Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 18373 del 18/04/2013


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Penale Sent. Sez. 6 Num. 18373 Anno 2013
Presidente: DE ROBERTO GIOVANNI
Relatore: CARCANO DOMENICO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
CIANCIMINO MASSIMO N. IL 16/02/1963
avverso l’ordinanza n. 8073/2009 GIP TRIBUNALE di PALERMO, del
08/02/2013
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. DOMENICO
CARCANO;
lettelsaatito le conclusioni del PG Dott. .9,..” 0
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Udit i difØisor Avv.;

Data Udienza: 18/04/2013

Ritenuto in fatto
1.Massimo Ciancimino impugna l’ordinanza in epigrafe indicata con la
quale il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Palermo ha rigettato
l’istanza dei suoi difensori di «autorizzazione all’ascolto» delle registrazioni delle
conversazioni intercettate tra il Senatore Nicola Mancino e il Presidente della
Repubblica Giorgio Napolitano. Il ricorrente impugna inoltre il precedente decreto
con il quale è stata disposta la distruzione delle predette intercettazioni.
a far valere, in applicazione dell’art. 268, comma 6, c.p.p., il preteso diritto
all’ascolto delle registrazioni delle conversazioni intercettate, il giudice per le
indagini preliminari ha rigettato l’istanza, in tal modo confermando la distruzione
delle registrazioni stesse, disposta su richiesta della Procura Repubblica con
decreto 8 febbraio 2013.
Il decreto è stato adottato in esecuzione della decisione della Corte
Costituzionale con la quale è stato risolto il conflitto di attribuzione tra i poteri
dello Stato, sollevato dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nei
confronti del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Palermo che
rivendicava il potere-dovere di attivare la procedura di selezione prevista
dall’art.268 c.p.p., all’esito della quale avrebbe potuto essere disposta – su
istanza degli interessati e nella specie, dello stesso Presidente della Repubblica,
attraverso una ulteriore udienza camerale – la distruzione del materiale in
questione “a tutela della riservatezza”.
Il giudice per le indagini preliminari, investito della richiesta di
distruzione, ha verificato e poi escluso gli ostacoli giuridico-costituzionali alla
distruzione, come stabilito dalla sentenza (§ 16 del considerato in diritto) nella
parte in cui dispone che «ferma restando la assoluta inutilizzabilità, nel
procedimento da cui trae origine il conflitto, delle intercettazioni del Presidente
della Repubblica, e, in ogni caso, l’esclusione della procedura camerale
“partecipata”, l’Autorità giudiziaria dovrà tenere conto della eventuale esigenza
di evitare il sacrificio di interessi riferibili a principi costituzionali supremi: tutela
della vita e della libertà personale e salvaguardia dell’integrità costituzionale
delle istituzioni della Repubblica (art. 90 Cost.)».
2.11 difensore di Massimo Ciancimino, descritta la vicenda procedimentale,
deduce l’abnormità dei provvedimenti impugnati, perché adottati in palese
violazione degli artt.127 e 271 c.p.p. sul presupposto che la Corte costituzionale
ha esclusivamente risolto un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato e non
anche interpretato l’art.271 c.p.p..
In subordine, sollecita questa Corte a sollevare questione di legittimità
costituzionale degli artt. 271 e 127, comma 3, c.p.p., nell’interpretazione data#

