolare, come,
nel rideterminare la pena nei confronti di Cilione Francesco e di
Tuscano Carmelo, ritenuti semplici partecipi del sodalizio
criminoso di cui all’art. 416 bis, c.p., la corte territoriale, pur
ritenendo nel caso in esame non applicabile la disciplina della I. 24
luglio 2008, n. 125, in considerazione del periodo di permanenza
del delitto associativo, contestato dall’aprile del 2006 al 9 giugno
del 2008, erroneamente fosse partita dalla pena base di sette
anni di reclusione, superiore al massimo edittale fissato dalla
disciplina previgente.
Contraddittoria, inoltre, appare la motivazione della sentenza
impugnata laddove, pur riconoscendo al Cilione Pietro un ruolo di
“minore spessore” all’interno della compagine associativa, ha
rideterminato la pena nei suoi confronti partendo da nove anni di
reclusione, vale a dire dal massimo edittale previsto dall’art. 416
bis, c.p., per i promotori, dirigenti ed organizzatori prima della
modifica intervenuta con la citata I. 24 luglio 2008, n. 125.
Tanto premesso occorre differenziare, ai fini della decisione, le
posizioni dei ricorrenti.
Non appare revocabile in dubbio, infatti, che i motivi posti a
fondamento del ricorso presentato nell’interesse del Cilione

124

In data 26.9.2012, infine, i ricorrenti depositavano motivi

Francesco e del alione Pietro, in ordine alle doglianze sulla
mancata dimostrazione della partecipazione dei Cilione
all’associazione a delinquere di stampo mafioso di cui si discute,
siano inammissibili, per genericità, perché attinenti al merito e
perché meramente ripetitivi di quanto prospettato nell’atto di
appello, nonché infondati con riferimento alla censura riguardante

per identificare gli imputati.
A tale ultimo proposito si sottolinea, infatti, come, secondo un
orientamento giurisprudenziale assolutamente dominante in sede
di legittimità, condiviso da questo Collegio, in tema di
intercettazioni telefoniche, ai fini della identificazione delle
persone colloquianti, il giudice può trarre il proprio convincimento
anche tenendo conto del riconoscimento della voce da parte del
personale di polizia giudiziaria (cfr. Cass., sez. VI, 28/02/2012, n.
18453, C. e altro, rv. 252712; Cass., sez. IV, 19/12/2008, n.
15264, L. e altro; Cass., sez. VI, 08/01/2008, n. 17619, G. e
altro, rv 239725).
Anche in questo caso la corte territoriale, con motivazione
approfondita ed immune da vizi, evidenzia come la partecipazione
del Cilione Pietro sia inequivocabilmente dimostrata da una serie
di elementi dall’indubbio valore sintomatico ed, in particolare:
dalla circostanza che nel corso della conversazione, intercettata il
27 novembre 2007, Modaffari Leone riferisce ad Altomonte
Sebastiano che al Cilione Pietro è stata attribuita la carica di “capo
giovani”, senza nemmeno attendere la celebrazione dei funerali
del figlio dello stesso Modaffari, che aveva preceduto il Cilione nel
medesimo incarico, iniziativa che aveva amareggiato il Modaffari,
in considerazione del rispetto di cui era stato fatto oggetto sino a

125

il criterio del riconoscimento vocale seguito dalla corte di appello

quel momento da tutti i “locali” della Locride; dalla appartenenza
del Cilione Pietro alla cosiddetta “base”, di cui egli, come si evince
dal contenuto della già richiamata conversazione n. 890,
intercettata il 151.2006, veniva indicato dal Mauro Domenico al
Nucera Giuseppe come uno dei componenti; da una serie di
conversazioni intercettate, che hanno per protagonista il suddetto

