Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 18334 del 21/06/2017


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Penale Sent. Sez. 4 Num. 18334 Anno 2018
Presidente: IZZO FAUSTO
Relatore: CIAMPI FRANCESCO MARIA

SENTENZA
sui ricorsi proposti da :
1. FACCIOLA’ PAOLA

(PARTE CIVILE);

2.

FOTI GIUSEPPE

(PARTE CIVILE);

3.

DE LUCA FILIPPO

N. IL 20.05.1949;

4.

CRISAFULLI GIUSEPPE

N. IL 08.04.1964;

5.

LUCANTO CRISTINA

N. IL 15.09.1965;

6.

CHIMENZ ROBERTO

N. IL 02.05.1964;

sentita la relazione fatta dal Consigliere dott. FRANCESCO MARIA CIAMPI, udite
le conclusioni del PG in persona della dott.ssa Marilia Di Nardo che ha chiesto
l’annullamento con rinvio al giudice civile competente per quanto riguarda De
Luca, Crisafulli, Lucanto e Chimenz. Annullamento con rinvio, in accoglimento
dei ricorsi delle parti civili per Zuccarello e Centorrino.

Data Udienza: 21/06/2017

Per la parte civile Foti Giuseppe è presente l’avvocato Russo Nunzio del foro di
Messina, che deposita conclusioni e nota spese e chiede l’accoglimento del
ricorso. L’avvocato Russo è presente anche in sostituzione del difensore della
parte civile Facciolà Paola, per cui parimenti deposita conclusioni e nota spese e
chiede l’accoglimento del ricorso.
Per De Luca è presente l’avvocato Dionisi Francesca del foro di Catania in
sostituzione in sostituzione dell’avvocato Olivo giusta nomina a sostituto

Per Lucanto è presente l’avvocato Farina Giuseppe del foro di Cosenza che
chiede l’accoglimento del ricorso.
Per Zuccarello e Centorrino è presente l’avvocato Andronico Eleonora del foro di
Messina che chiede il rigetto dei ricorsi.
Per il responsabile civile è presente l’avvocato Dionisi Francesca del foro di
Catania che deposita nomina a sostituto processuale, memoria difensiva e
chiede il rigetto dei ricorsi.

RITENUTO IN FATTO

1. Con l’impugnata sentenza la Corte d’Appello di Messina, in parziale riforma
della sentenza del locale Tribunale in data 10 ottobre 2013, appellata da De
Luca Filippo, Crisafulli Giuseppe, Lucanto Cristina, La Mazza Antonia,
Chimenz Roberto, Zuccarello Biagio, Centorrino Antonio, nonché dal
Responsabile Civile, Azienda Ospedaliera Policlinico Universitario di Messina e
dalle parti civili Foti Giuseppe e Facciolà Paola, anche nei confronti di Vita
Daniela, dichiarava non doversi procedere nei confronti degli imputati De
Luca Filippo, Crisafulli Giuseppe, Lucanto Cristina, La Mazza Antonia,
Chimenz Roberto in ordine al reato di omicidio colposo ad essi ascritto
perché estinto per prescrizione; assolveva Zuccarello Biagio e Centorrino
Antonio dal reato di cui all’art. 589 cod. pen. e 479 cod. pen. perché il fatto
non costituisce reato. Confermava nel resto, in particolare la condanna degli
imputati di cui sopra, di cui era stata confermata la responsabilità, in solido
con il Responsabile Civile al risarcimento dei danni in favore delle costituite
parti civili.
Si era proceduto nei confronti degli stessi per i seguenti reati, così modificata
la contestazione dal PM all’udienza del 28 giugno 2012 innanzi al Tribunale di
Messina:

2

n

depositata in udienza, che chiede l’accoglimento del ricorso.

Vita Daniela (assolta all’esito del giudizio di I grado), De Luca Filippo,
Crisafulli Giuseppe, Lucanto Cristina, La Mazza Antonia, Chimenz Roberto,
Zuccarello Biagio, Centorrino Antonio, Turiaco Nunzio (in concorso con Conti
Nibali Sergio nei cui confronti si procede separatamente):
del delitto p. e

p.

dagli articoli 40, 113, 589 c.p. , poiché, nelle rispettive

qualità (Conti Nibali Sergio, pediatra di base) Vita Daniela, medico pediatra
in servizio presso il Pronto Soccorso Pediatrico del Policlinico Universitario di

