Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 18421 del 20/03/2013


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Penale Sent. Sez. 1 Num. 18421 Anno 2013
Presidente: CHIEFFI SEVERO
Relatore: CHIEFFI SEVERO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
PRESTIGIACOMO FRANCESCO N. IL 13/10/1950
avverso l’ordinanza n. 9614/2010 GIUD. SORVEGLIANZA di
PALERMO, del 11/06/2012
sentita la relazione fatta dal ClWrigrbDott. SEVERO CHIEFFI;
lette/sentite le conclusioni del PG Dott. vì

c 4;94

Uditi difensor Avv.;

“ra

Data Udienza: 20/03/2013

RITENUTO IN FATTO

Con ordinanza in data 11/06/2012 il Magistrato di sorveglianza di Palermo
ha dichiarato inammissibile l’istanza avanzata da Prestigiacomo Francesco diretta
ad ottenere l’applicazione del beneficio della remissione del debito, ai sensi
dell’art. 6 d.P.R. n.115 del 2002, in relazione alle spese processuali poste a
carico del predetto, intervenuto nella qualità di terzo interessato nel
procedimento di prevenzione svoltosi nei confronti di Piazza Vincenzo.

Palermo in data 17.7.1996 era stata applicata al Piazza la misura di prevenzione
personale e quella patrimoniale della confisca di beni nella formale titolarità di
terzi, tra i quali il Prestigiacomo; b) che , a seguito di impugnazioni del proposto
e dei terzi interessati, la Corte di appello di Palermo, previa riunione dei vari
procedimenti, con decreto 03/03/2005, aveva confermato il decreto,
condannando gli appellanti, in solido tra loro, al pagamento delle spese
processuali (pari a euro 3.744.344,90), provvedimento divenuto
successivamente irrevocabile.
Ciò premesso il Magistrato di sorveglianza ha ritenuto che la nuova
formulazione contenuta nell’art. 6 d.P.R. n. 115 del 2002, che più genericamente
rispetto a quella dell’abrogato art. 56 Ord. Pen. usa il termine “interessato” e
non più quello di “condannato”, non autorizza a ritenere che chiunque sia incorso
in una condanna alle spese processuali pronunciata da un giudice in materia
penale possa accedere al beneficio della remissione del debito, atteso che la
norma di cui all’art. 6 citato ha dovuto tenere conto della pronuncia della Corte
costituzionale n. 342/1991 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della
precedente formulazione nella parte in cui non prevedeva che le spese del
procedimento potessero essere rimesse anche nel caso di condannato che non
avesse sofferto periodi di detenzione.
Inoltre il Magistrato ha rilevato che l’interpretazione della norma non può
non considerare le origini e la ratio dell’istituto della remissione del debito che,
unitamente alle finalità premiali, ha come obiettivo specifico quello di agevolare
il percorso di recupero sociale del soggetto che potrebbe essere compromesso,
con il rischio di ulteriori spinte criminogene, qualora, pur versando in condizioni
di disagio economico, dovesse essere chiamato ad adempiere al proprio debito
per le spese di giustizia.
Pertanto, ad avviso del Magistrato, la sfera di applicazione soggettiva
dell’istituto non può che restare rigorosamente circoscritta alle categorie dei
condannati ed internati.

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Il Magistrato ha premesso in fatto: a) che con decreto del Tribunale di

Avverso la predetta ordinanza ha proposto ricorso per cessazione il
difensore, il quale – dopo aver premesso che al Prestigiacomo, il quale si trovava
in disagiate condizioni economiche ed aveva sempre serbato regolare condotta,
era stata notificata dalla “Serit Sicilia s.p.a.” cartella esattoriale di pagamento
delle spese processuali per un importo di euro 3.744.344,00, lievitate ad oltre
4.000.000,00 – ne ha chiesto l’annullamento per violazione di legge e per
carenza e manifesta illogicità della motivazione.
In particolare con il primo motivo il difensore ha dedotto la violazione di
remissione del debito è stato integralmente riformato dal citato art. 6 con
espressa abrogazione dell’art. 56 Ord. Pen. che precedentemente lo disciplinava.
La nuova norma prevede testualmente che la remissione possa essere chiesta
dell’ “interessato” che non è stato “detenuto o internato”, riconoscendo, quindi,
la legittimazione a qualsiasi interessato con la finalità di allargare il principio di
premialità posto a fondamento dell’istituto. Diversamente non