componenti del sodalizio come Mauro Domenico, affronta
questioni di estrema rilevanza per la vita dell’associazione, sia in
tema di affiliazioni di nuovi sodali e di ricerca di nuove leve da far
subentrare al posto di altri, alle quali egli partecipa direttamente,
sia a proposito del “pestaggio” del cittadino rumeno, episodio già
esaminato trattando la posizione di Vadalà Antonino, al quale il
Cilione attribuisce il ruolo di avere autorizzato la spedizione
punitiva eseguita dal figlio Vadalà Carmelo, classe ’82, e da altri
soggetti; dalla circostanza che, sempre conversando con il Mauro,
il Cilione dimostra di avere contezza dell’avvenuto accordo tra i
Tana ed i Vadalà, finalizzato alla spartizione dei proventi derivanti
dalle attività illecite e dell’importante ruolo di “mastro di giornata”
svolto all’interno del sodalizio da Catroppa Dante, di tale rilevo
che, a suo dire, nemmeno il “capo società” può assumerlo,
dimostrando ancora una volta una perfetta conoscenza delle
vicende della compagine criminosa che poteva derivargli solo dal
suo stabile inserimento in essa in posizione di responsabilità; dal
suo diretto intervento nel proporre a Catroppa Dante, al quale era
stato attribuito il compito di procedere a nuove affiliazioni, quella
di Verduci Domenico, come si evince dal contenuto della
conversazione n. 1850 tra Mauro Domenico e Vadalà Carmelo,
classe ’80, intercettata il 21.7.2006; dal contenuto della

126

Cilione Pietro, in cui quest’ultimo, interloquendo con altri

conversazione n. 11863, intercorsa tra Altomonte Sebastiano,
Modaffari Leone e Morello Leone, intercettata il 27.11.2007, in cui
questi ultimi manifestano la loro delusione per le capacità del
Cilione Pietro (cfr. pp. 40; 145-153 dell’impugnata sentenza).
Appare, dunque, evidente, che il Cilione Pietro deve considerarsi
uno dei partecipi dell’associazione di stampo mafioso di cui si

la posizione dell’Altomonte, in quanto egli ha messo
consapevolmente la sua persona a completa disposizione del
sodalizio criminoso, collocandosi al vertice del raggruppamento
formato dalle cosche Vadalà e Talia, in quanto “capo giovani” e
componente della struttura decisionale segreta denominata
“base”, con compiti di “selezione” delle nuove leve della
compagine criminale.
Proprio in considerazione di tale specifica funzione, connessa alla
sua carica di “capo giovani” del tutto correttamente i giudici di
merito hanno ritenuto di potere configurare a suo carico il ruolo di
dirigente ed organizzatore del sodalizio in parola, posto che egli
ha agito esercitando funzioni decisionali, quale componente della
“base” e provocando ulteriori adesioni al gruppo già costituito (cfr.
Cass., sez. VI, 10.5.1994, Nannerini).
Identiche considerazioni valgono per Cilione Francesco,
identificato nel “Ciccio” delle conversazioni intercettate, dalle quali
risulta che il ricorrente opera alle strette dipendenze del Vadalà
Antonino, del quale esegue gli ordini, assicurando, tra l’altro, in
funzione di autista o di accompagnatore, insieme con il Nucera
Pasquale, gli incontri tra Vadalà Antonino, Altomonte Sebastiano e
Morabito Bruno.