Antonia, Chimenz Roberto, medici in servizio presso la UOC di Clinica
Pediatrica II del Policlinico Universitario di Messina, Zuccarello Biagio,
Centorrino Antonino e Turiaco Nunzio, medici del reparto di Chirurgia Pediatrica del Policlinico Universitario di Messina, per colpa consistita in
imprudenza, negligenza, imperizia, e in particolare:
Vita Daniela, in data 12.2.2007 pur informata dai genitori dei sintomi
manifestati dal minore già da alcuni giorni e pur in presenza di chiari sintomi
si limitava a visitare il paziente senza formulare alcuna diagnosi e senza
disporre il ricovero o altro accertamento clinico ed erroneamente lo
dimetteva con prescrizione di soluzione reidratante;
De Luca Filippo, Crisafulli Giuseppe, Lucanto Cristina, La Mazza Antonia,
Chimenz Roberto, durante i rispettivi turni di servizio, sottovalutavano i
chiari sintomi di una patologia acuta dell’addome e di disidratazione;
omettevano di diagnosticare l’occlusione intestinale nonché il quadro
peritonitico con associato stato settico e formulavano viceversa un’errata
diagnosi di patologia neurologica; quindi omettevano fino alle ore 11,45 del
15 febbraio 2007 di disporre specifici accertamenti clinici (ecografia,
radiografia, clisma opaco), essenziali per formulare corretta diagnosi;
conseguentemente ritardavano la corretta diagnosi di invaginazione
intestinale e peritonite, nonché l’esecuzione di intervento chirurgico,
aggravando lo stato settico e le generali condizioni di salute del paziente;
Turiaco Nunzio, chirurgo, nonostante la chiara indicazione all’intervento
chirurgico d’urgenza, peraltro già formulata, e pur confermando la diagnosi
di invaginazione, sottovalutava la gravità e l’urgenza del caso e disponeva
l’inserimento di una sonda rettale e la ripetizione del clisma opaco (ed il
ritrasferimento del piccolo paziente nel reparto di radiologia) già rivelatosi
inefficace, trattandosi di invaginazione già consolidata; in tal modo ritardava
di oltre tre ore l’esecuzione del programmato intervento chirurgico;

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Messina, De Luca Filippo. Crisafulli Giuseppe, Lucanto Cristina, La Mazza

Zuccarello Biagio e Centorrino Antonino, nell’esecuzione del primo intervento
chirurgico, per colpa consistita in imprudenza, imperizia e negligenza,
derivata dalla mancata valutazione degli esami radiologici e del clisma
opaco che segnalavano la presenza di invaginazione colo- colica con sede
nella parte sinistra dell’addome, procedevano, come dimostrato dalla
fotografie che documentano l’esame autoptico, a laparotomia a destra, che
determinava: a) l’impossibilità o la difficoltà elevata, in assenza della non

la citata laparotomia, di avere visione completa dello stesso e di procedere
alla verifica della vitalità del segmento colico invaginante e- dopo riduzione
manuale- di quello disinvaginato, omissione da cui derivava erronea opzione
di procedere, previo intervento di “enterotomia decompressiva”, a “riduzione
manuale dell’invaginazione” che, non completata dalla susseguente
mandatoria resezione del tratto di intestino in sofferenza, costituiva il
presupposto alla verificazione di successive perforazioni intestinali; b)
l’impossibilità di accertare la sussistenza di difetto diaframmatico congenito
ovvero, se non congenito, di avere immediata contezza della sua
verificazione in esito a strappo degli elementi del colon- sede di invaginazione- al diaframma, secondario ad errata manovra intercorsa durante la
succitata riduzione manuale dell’invaginazione; per colpa consistita in
imprudenza, imperizia e negligenza, malgrado avessero repertato 200 ml di”
liquido libero enterico ileale” nella cavità peritoneale, omettevano di avere
conferma della sua natura con apposito esame chimico- fisico e colturale,
così come omettevano la collocazione, peraltro imposta dalla mancata
valutazione della vitalità dell’intestino sede di invaginazione, di idonei
drenaggi intraperitoneali che, ove applicati, avrebbero svolto funzioni
terapeutica e diagnostica, in tal modo contribuendo alla persistenza e
all’aggravamento dello stato settico locale e alla sua diffusione sistemica;
nell’esecuzione del secondo intervento chirurgico:
per colpa consistita in imprudenza, imperizia e negligenza, nonostante la
persistenza dello stato settico e la registrata perforazione colica rilevata in
corso di revisione delle anse intestinali, erroneamente optavano per la sua
riparazione con sutura, omettendo ancora una volta di procedere alla
obbligatoria resezione del tratto di intestino sofferente e perseverando nella
decisione di non collocare alcun drenaggio intraperitoneale, compromettendo
in tal modo ulteriormente le condizioni del paziente – la cui gravità era stata

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registrata esteriorizzazione del complessi invaginante/invaginato attraverso

di già anche condizionata dalla lesione del diaframma, che aveva
determinato la risalita dei visceri addominali fino a comprimere i polmoni -,
che, anche dopo il secondo intervento, continuava ad essere soggetto a
perforazioni intestinali, causa di irreversibilità della sepsi;
cooperavano tutti a cagionare la morte di FOTI Francesco, avvenuta in
conseguenza di peritonite, cid, acidosi metabolica e respiratoria, insufficienza
multiorganica e shock settico in soggetto operato per invaginazione