si

comprenderebbe la ragione per la quale il legislatore ha ritenuto di sostituire il

termine “condannato” indicato nella precedente norma con quello di
“interessato”. D’altro canto, secondo il difensore, il ricorrente deve ritenersi
comunque “condannato”, tenuto conto che è stato condannato al pagamento
delle spese processuali. A sostegno della propria tesi il difensore ha richiamato
una decisione del Magistrato di sorveglianza di Siracusa, che con ordinanza
24/11/2011 ha ritenuto ammissibile la remissione del debito avanzata da
Mazzara Salvatore, coobligato unitamente al ricorrente.
Il difensore ha, altresì, dedotto sulla base delle medesime argomentazioni
che la interpretazione restrittiva affermata dal giudice di merito si pone in
contrasto con Il principio di cui all’art. 3 Cost., in quanto a parità di situazioni
verrebbero a stabilirsi trattamenti diversi tra chi è stato condannato al
pagamento delle spese processuali del giudizio penale senza essere destinatario
di sanzione penale e chi ha subito la medesima condanna alle spese essendo
stato ritenuto penalmente responsabile. Quindi, paradossalmente, chi ha
commesso un reato sarebbe maggiormente avvantaggiato rispetto ad un terzo
estraneo.
Con un secondo motivo il difensore ha dedotto la carenza e la manifesta
illogicità della motivazione sul rilievo che il giudice di merito non aveva
considerato che con la nuova formulazione introdotta con l’art. 6 d.P.R.
115/2002, che usa il termine “interessato” e non più quello di “condannato”, il
Legislatore aveva inteso estendere il beneficio della remissione del debito a tutti i
“condannati” al pagamento delle spese processuali in un processo penale e non
solo ai “detenuti” o agli “internati”.

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legge in relazione all’art. 6 co. 1 d.P.R. n. 115/2002 sul rilievo che l’istituto della

In data 20/02/2013 il difensore ha depositato memoria difensiva con la
quale, oltre a riportarsi ai precedenti motivi, cita precedenti decisioni di questa
Corte (del 7/2/2013) che hanno ritenuto ammissibile la richiesta di remissione
del debito avanzata dal terzo interessato intervenuto in un procedimento di
prevenzione.

CONSIDERATO IN DIRITTO

rigettato. Non sfugge a questo Collegio che con due precedenti decisioni (nn,
11054/13 e 11057/13, c.c. del 07/02/2013) questa stessa sezione ha ritenuto
ammissibile la richiesta di remissione del debito avanzata da un terzo interessato
nel procedimento di prevenzione, argomentando che la nuova formulazione
dell’art. 6 dP.R. 115/2002 – usando il termine “interessato” e non più i termini
“condannato” o “internato” di cui all’abrogato art. 56 Ord. Penit. – abbia voluto
estendere il beneficio a tutti i soggetti intervenuti in un procedimento di
prevenzione, i quali siano stati condannati al pagamento delle spese processuali.
Ma tale soluzione non appare convincente anche alla luce di una decisione di
questa sezione di senso contrario (n. 15665/13, c.c. 16/01/2013), che ha
sviluppato argomenti ben più significativi che portano ad escludere che un terzo
interessato, intervenuto in un procedimento di prevenzione e condannato al
pagamento delle spese processuali, possa beneficiare dell’istituto della
remissione del debito.
Il Collegio ritiene di aderire a questo secondo indirizzo riportando qui di
seguito gli argomenti posti a base della predetta decisione.
Invero la questione di diritto posta all’esame del Collegio ha riguardo alla
legittimazione a domandare (quindi alla ammissibilità della richiesta) la
remissione del debito, di cui all’art. 6 d.P.R. n. 115 del 2002, di soggetti
condannati al pagamento delle spese processuali nel procedimento di
prevenzione.
Nel caso di specie l’istanza di remissione del debito è stata avanzata da un
terzo intestatario di beni oggetto di confisca intervenuto nel procedimento di
prevenzione a carico del quale i giudici di merito hanno posto il pagamento in
solido delle spese del procedimento.
Tanto precisato, è opportuno prendere le mosse dalla considerazione che la
remissione del debito, disciplinata dal vigente art. 6 d.P.R. n.115 del 2002 al
titolo II relativo alle «disposizioni generali relative al processo penale»
riguarda soltanto le spese del processo penale; nessuna disposizione del citato
d.P.R., infatti, consente l’applicazione dell’istituto oltre le spese del processo
penale cui esclusivamente si riferisce.
4