127

discute, secondo i principi in precedenza evidenziati esaminando

Il Cilione Francesco, inoltre, appare in stretto contatto con Vadalà
Carmelo, classe’80, il quale, peraltro, in una conversazione di
notevole importanza anche al fine di dimostrare l’esistenza
dell’associazione a delinquere di stampo mafioso per cui si
procede, nel corso della quale quest’ultimo e Mauro Domenico, nel
discutere sulle diverse modalità con cui la “ndrangheta” operava
anche a Bova Marina, al pari di quanto avveniva nel territorio dei
menzionati comuni, al fine di realizzare maggiori introiti, potevano
essere utilizzate le nuove leve della cosca Vadalà per imporre “il
pizzo” agli esercizi pubblici, passava in rassegna con il suo
interlocutore i nomi degli affiliati dotati di maggiore “capacità
criminale” cui affidare l’esecuzione dell’attività estorsiva, tra i quali
il Mauro inseriva “Ciccio”, cioè Cilione Francesco.
A ciò va aggiunto un ulteriore elemento già evidenziato trattando
delle posizioni del Morabito Domenico e del Carrozza Vincenzo,
alle quali, sul punto, si rimanda, relativo al rapporto di parentela
che lega il ricorrente al padre Cilione Pietro, esponente di rilievo
della cosca Vadalà-Talia.
Inammissibili, infine, sono i motivi di ricorso sul trattamento
sanzionatorio, innanzitutto perché generici ed attinenti a censure
sul merito della valutazione in ordine alla entità della pena
irrogata, dovendosi, peraltro, evidenziare come i giudici dì primo e
di secondo grado abbiano tenuto correttamente conto della
gravità dei fatti e della spiccata tendenza a delinquere del Ciriello
Francesco e del Ciriello Pietro, per negare il riconoscimento in loro
favore delle circostanze attenuanti generiche (si rimanda, sul
punto, alle considerazioni già svolte trattando la posizione
dell’Altomonte).

128

nei comuni di San Luca, Africo e Roghudi, si interrogavano se

Evidente, poi, l’errore in cui è incorso il difensore nelle doglianze
prospettate nei motivi aggiunti, in quanto egli non ha tenuto conto
che, prima dell’intervento riformatore disposto con il d.l. 23
maggio 2008, n. 92, convertito con modificazioni nella I. 24 luglio
2008, n. 125, il contenuto sanzionatorio dell’art. 416 bis, co. 1 e
co. 2, era già stato modificato dall’art. 1, co. 2, lett. a), I. 5
partecipi all’associazione a delinquere di stampo mafioso alla pena
della reclusione dai cinque ai dieci anni (co. 1) e dall’art. 1, co. 2,
lett. b), I. 5 dicembre 2005, n. 251, che aveva previsto per i
promotori, i dirigenti e gli organizzatori la pena della reclusione
dai sette ai dodici anni (co. 2).
Appare, dunque, evidente che, nel rideterminare la pena a carico
dei ricorrenti la corte territoriale si è mossa entro i limiti della
disciplina sanzionatoria applicabile al caso concreto, quella
prevista dalla I. 5 dicembre 2005, n. 251, mantenendosi al di
sotto del massimo edittale ed al di sopra del minimo edittale, per
cui i motivi di ricorso, sul punto, vanno disattesi, in quanto
infondati.
A conclusioni diverse deve pervenirsi in ordine alla ritenuta
partecipazione del Tuscano Carmelo all’associazione a delinquere
di stampo mafioso di cui si tratta.
In questo caso, infatti, la motivazione della corte territoriale
appare contraddittoria e, comunque, carente sotto diversi profili.
Innanzitutto appare incerta l’identificazione, operata dai giudici
merito, nel ricorrente della persona indicata con il soprannome di
“Melo”, che unitamente al cugino “Mario”, avrebbe dovuto essere
affiliato nel periodo di settembre-ottobre del 2006, come si evince
dal contenuto di una serie di conversazioni intercettate in diverse

129

dicembre 2005, n. 251, che aveva assoggettato i semplici

occasioni tra Mauro Domenico, Modaffari Leone, Cilione Pietro,
Catroppa Dante, Vadalà Carmelo, classe ’80 (cfr. pp. 234-236
dell’impugnata sentenza)
Al riguardo si osserva che la stessa corte territoriale, con
motivazione contraddittoria, ritiene che non abbia rilievo a tal fine
la circostanza, evidentemente acclarata, che il ricorrente non
poteva ben trattarsi di un lontano parente dell’imputato o magari