Fatto verificatosi in Messina il 22 febbraio 2007.
Zuccarello Biagio. Centorrino Antonino
Del delitto p. p. e p. dall’art. 110, 61/2, 479 cp, perché nell’esercizio delle
rispettive funzioni,

nella qualità di medici chirurghi operatori, al fine di

garantirsi l’impunità rispetto al reato di cui al capo a), riferivano
falsamente ovvero omettevano di inserire nel referto operatorio fatti e
condotte dei quali l’atto era destinato a provare la verità.
In particolare, omettevano di riferire nel resoconto operatorio dei due
interventi chirurgici effettuati il 15 e il 17 febbraio 2007 di aver rilevato
perforazioni intestinali – a carico sia dell’ileo sia del colon trasverso ex
invaginante- e di registrare la riparazione delle predette lesioni, effettuata
con due punti sull’ileo e con un punto sul trasverso, per come documentato
attraverso l’esame autoptico e le fotografie acquisite in atti;
omettevano di registrare le manovre effettuate nel corso della riduzione
manuale dell’invaginazione, non indicando nello specifico se la stessa era
stata effettuata in situ o previa esteriorizzazione dell’invaginante/invaginato,
con siffatta omissione precludendo, in successione di tempo, la possibilità di
accertare la natura congenita ovvero l’origine iatrogena – da strappo degli
elementi di fissazione del colon , sede di invaginazione, al diaframma a
seguito di errata manovra intercorsa durante la succitata riduzione manuale
dell’invaginazione – del difetto diaframmatico responsabile della successiva
erniazione di visceri addominali in torace.
Fatto commesso in Messina il 15 e il 17.2.2007.
La Corte territoriale così procedeva alla ricostruzione degli eventi :
la sera del 12 febbraio 2007 a seguito di vomito incoercibile i genitori
portano il bambino al Pronto Soccorso pediatrico del Policlinico di Messina
dove viene visitato dalla dott.ssa Vita, la quale riscontra una rinofaringite
consigliando soltanto lavaggi nasali, aerosol e soluzione idratante. Da ciò

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intestinale e per ernia diaframrnatica.

l’imputazione anche nei confronti della stessa assolta dal Tribunale e per la
quale la parte civile ha proposto appello.
Durante la giornata del 13 febbraio il vomito persiste, con uno stato
soporoso e alle prime ore del mattino del 14 febbraio in via d’urgenza, il
bambino viene nuovamente portato al Policlinico e ricoverato presso il
Reparto di Pediatria con la valutazione di —vomito incoercibile, calo ponderale
ed astenia”. Il calo ponderale è consistente, la cute è pallida, la fontanella

intestinale ed alveo chiuso dal 12 febbraio.
Cuore del primo rilievo mosso ai sanitari del reparto di Pediatria che si
succedono da quel momento nella cura del paziente (CRISAFULLI Giuseppe,
LUCANTO Cristina, LA MAZZA Antonia CHIMENZ Roberto) e del primario DE
LUCA Filippo è costituito dalla circostanza pacifica che solo alle ore 10 del 15
febbraio, trenta ore dopo il ricovero si procedeva ad una ecografia
addominale che rivelava un quadro di grave sofferenza con “liquido libero in

tutti gli ambiti addominali e marcata dilatazione delle anse intestinali” che
faceva immediatamente pensare ad una occlusione da probabile
invaginazione. Strumento primo di verifica era il clisma opaco eseguito
subito dopo che accertava l’arresto del transito al livello del terzo prossimale
del colon discendente con diagnosi di probabile invaginazione colo-colica alla
fessura splenica.
Una consulenza chirurgico – pediatrica veniva quindi effettuata il 15 febbraio
alle ore 11,45: il chirurgo pediatra (Turiaco, assolto dal Tribunale per il quale
non vi è impugnazione) confermava la diagnosi e decideva di effettuare un
altro clisma opaco, inserendo una sonda rettale tra sigma e discendente per
risolvere l’invaginazione con introduzione retrograda di mezzo di contrasto e
soluzione fisiologica; tale secondo clisma opaco, che confermava la presenza
di invaginazione a partire dal colon discendente (flessura splenica), non
riusciva a “deinvaginare” e il piccolo Francesco veniva quindi trasferito (alle
ore 14 del 15 febbraio presso l’ U.O.C. di Chirurgia Pediatrica Neonatale ove
veniva sottoposto ad intervento chirurgico.
All’esame obiettivo il piccolo Francesco presentava condizioni generali
scadute, cute pallida, sensorio soporoso, addome globoso, cicatrice
ombelicale estroflessa, evidenti reticoli venosi Superficiali vivo dolore alla
palpazione su tutti i quadranti dell’addome e ipertimpanismo alla
percussione.