A fronte delle richiesta avanzata dalla difesa di Massimo Ciancimino volta

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con i provvedimenti impugnati, per violazione degli artt.24, comma secondo, e
111, commi secondo e quarto, della Costituzione, sollecitazione che la difesa
ribadisce con motivi muovi, evocando l’ulteriore parametro dell’art.117, primo
comma, della Costituzione in relazione all’art.6 della Convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.
Considerato in diritto
1.11 ricorso, volto a censurare le decisioni adottate in esecuzione della
contestazione delle statuizioni sulle quali – senza che alcuno spazio residui
rispetto sia al decisum sia alla ratio decidendi – si fonda la risoluzione del
conflitto di attribuzione.
La sentenza n.1 del 2013 ha dichiarato nel dispositivo non soltanto « che
non spettava alla Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario di
Palermo di valutare la rilevanza delle intercettazioni di conversazioni telefoniche
del Presidente della Repubblica, operate nell’ambito del procedimento penale n.
11609/08», ma anche « che non spettava alla stessa Procura della Repubblica di
omettere di chiedere al giudice l’immediata distruzione della documentazione
relativa alle intercettazioni indicate, ai sensi dell’art. 271, comma 3, del codice di
procedura penale, senza sottoposizione della stessa al contraddittorio tra le parti
e con modalità idonee ad assicurare la segretezza del contenuto delle
conversazioni intercettate».
Tale ultima statuizione vincola non solo il procuratore della Repubblica,
ma anche il giudice che, in ogni stato e grado del procedimento nel cui ambito è
sorto il conflitto, sia chiamato a dare attuazione alle statuizioni della Corte
costituzionale o, comunque, a decidere su impugnazioni ed eventuali incidenti di
esecuzione.
Un principio che trova conferma in quanto espressamente affermato nel
§15 della sentenza ora ricordata, secondo cui « la soluzione del presente
conflitto non può che fondarsi – in base a quanto detto sinora – sull’affermazione
dell’obbligo per l’autorità giudiziaria procedente di distruggere, nel più breve
tempo, le registrazioni casualmente effettuate di conversazioni telefoniche del
Presidente della Repubblica, che nel caso di specie risultano essere quattro,
peraltro intrattenute mediante linee telefoniche del Palazzo del Quirinale».
La puntuale osservanza della decisione adottata in sede di conflitto di
attribuzione diviene allo stato dirimente al fine di verificare l’assoluta
impossibilità di qualsiasi scrutinio di impugnabilità delle statuizioni qui censurate.
2.11 Collegio ritiene, inoltre, che la questione di legittimità degli artt. 271 e
127, comma 3, c.p.p.., in subordine eccepita dalla difesa è manifestamente

sentenza Corte costituzionale, inevitabilmente si traduce in una non consentita

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infondata per le ragioni stesse ragioni poste a fondamento della soluzione del
conflitto.
Ed infatti, la Corte costituzionale ha precisato che « lo strumento
processuale per giungere … al risultato, costituzionalmente imposto …» – la
distruzione della documentazione relativa alle intercettazioni del Presidente della
Repubblica – «… non può essere quello previsto dagli artt. 268 e 269 cod. proc.
pen.», che si sviluppa attraverso la procedura camerale in contraddittorio tra le
disposizione prevede la distruzione della documentazione delle intercettazioni di
cui “è vietata l’utilizzazione” senza però imporre, per il mancato richiamo
all’art.127 c.p.p., la procedura camerale e il contraddittorio tra le parti, in tal
modo rendendo tale ultima procedura attuabile o meno in considerazione degli
interessi e dei diritti fondamentali coinvolti.
Ne discende che la procedura camerale, nel contraddittorio tra le parti, è
applicabile per le ipotesi di violazioni di norme processuali, mentre è preclusa nel
caso in cui vi siano state violazioni di ordine sostanziale riconducibili a diritti e
interessi di rilievo costituzionale poiché l’accesso alle parti potrebbe neutralizzare
la rado della tutela riconosciuta, secondo un modello non dissimile da quello che
impone la distruzione di registrazioni riguardanti le conversazioni tra l’imputato e
il suo difensore e in altre ipotesi analoghe che implicano esigenze di tutela
diversificate, ma sempre riferibili a un vulnus costituzionalmente rilevante.
Pertanto, la Corte costituzionale ritiene che costituisca fondamento
Imprescindibile per la risoluzione del conflitto «il rango degli interessi coinvolti»
nel caso di «intercettazione di colloqui presidenziali » e il rilievo che «i principi
tutelati dalla Costituzione non possano essere sacrificati in nome di una astratta
simmetria processuale, peraltro non espressamente richiesta dall’art. 271,
comma 3, cod. proc. pen» .
La chiarezza di tali argomenti rende dunque manifestamente infondata la
questione di costituzionalità eccepita dal ricorrente.
3.In conclusione, il ricorso è inammissibile e, a norma dell’art.616 c.p.p., il
ricorrente va condannato, oltre che al pagamento delle spese processuali, a
versare una somma, che si ritiene equo determinare in euro 1.000,00 in favore
della cassa delle ammende, non ricorrendo le condizioni richieste dalla sentenza
della Corte costituzionale 13 giugno 2000, n.186.

parti, bensì la disposizione dall’art. 271, comma 3, c.p.p.. Tale ultima

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P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e a quello della somma di euro 1000,00 in favore della Cassa
delle ammende.
Così deciso in Roma, il 18 aprile 2013
Il Presidente

Il Consigliere estensore

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