di un soggetto che i conversanti ritenevano anche erroneamente
che fosse legato all’imputato da vincoli di parentela” (cfr. p. 235
della sentenza impugnata), trattandosi di una semplice
supposizione che si risolve in un’affermazione meramente
apodittica.
Va, inoltre segnalato, che il Tuscano Carmelo, per stessa
ammissione della corte territoriale, è il cugino di Vadalà
Domenico, vale a dire del capo riconosciuto della cosca Vadalà,
per cui appare singolare che di tale circostanza non faccia
riferimento nessuno dei conversanti e nemmeno il Vadalà
Carmelo, classe ’80, che dava il suo beneplacito all’affiliazione del
“Melo e del Mario”.
In presenza di tali incoerenze ed incertezze, la circostanza che il
Tuscano non abbia negato, in sede di interrogatorio di garanzia,
che il soprannome “Curatola” sia a lui riferibile (il Mauro, infatti,
rivela che uno dei cugini da “battezzare” si chiama Carmelo
Curatola) non appare decisivo per potere affermare con assoluta
certezza che per Carmelo Curatola si debba intendere
necessariamente Tuscano Carmelo.
Quanto all’ipotesi accusatoria, condivisa dalla corte territoriale,
secondo cui il Tuscano, in veste di presidente della società

130

abbia “né cugini, né fratelli di nome Mario”, evidenziando “che

cooperativa “Bovese Multiservices” curasse per conto della cosca
Vadalà il settore dello smaltimento dei rifiuti, essa si fonda
sull’assunto che tale società, a partire dal 2004, aveva conosciuto
una improvvisa crescita della sua posizione sul mercato, che “ha
avuto inizio con l’aggiudicazione della gara di appalto per la

proseguita con la pulizia del litorale e la manutenzione della
caldaie, spogliatoi e prato del campo sportivo, per poi giungere al
culmine con l’aggiudicazione della gara di appalto per la raccolta e
smaltimento dei rifiuti solidi urbani”, che, inspiegabilmente, nel
2005 le veniva nuovamente affidato senza indire la relativa gara.
Indizi del controllo di tale ente societario da parte della cosca
Vadalà vengono individuati dalla corte territoriale anche nelle
circostanze che tra i soci vi era un componente del sodalizio
criminoso come Cilione Francesco; che il Vadalà Carmelo, classe
’80, risultava sì assunto dalla cooperativa, ma, ritenevano i giudici
di merito, solo formalmente, allo scopo di evitare di essere colpito
dalla misura della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza,
dimostrando di svolgere un’attività lavorativa; che a ricoprire
l’incarico di presidente della commissione di gara per l’affidamento
dell’appalto era stato Orlando Salvatore Mario, socio della
cooperativa e cognato di Catroppa Dante, altro componente del
sodalizio criminoso.
Tuttavia, a prescindere dalla rilevanza di tali elementi, piuttosto
evanescenti a dire il vero al fine di ritenere dimostrato che la
“Bovese Multiservices” sia stata attratta nell’orbita criminale della
cosca Vadalà, non può tacersi che nulla argomenta la sentenza né
sul concreto contributo che il Tuscano avrebbe fornito al sodalizio
in questione per il raggiungimento dei suoi fini, né, sotto il profilo

131

manutenzione delle elettropompe, rete idrica e fognaria, è

soggettivo, sulla specifica consapevolezza di agire nell’interesse
della cosca di appartenenza, di talché la pronuncia di
responsabilità nei suoi confronti sembra fondarsi esclusivamente
su dati di fatto – il suo ruolo di presidente della cooperativa ed il
rapporto di parentela che lo lega a Vadalà Domenica – da soli
insufficienti a dimostrare il suo stabile e consapevole inserimento