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anteriore depressa, vi è dolore addominale persistente con meteorismo

L’intervento durava due ore (laparotomia pararettale destra allargata):
all’apertura del peritoneo veniva descritto abbondante liquido libero di natura
enterica – ileale (circa 200 ml) che veniva aspirato, nonchè dilatazione delle
anse intestinali, sicché veniva effettuata enterotomia decompressiva sul
terzo distale dell’ileo ( in sostanza una incisione per decomprimere le anse
dilatate); il colon veniva esplorato in senso anterogrado fino a raggiungere
l’invaginazione alla flessura splenica, descritta come una retrograda del
q uindi per un tratto

significativo di circa 5 cm risolta manualmente; la parte del colon invaginata
co nteneva

anche omento e si rilevavano due linfonodi ingrossati; l’omento

invaginato veniva rimosso e veniva revisionata la cavità peritoneale.
Dato rilevante è che, nell’occasione, non venivano descritte dai chirurghi
operatori perforazioni a nessun livello dell’intestino. Inoltre non venivano
lasciati drenaggi in cavità peritoneale.
Dopo l’intervento il piccolo Francesco veniva trasferito presso l’unità di
Terapia Intensiva Neonatale UTIN. Da quel momento in poi le condizioni
generali del bambino non miglioravano, anzi si aggravavano a tal punto che
in data 17 febbraio si faceva ancora più evidente la distensione addominale:
dapprima una radiografa del torace poneva il sospetto di pneumotorace
sinistro, poi una TAC eseguita alle ore 7,40 evidenziava una ernia
diaframmatica addirittura con presenza di visceri in torace sinistro.
Seguiva di nuovo la corsa in sala operatoria, ove un secondo intervento
chirurgico (iniziato alle ore 11,30 e terminato alle ore 13,30 del 17 febbraio)
portava ad una riapertura della precedente ferita chirurgica ed una
esteriorizzazione delle anse intestinali ; veniva quindi raggiunto il diaframma
di sinistra e rinvenuta una breccia postero- laterale di 4 cm di diametro
nell’emidiaframma sinistro, attraverso la quale lo stomaco era risalito in
torace; i chirurghi operatori procedevano quindi al riposizionamento in
addome dello stomaco ed alla sutura diretta di chiusura della breccia, alla revisione delle anse intestinali ed alla sutura di una piccola perforazione nel
tratto colico precedentemente invaginato.
Ritrasferito nel reparto di terapia intensiva le condizioni restavano
gravissime e sopravveniva un arresto cardiaco, poi momentaneamente
superato, la necessità di un drenaggio prima pleurico, poi addominale e la
progressiva compromissione della funzione renale finchè in data 22 febbraio

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colon discendente nel colon trasverso; veniva

il decesso con causa mortis per “peritonite, CID, acidosi respiratoria e
metabolica, shock settico.
2.

La sentenza impugnata, premesso che l’invaginazione rappresenta una delle
cause più frequenti di addome acuto nella prima infanzia e che in caso di
diagnosi precoce si può ridurre l’invaginato con metodiche non cruente,
nonché il ritardo con cui era stata effettuata la diagnosi, richiamava la
giurisprudenza di questa Corte in tema di colpa medica nell’attività di

l’affermazione di penale responsabilità, che agli stessi era imputabile il
ritardo nei tempi dell’intervento dovuto alla mancata esecuzione
dell’indagine ecografica. Quanto alla posizione del primario De Luca, dopo
aver respinto l’eccezione di difetto di correlazione tra accusa e sentenza in
ordine al variare dei profili di colpa considerati dal giudice di I grado in
sentenza, la Corte territoriale riteneva che allo stesso fosse addebitabile la
mancata verifica dell’appropriatezza della diagnosi e delle terapie, condotta
cui era tenuto per la sua posizione apicale e direttiva. Contrariamente a
quanto ritenuto dal giudice di primo grado, riteneva esenti da responsabilità i
chirurghi operanti.
3.

Avverso tale decisione hanno proposto ricorso a mezzo dei rispettivi
difensori:
2.1. De Luca Giuseppe insistendo con un primo motivo sul difetto di
correlazione tra l’accusa contestata e la sentenza, che aveva ritenuto la sua
responsabilità quale primario del reparto a fronte di una contestazione in cui
era indicato, unitamente agli altri sanitari, quale medico in servizio presso la
Clinica Pediatrica, via via succedutisi nei rispettivi turni di servizio (con una
conseguente sostanziale diversità del “fatto”); con un secondo motivo
denuncia contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione con
riferimento alla responsabilità di esso ricorrente per non aver esercitato,
quale direttore della clinica, la vigilanza sull’operato dei sanitari di reparto.
Con un terzo motivo lamenta ancora vizio di motivazione con riferimento alla
ritenuta responsabilità di condotta omissiva riconducibile alla mancata
esecuzione dell’ecografia. Sostiene in particolare che in realtà si era trattato
di una forma rarissima di invaginazione e di cui non si poteva avere certezza
attraverso l’esame ecografico. Con un quarto motivo lamenta erronea
applicazione della legge penale per illogicità e contraddittorietà della
sentenza in relazione al nesso causale tra la presunta condotta colposa e

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equipe, ritenendo, quanto ai sanitari nei cui confronti era confermata

l’evento morte, anche in presenza di fattori sopravvenuti interagenti e da soli
sufficienti alla produzione dell’evento
2.2.