Il ricorso, ad avviso del Collegio, non è fondato e, pertanto, deve essere

Come è stato affermato dalla Corte costituzionale (n.98/1998 e n.57/2001),
l’obbligazione relativa alle spese processuali nel processo penale deve essere
considerata non come obbligazione civile, ma vera e propria sanzione economica
accessoria alla pena. Tale assunto è stato raccolto e ulteriormente ribadito anche
dalla Corte di legittimità e da ultimo con la decisione delle Sez. U., n. 491 del
2011, Pislor.
Orbene, è del tutto evidente che non possono assumere la predetta natura
le spese processuali eventualmente poste a carico del terzo interessato nel
comportare l’irrogazione di una pena, non essendo in alcun modo paragonabile
ad essa né la misura di prevenzione personale (pur essendo connotata da un
contenuto limitativo della libertà personale), né la misura di prevenzione
patrimoniale alla cui applicazione è finalizzato il procedimento di prevenzione.
Del resto – come è stato affermato in più occasioni – il terzo che interviene
nel procedimento di prevenzione laddove venga in esame l’applicazione di una
misura patrimoniale, sia che intervenga volontariamente, sia che partecipi iussu
iudicis, non è destinatario della misura di prevenzione, ma portatore nel

procedimento di prevenzione di un mero interesse di natura civilistica (da ultimo
Sez. 2, n. 27037 del 27/03/2012 – dep. 10/07/2012, Bini, rv. 253404).
E’ nota, altresì, la differenza strutturale tra il fatto reato oggetto del
processo penale, cui consegue una pronuncia di condanna e l’irrogazione di una
pena o di una misura di sicurezza, e la fattispecie astratta delle misure di
prevenzione, funzionali alla tutela della sicurezza pubblica, che non sono
connesse a responsabilità penali del soggetto, non si fondano sulla colpevolezza,
né hanno carattere sanzionatorio di doveri giuridici, ma sono collegate ad un
complesso di comportamenti integranti una «condotta di vita» che il
legislatore assume come indice di pericolosità sociale. La distanza dal paradigma
sanzionatorio del procedimento di prevenzione è stata sottolineata anche
rammentando come la Corte di Strasburgo (6/11/1980, Guzzardi; 22/2/1994,
Raimondo; 6/4/2000, Labita), nell’affrontare la questione della qualificazione
delle misure di prevenzione previste dal nostro ordinamento, recependo la c.d.
concezione autonomistica dell’illecito penale, le abbia ritenute estranee all’area
della «materia penale» escludendole addirittura, almeno in astratto, dal
novero delle misure privative della libertà personale di cui all’art. 5 della
Convenzione EDU e qualificandole come semplici restrizioni alla libertà di
circolazione di cui all’art. 2 del protocollo n. 4 della Convenzione (Sez. U, n.
10281 del 25/10/2007 – dep. 06/03/2008, Gallo, rv. 238657).
D’altro canto – come è stato evidenziato nell’ordinanza impugnata – la
modifica della disciplina della remissione del debito, prima prevista dall’abrogato
art. 56 Ord. Penit., secondo l’art. 6 del T.U. sulle spese di giustizia non è
5