Va

infine

evidenziata

un’altra

rilevante

contraddizione

nell’apparato motivazionale, in quanto se si identifica, come
preteso dalla corte territoriale, il ricorrente nel Carmelo Curatala
di cui era prevista l’affiliazione nell’ottobre-novembre del 2006,
non può non notarsi che quest’ultimo, come rivelato dal Mauro
Domenica nel corso della conversazione intercettata il 5.10.2006,
unitamente al cugino “Mario”, sino al momento dell’affiliazione,
quindi sino al 2006, si era mantenuto lontano dall’associazione,
laddove il controllo da parte della cosca Vadalà della “Bovese
Multiservices” viene fatto risalire dai giudici di merito agli anni
2004-2005.
Sulla base delle svolte considerazioni, pertanto, la sentenza
impugnata deve essere annullata limitatamente alla posizione del
Tuscano Carmelo, con rinvio per nuovo esame alla Corte di
Appello di Messina, che provvederà a colmare, ove possibile, le
lacune motivazionali evidenziate, alla luce dei principi di diritto
innanzi affermati.
Sulla base delle svolte considerazioni, dunque, i ricorsi presentati
nell’interesse dei ricorrenti, ad eccezione di quelli di Taormina
Antonino, Mauro Mario Domenica e Tuscano Carmelo, vanno
rigettati, con condanna dei ricorrenti al pagamento, ciascuno,
delle spese processuali, nonché, in solido, ivi compreso il Mauro il

132

all’interno della compagine mafiosa.

cui ricorso è stato dichiarato inammissibile, delle spese di giudizio
in favore delle costituite pareti civili, che liquida per ciascuna di
esse in euro 3000,00, oltre accessori come per legge.
P.Q.M.
Annulla l’impugnata sentenza senza rinvio nei confronti di
Taormina Antonino, per essere il reato estinto per morte

Messina, nei confronti di Tuscano Carmelo.
Rigetta i ricorsi proposti nell’interesse di: 1) ALTOMONTE
Sebastiano; 2) MORELLO Leone; 3) VADALA’ Antonino; 4)
VADALA’ Domenico; 5) VADALA’ Carmelo, cl. ’80; 6) D’AGUI’
Francesco; 7) VADALA’ Carmelo, cl. ’82; 8) TALIA Giovanni; 9)
MODAFFARI Leone; 10) CILIONE Pietro; 11) CILIONE Francesco;
12) MORABITO Bruno; 13) D’AGUI’ Terenzio Antonio; 14)
CATROPPA Dante; 15) STILO Costantino; 16) MORABITO
Domenico; 17) CARROZZA Vincenzo; 18) SPANO’ Francesco.
Dichiara inammissibile il ricorso presentato nell’interesse di
MAURO Mario Domenico, che condanna al pagamento delle spese
del procedimento ed a versare, in favore della cassa delle
ammende, la somma di euro mille.
Condanna i ricorrenti i cui ricorsi sono stati rigettati e dichiarati
inammissibili, ciascuno al pagamento delle spese processuali e, in
solido, delle spese per questo grado di giudizio in favore delle
costituite parti civili Regione Calabria, Amministrazione Provinciale
di Reggio Calabria, Comune di Africo, Comune di Palizzi e Comune
di Bova Marina, che liquida per ciascuna di esse in euro tremila,
oltre accessori come per legge.
Così deciso in Roma il 22.11.2012

dell’imputato e, con rinvio per nuovo esame alla corte di appello di

Sostieni LaLeggepertutti.it

La pandemia ha colpito duramente anche il settore giornalistico. La pubblicità, di cui si nutre l’informazione online, è in forte calo, con perdite di oltre il 70%. Ma, a differenza degli altri comparti, i giornali online non ricevuto alcun sostegno da parte dello Stato. Per salvare l'informazione libera e gratuita, ti chiediamo un sostegno, una piccola donazione che ci consenta di mantenere in vita il nostro giornale. Questo ci permetterà di esistere anche dopo la pandemia, per offrirti un servizio sempre aggiornato e professionale. Diventa sostenitore clicca qui

LEGGI ANCHE



NEWSLETTER

Iscriviti per rimanere sempre informato e aggiornato.

CERCA CODICI ANNOTATI

CERCA SENTENZA