Crisafulli con un primo motivo si duole della mancanza e

contraddittorietà della motivazione nella parte in cui è stata ritenuta la
responsabilità del medesimo sul presupposto della riconoscibilità della
sintomatologia della occlusione intestinale ed invaginazione; con un secondo
motivo denuncia violazione di legge e vizio motivazionale nella parte in cui è

l’evento morte anche a fronte di cause sopravvenute da sole sufficienti a
produrre l’evento
2.3 Lucanto Cristrina lamenta parimenti vizio motivazionale con riferimento
al ritenuto nesso di causalità
2.4

Chimenz Roberto lamenta parimenti vizio motivazionale in relazione al

ritenuto nesso di causalità, rimarcando in particolare il brevissimo arco di
tempo del suo interevento e la circostanza che aveva comunque disposto un
controllo neurologico
2.5

Le parti civili Giuseppe Foti e Paola Facciolà lamentano violazione

dell’art. 606, lett. e) c.p.p. in relazione agli artt. 544, I comma e 546, I
comma lett. e) c.p.p. per mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità
della motivazione in merito alla esclusione della responsabilità degli imputati
Zuccarello Biagio e Centorrino Antonino. Sostengono che inopinatamente la
corte territoriale avrebbe sovvertito il giudizio di penale responsabilità del
giudice di prime cure senza compiutamente confutarlo, pur affermando che
all’atto del secondo intervento chirurgico posto in essere dai suddetti
Zuccarello e Centorrino le condizioni del paziente “sono deteriorate ma non
compromesse”. Sottolineano poi gli esiti dell’autopsia da cui emergerebbero
alcune omissioni nei referti chirurgici relative a punti di sutura rinvenuti,
chiara dimostrazione degli errori commessi dai chirurghi nonché la
“imprudente mancata apposizione dei drenaggi all’esito del primo e del
secondo intervento” ed richiamano le testimonianze dei dottori Fogliani e
Finocchiaro. Riportano poi quanto riferito in sede di chiarimenti dal dottor
Fisher secondo cui l’intervento chirurgico che porta alla riduzione
dell’occlusione intestinale doveva risolvere positivamente ed interrompere
drasticamente l’iter patologico che avrebbe portato di lì a poco ad uno shock
irreversibile.

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stato ritenuto il nesso di causalità tra la condotta presuntamente colposa e

Con un secondo motivo lamentano altresì violazione dell’art. 606, lett. e)
c.p.p. in relazione agli artt. 544, I comma e 546, I comma lett. e) c.p.p. per
mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in merito
ai criteri utilizzati nella determinazione delle statuizioni civilistiche inerenti il
danno subito (personalizzazione del danno e danno morale soggettivo)
4.

Sono stati presentati motivi nuovi nell’interesse degli imputati De Luca
Filippo e Crisafulli Giuseppe con richiamo da parte di entrambi gli imputati

responsabilità norma espressamente ritenuta più favorevole rispetto alle
recente novella legislativa sul punto.

CONSIDERATO IN DIRITTO

5.

Osserva preliminarmente la Corte che, nel caso di specie, il tema oggetto di
indagine – a differenza di quanto ritenuto dalla Corte territoriale- non è
quello della colpa medica nell’attività di equipe, in cui ciascuno dei soggetti
che si dividono il lavoro risponde dell’evento illecito, non solo per non aver
osservato le regole di diligenza, prudenza e perizia connesse alle specifiche
ed effettive mansioni svolte, ma altresì per non essersi fatto carico dei rischi
connessi agli errori riconoscibili commessi nelle fasi antecedenti o contestuali
al suo specifico intervento (Cfr. Cass., sez. 4, 11 ottobre 2007, n. 41317, Rv
237891).
La sentenza impugnata, a riguardo, sembra, invece, quasi concepire una
sorta di responsabilità «di gruppo», nel senso che l’esito infausto derivante
dal trattamento medico-chirurgico non conforme alle leges artis, dovrebbe
essere ascritto all’intero gruppo di sanitari che ha in concreto agito.
Questa impostazione sconta la sua matrice prettamente civilistica,
permettendo al danneggiato di avere comunque un referente sotto il profilo
della domanda risarcitoria, ma appare improponibile nel momento in cui
venga calata in una prospettiva penalistica, ponendosi in frontale contrasto
col principio di personalità della responsabilità penale scolpito a chiare
lettere nel primo comma dell’art. 27 Cost. Ipotizzare una responsabilità di
gruppo, della struttura in cui l’intervento medico è avvenuto equivale ad
introdurre nel nostro ordinamento forme di responsabilità per fatto altrui – e
quindi di responsabilità oggettiva – nella misura in cui il soggetto osservante