procedimento di prevenzione, tenuto conto che tale procedimento non può mai

connotata da elementi tali da aver inciso sulla natura e sulla ratio dell’istituto
che, al contrario, mantiene le sue caratteristiche premiali ancorate alla condotta
ed alle disagiate condizioni economiche del soggetto a carico del quale le spese
sono poste in quanto condannato nell’ambito del processo penale.
Invero, il legislatore ha trasfuso nel contesto della disciplina delle spese di
giustizia l’istituto della remissione del debito, apportandovi le modifiche rese
necessarie dagli interventi della Corte costituzionale (n. 342/91), che aveva
dichiarato illegittimo l’art. 56 Ord. Penit. nella parte in cui non prevedeva che,

cautelare, potessero essere rimesse le spese del procedimento al condannato
che avesse serbato in libertà una regolare condotta e versasse in disagiate
condizioni economiche. E’ stato, infatti, evidenziato in dottrina come la nuova
collocazione confermi che la remissione del debito rappresenta un beneficio di
natura economica che mira ad estinguere il debito del condannato per spese di
mantenimento e processuali; rappresenta, cioè, una forma di rinuncia abdicativa
da parte dello Stato ad un proprio credito diretta ad agevolare il reinserimento
del soggetto nel momento più delicato della dimissione, attenuando le difficoltà
che il soggetto può incontrare nel periodo successivo alla espiazione della pena
ed evitando che coloro che abbiano espiato la pena ed abbiano dimostrato di
avere positivamente compiuto un processo di responsabilizzazione e di
acquisizione delle regole minime di convivenza civile si vedano poi ostacolati
proprio nel momento del reinserimento a causa dei debiti residui nei confronti
dello Stato costituiti da spese processuali e di mantenimento in carcere.
Tali finalità dell’istituto non possono ritenersi snaturate in ragione della
circostanza che nella formulazione rinnovata rispetto all’art. 56 Ord. Penit., l’art.
6 del più volte citato d.P.R. faccia riferimento all’ “interessato” e non al
“condannato”. Anche l’attuale lettera della norma, per vero, non può che
condurre alla individuazione dei destinatari del beneficio in coloro che siano stati
condannati nel processo penale, posto che al comma 2 viene fatto riferimento a
chi “è stato detenuto o internato” e al comma 1 a chi “non è stato detenuto o
internato”, ossia a soggetti comunque condannati in un processo penale.
Non è, quindi, venuto meno il presupposto dell’istituto nella sussistenza di
indici di ravvedimento del condannato, ancorchè riferibile – in conformità con la
pronuncia della Corte Cost. n. 342/1991 – anche ai soggetti che non hanno
espiato la pena o non la hanno espiata in carcere.
Né può assumere rilievo – come vorrebbe il ricorrente – un generico
riferimento ai soggetti condannati al pagamento delle spese anche a prescindere
dalla condanna a sanzione penale, non potendosi in tal caso spiegare la
limitazione del beneficio al processo penale di cui, anche dal punto di vista

6

anche indipendentemente dalla detenzione per espiazione di pena o per custodia

sistematico della norma nell’ambito del T.U. sulle spese di giustizia, non è dato
dubitare.
Per quel che riguarda specificamente l’applicabilità dell’istituto della
remissione del debito al procedimento di prevenzione, deve poi evidenziarsi che
sotto il profilo processuale tale procedimento non può farsi rientrare nel processo
penale in senso stretto, trattandosi, come è noto, di procedimento che ha nel
tempo acquisito natura giurisdizionale con caratteristiche e disciplina proprie, al
quale sono applicabili alcune norme del procedimento di esecuzione penale, art.