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all’art. 3 della legge 8 novembre 2012, in merito alla esclusione di

le misure cautelati che caratterizzano il suo ruolo nell’ambito della struttura
sanitaria in cui ha operato sia chiamato a rispondere per un fatto colposo
riconducibile alla sfera di responsabilità altrui.
Ed è proprio con riferimento sostanzialmente a tale ricostruzione che è stato
affermato il principio applicato nella gravata sentenza secondo cui ogni
sanitario, oltre che il rispetto dei canoni di diligenza e prudenza connessi alle
specifiche mansioni svolte, sarà anche astretto dagli obblighi ad ognuno

virtù di tali obblighi il sanitario non potrà esimersi dal valutare l’attività
precedente o contestuale svolta da altro collega sia pure specialista in altra
disciplina, e dal controllarne la correttezza ponendo se del caso rimedio ad
errori altrui che siano evidenti e non settoriali, e come tali rimediabili ed
emendabili con l’ausilio delle comuni conoscenze scientifiche del
professionista medio.
Nel caso di specie deve, invece, più propriamente affrontarsi il tema della
cooperazione colposa tra le condotte dei sanitari.
Il problema della configurabilità del concorso di persone nel reato colposo è
stato risolto dal legislatore del codice penale vigente con l’introduzione della
cosiddetta cooperazione colposa, disciplinata dall’art. 113 c.p., che peraltro
non prevede un differente trattamento sanzionatorio, rispetto a quello delle
condotte indipendenti, ma si limita a prevedere alcune aggravanti tipiche del
concorso di persone nel reato.
Va in proposito ricordato che, per aversi concorso di persone nel reato
colposo, è sufficiente la consapevolezza della partecipazione di altri soggetti,
indipendentemente dalla specifica conoscenza sia delle persone che operano
sia delle specifiche condotte da ciascuna poste in essere, essendo la
cooperazione ipotizzabile anche in tutte quelle ipotesi nelle quali il soggetto
interviene essendo a conoscenza che la trattazione del caso non è a lui
soltanto riservata, perché anche altri operanti nella medesima struttura ne
sono investiti. Ed è, esattamente, quanto avvenuto nel caso di specie,
trattandosi di più sanitari che hanno, in successione, visitato la piccola
vittima, fattispecie da sussumersi, appunto, nell’ipotesi della cooperazione
colposa, configurabile, come detto, quando l’agente è consapevole del fatto
che della salute di quel paziente altri medici si occuperanno o si sono
occupati (Sez. 4, n.1428 del 02/11/2011, Gallina, Rv. 252940; Sez. 4, n.
6215 del 10/12/2009, Pappadà, Rv. 246420).

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derivanti dalla convergenza di tutte le attività verso il fine comune unico. In

Viene quindi in rilievo il cd. principio di affidamento, richiamato
espressamente da parte dei ricorrenti e ricordato anche dalla sentenza
impugnata.
Sul punto questa Corte ha avuto modo di affermare che comunque lo stesso
non è invocabile allorché l’altra condotta colposa abbia la sua origine
nell’omesso rispetto di norme cautelari, specifiche o comuni, da parte di chi
invoca tale principio. Quando il soggetto su cui grava l’obbligo di garanzia

determinazione dell’evento, unitamente alla condotta colposa di chi sia
intervenuto successivamente, persiste la responsabilità del primo soggetto, a
meno che possa affermarsi l’efficacia esclusiva della causa sopravvenuta,
che tuttavia deve avere avuto caratteristiche di eccezionalità tali da far venir
meno la situazione di pericolo originariamente provocata o tali da modificare
la pregressa situazione, a tal punto da escludere la riconducibilità al
precedente garante della scelta operata. In altri termini, per escludere la
continuità delle posizioni di garanzia, è necessario che il garante
sopravvenuto abbia posto nel nulla le situazioni di pericolo create dal
predecessore, o eliminandole o modificandole in modo tale da non poter
essere più attribuite al precedente garante (Sez. 4, n. 46824 del
26/10/2011, Castellano, Rv. 252140; Sez. 4, n. 27959 del 5/06/2008,
Stefanacci, Rv.240519).
Tale impostazione non può comunque prescindere dalla verifica in concreto
del nesso causale, tanto più che la stessa sentenza impugnata evidenzia in
particolare la “spiccata complessità” della vicenda, sottolineata “dal
fronteggiarsi delle opinioni più disparate da parte degli esperti”.
Di qui viepiù la necessità che fossero analiticamente prese in considerazione
le posizioni di ciascuno degli imputati e soprattutto – la sentenza sul punto
appare fortemente carente – indicata, per ciascuna delle posizioni prese in
considerazione, l’incidenza dei relativi comportamenti sul verificarsi
dell’evento.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte è “causa” di un evento
quell’antecedente senza il quale l’evento stesso non si sarebbe verificato: un
comportamento umano è dunque causa di un evento solo se, senza di esso,
l’evento non si sarebbe verificato (formula positiva); non lo è se, anche in
mancanza di tale comportamento, l’evento si sarebbe verificato egualmente
(formula negativa). Da questo concetto nasce la nozione di giudizio

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abbia posto in essere una condotta colposa,con efficienza causale nella

controfattuale ( “contro i fatti”), che è l’operazione intellettuale mediante la
quale, pensando assente una determinata condizione (la condotta
antigiuridica tenuta dell’imputato), ci si chiede se, nella situazione così
mutata, si sarebbe verificata, oppure no, la medesima conseguenza: se
dovesse giungersi a conclusioni positive, risulterebbe, infatti, evidente che la
condotta dell’imputato non costituisce causa dell’evento.
Il giudizio controfattuale costituisce, pertanto, il fondamento della teoria