espresso rinvio a dette norme. Tanto è confermato, del resto, anche dalla novella
disciplina del d.lgs. n. 159 del 2011.
Non può, quindi, ritenersi argomento utile – come, invece, afferma il
Procuratore generale nella sua requisitoria scritta – al fine di sostenere
l’applicabilità della remissione del debito ai soggetti coinvolti nel procedimento di
prevenzione, la disposizione dell’art. 204 del d.P.R. citato. Tale norma, contenuta
nella parte VII relativa alla «riscossione>›, titolo I, capo II, nell’ambito dei
principi dettati per il processo penale, prevede specificamente che nel processo
di prevenzione si proceda al recupero delle spese solo in caso di condanna alle
spese da parte della Corte di cessazione. Dall’inserimento sotto il capo
«principi per il processo penale>›, in tema di riscossione, di una disciplina
eccezionale della materia delle spese per Il procedimento di prevenzione nei
sensi indicati (al pari di quella prevista per il procedimento di sorveglianza e di
esecuzione) non può desumersi l’applicazione della remissione del debito alle
spese relative al procedimento di prevenzione. Al contrario, la norma richiamata
conferma come il procedimento di prevenzione si caratterizzi in maniera
peculiare anche per quel che riguarda le spese processuali rispetto al processo
penale cui esclusivamente si riferisce la disciplina dell’art. 6 contenuto nel titolo
Il della parte I del d.P.R. n. 115 del 2002.
Peraltro, posto che dal citato art. 204 discende che al procedimento di
prevenzione non consegue ne può conseguire, fatto salvo per il giudizio di
cessazione, la condanna alle spese processuali, né nei confronti del proposto, né
dei terzi interessati, a maggior ragione, dal procedimento di prevenzione non
può derivare quella sanzione economica accessoria alla pena suscettibile di
remissione attraverso l’istituto della remissione del debito di cui all’art. 6 del
d.P.R. n. 115 del 2002.
Né, all’evidenza, la ratio e la natura della remissione del debito, di cui si è
detto sin qui, possono essere piegate a finalità del tutto estranee all’istituto
quale rimedio ad una eventuale errata pronuncia in ordine alla condanna alle
spese processuali. Tale pronuncia, all’evidenzia estranea all’esame di cui è
investita la Corte in questa sede, può essere impugnata attraverso i mezzi propri
7

666 cod. proc. pen., ed altre disposizioni del codice di rito in conseguenza di

previsti dall’ordinamento sia in sede penale che in sede civile ed è opportuno, in
specie, ricordare che le Sezioni Unite (n. 15 del 31/05/2000, Radulovic; n. 7945
del 31/01/2008, Boccia) hanno ritenuto ammissibile la procedura della
correzione dell’errore materiale, ex art. 130 cod. proc. pen., sottolineando come
la correzione in punto di condanna alle spese incida non sul contenuto intrinseco
della pronuncia relativa al thema decidendum, ma semplicemente su una
pronuncia consequenziale ed accessoria alla prima e non implicante alcuna
discrezione valutativa da parte del giudice; pertanto, la correzione dell’errore

volontà del giudice o ad un suo errore di giudizio, ma è soltanto lo strumento per
eliminare la disarmonia tra la manifestazione esteriore costituita dal documentosentenza e quanto poteva e doveva essere statuito ex lege.
Ogni questione, poi, sull’ammontare delle spese processuali deve essere
fatta valere attraverso i mezzi di impugnazione previsti dall’ordinamento in sede
civile (Sez. U., n. 491 del 2011, Pislor, rv. 251265).
Resta, pertanto, solo da rilevare che, tenuto conto del contenuto del
provvedimento impugnato sintetizzato in premessa, il dedotto vizio di
motivazione risulta manifestamente infondato e che, stante la specifica posizione
del terzo nei sensi già richiamati, si palesa, altresì, la manifesta infondatezza
della violazione dell’art. 3 Cost. denunciata dal ricorrente, dovendosi, peraltro,
ribadire che la pronuncia Corte cost. n. 342/1991 aveva rilevato la illegittimità
dell’abrogato art. 56 Ord. Pen. facendo, comunque, esclusivo riferimento ai
soggetti “condannati” che dovevano essere ugualmente legittimati a chiedere la
remissione del debito, sia che avessero sofferto la detenzione, sia che avessero
diversamente espiato la pena o non l’avessero affatto espiata.
Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle
spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali.

Così deciso il 20 marzo 2013.

materiale in tal caso non si pone come (inammissibile) rimedio ad un vizio della

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