Naturalmente, esso, imponendo di accertare se la condotta doverosa
omessa, qualora eseguita, avrebbe potuto evitare l’evento, richiede
preliminarmente l’accertamento di ciò che è effettivamente accaduto e cioè
la formulazione del c.d. giudizio esplicativo (Cass., Sez. 4, n. 23339 del 311-2013, Rv. 256941). Per effettuare il giudizio contrattuale, è quindi
necessario ricostruire, con precisione, la sequenza fattuale che ha condotto
all’evento.
In tema di responsabilità medica, è dunque indispensabile accertare il
momento iniziale e la successiva evoluzione della malattia, in quanto solo in
tal modo è possibile verificare se, ipotizzandosi come realizzata la condotta
dovuta dal sanitario, l’evento lesivo sarebbe stato evitato o posticipato
(Cass., Sez. 4, n. 43459 del 410-2012, Rv. 255008). L’importanza della
ricostruzione degli anelli determinanti della sequenza eziologica è stata
sottolineata, in giurisprudenza, laddove si è affermato che, alfine di stabilire
se sussista o meno il nesso di condizionamento tra la condotta del medico e
l’evento lesivo, non si può prescindere dall’individuazione di tutti gli elementi
rilevanti in ordine alla “causa” dell’evento stesso, giacchè solo conoscendo in
tutti i suoi aspetti fattuali e scientifici la scaturigine e il decorso della
malattia è possibile analizzare la condotta omissiva colposa addebitata al
sanitario per effettuare il giudizio controfattuale, avvalendosi delle leggi
scientifiche e/o delle massime di esperienza che si attaglino al caso concreto
( Cass., Sez. 4, 25.5.2005, Lucarelli). E, al riguardo, le Sezioni Unite, con
impostazione sostanzialmente confermata dalla giurisprudenza successiva,
hanno enucleato, per quanto attiene alla responsabilità professionale del
medico, relativamente al profilo eziologico, i seguenti principi di diritto: il
nesso causale può essere ravvisato quando, alla stregua del giudizio
controfattuale condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza
o di una legge scientifica – universale o statistica-, si accerti che,

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della causalità accolta dal nostro codice e cioè della teoria condizionalistica.

ipotizzandosi come realizzata dal medico la condotta doverosa, l’evento non
si sarebbe verificato, ovvero si sarebbe verificato ma in epoca
significativamente posteriore o con minore intensità lesiva. Non è però
consentito dedurre automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso
dalla legge statistica la conferma, o meno, dell’ipotesi accusatoria
sull’esistenza del nesso causale, poiché il giudice deve verificarne la validità
nel caso concreto, sulla base delle circostanze del fatto e dell’evidenza

escluso l’interferenza di fattori eziologici alternativi, risulti giustificata e
processualmente certa la conclusione che la condotta omissiva del medico è
stata condizione necessaria dell’evento lesivo con “alto grado di credibilità
razionale”. L’insufficienza, la contraddittorietà e l’incertezza del riscontro
probatorio sulla ricostruzione del nesso causale, quindi il ragionevole dubbio,
in base all’evidenza disponibile, sulla reale efficacia condizionante della
condotta del medico rispetto ad altri fattori interagenti nella produzione
dell’evento lesivo, comportano la neutralizzazione dell’ipotesi prospettata
dall’accusa e l’esito assolutorio del giudizio (Sez. U.,10.7.2002, Franzese).
Ne deriva che nelle ipotesi di omicidio o lesioni colpose in campo medico, il
ragionamento controfattuale deve essere svolto dal giudice in riferimento
alla specifica attività (diagnostica, terapeutica, di vigilanza e salvaguardia dei
parametri vitali del paziente o altro) che era specificamente richiesta al
sanitario e che si assume idonea, se realizzata, a scongiurare o ritardare
l’evento lesivo, come in concreto verificatosi, con alto grado di credibilità
razionale (Cass.,Sez.4,n. 30649 del 13-6-2014, Rv. 262239). Sussiste,
pertanto, il nesso di causalità tra l’omessa adozione, da parte del medico, di
misure atte a rallentare o bloccare il decorso della patologia e il decesso del
paziente, allorché risulti accertato, secondo il principio di controfattualità,
condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge
scientifica, universale o statistica, che la condotta doverosa avrebbe inciso
positivamente sulla sopravvivenza del paziente, nel senso che l’evento non si
sarebbe verificato ovvero si sarebbe verificato in epoca posteriore o con
modalità migliorative, anche sotto il profilo dell’intensità della sintomatologia
dolorosa (Cass., Sez. 4, n. 18573 del 14-2-2013, Rv. 256338).

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disponibile, cosìcchè, all’esito del ragionamento probatorio, che abbia altresì

La tematizzazione di tali profili è del tutto estranea al tessuto motivazionale
della pronuncia impugnata, che si limita alla ricostruzione degli eventi ed al
succedersi degli stessi, anziché soffermarsi adeguatamente sulla problematica
relativa al nesso causale e, quindi, al giudizio controfattuale, in relazione ad ogni
singola posizione dei sanitari intervenuti. In particolare è carente la
individuazione del momento dal quale doveva essere calcolato il tempo utile ad

avrebbe avuto valenza impeditiva rispetto all’evento luttuoso. E ciò, in
particolare, occorre ribadire, con riferimento alla posizione di ogni singolo
imputato.
E’ dunque da ravvisarsi il vizio di mancanza di motivazione, riscontrabile non
solo allorchè quest’ultima venga completamente omessa ma anche quando sia
priva di singoli momenti esplicativi in ordine ai temi sui quali deve vertere il
giudizio (Cass., Sez. 6, n. 27151 del 27-6-2011; Sez. 6, n. 35918 dei 17-62009, Rv. 244763).
Tali considerazioni conducono necessariamente all’annullamento agli effetti civili,
con conseguente rinvio al giudice civile competente per valore in grado di
appello, della gravata sentenza nei confronti degli imputati di cui è stata
affermata la responsabilità (ad eccezione, per quanto si dirà del De Luca) e del
responsabile civile, ma anche nei confronti di coloro i quali (Zuccarello Biagio e
Centorrino Antonio) all’esito del giudizio di appello, è stata pronunciata sentenza
di assoluzione. Anche sul punto la sentenza impugnata è infatti particolarmente
carente, soprattutto ove si consideri che la Corte territoriale è pervenuta a
sovvertire il giudizio del primo giudice sul punto senza adeguatamente
confrontarsi e con le motivazioni della sentenza di primo grado (cfr. pagg. 32 e
ss. della sentenza del tribunale) e con le deduzioni delle parti civili ribadite in
questa sede. Nell’ipotesi come quella in esame, infatti, in cui il giudice di
appello, per diversità di apprezzamenti, per l’apporto critico delle parti e o per le
nuove eventuali acquisizioni probatorie, ritenga di pervenire a conclusioni
diverse da quelle accolte dal giudice di primo grado, il problema della
motivazione della decisione non può essere risolto inserendo nella struttura
argomentativa di quella di primo grado – genericamente richiamata – delle
notazioni critiche di dissenso, in una sorta di ideale montaggio di valutazioni ed
argomentazioni fra loro dissonanti, essendo invece necessario che il giudice di
secondo grado riesamini, sia pure in sintesi, il materiale probatorio vagliato dal
giudice di primo grado, considerando quello eventualmente sfuggito alla sua

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un eventuale intervento salvifico, nonché delle ragioni per le quali questo

delibazione e quello ulteriormente acquisito, per dare, riguardo alle parti della
prima sentenza non condivise, una nuova e compiuta struttura motivazionale
che dia ragione delle difformi conclusioni (v. Sezioni unite, 4 febbraio 1992,
Musumeci ed altri, Rv. 121229) Sez. 4, n. 35922 del 11/07/2012, Rv. 254617.
Restano invece assorbite le questioni circa l’applicabilità della legge Balduzzi
(ritenuta più favorevole della Gelli) affrontate nei motivi nuovi proposti da De
Luca e Crisafulli, come pure quelle attinenti le questioni risarcitorie.

per questo giudizio di cassazione.
A diverse conclusioni deve pervenirsi – come già si è accennato-

con

riferimento alla posizione del ricorrente De Luca Filippo. La stessa Corte
territoriale sul punto sottolinea, in generale, come il primario non abbia l’obbligo
di dover valutare tutti i casi che entrano in reparto, a meno che non gli venga
segnalata la portata anomala di qualcuno di essi ed in particolare come egli non
abbia mai visitato il bambino né sia stato coinvolto nella gestione del caso dagli
altri medici. Tuttavia egli sarebbe comunque responsabile, sostanzialmente, per
essere venuto meno agli obblighi di vigilanza connessi alla sua posizione.
Osserva a riguardo la Corte : il medico in posizione apicale sulla base della
disciplina di settore attualmente vigente, ha, oltre che compiti medico-chirurgici
propri, anche l’obbligo di dividere il lavoro fra sé e gli altri medici del reparto e
di verificare che le direttive e istruzioni che impartisce relativamente alle
prestazioni di diagnosi e cura che devono essere effettuate siano correttamente
attuate.
I possibili profili di colpa in cui il medico in posizione apicale può incorrere sono
quindi di vario genere, ma riconducibili a due macrocategorie: la c.d. culpa in
eligendo e la c.d. culpa in vigilando. • In caso di evento infausto, dovuto alla
condotta colposa del medico affidatario, incorrerà in responsabilità anche il
medico in posizione apicale, avendo concausato colposamente l’evento infausto
attraverso l’inadeguata divisione del lavoro (culpa in eligendo) con la violazione
di regole prudenziali che operano in un momento precedente all’inizio
dell’attività pericolosa, nel senso che orientano la scelta del soggetto al quale è
possibile affidare lo svolgimento» di una determinata attività
Ove invece viene violata la regola di diligenza volta a disciplinare la condotta
altrui, si ha un’ipotesi di culpa in vigilando.
Nella specie la culpa in eligendo è comunque estranea al thema decidendum,
essendo appunto stata addebitata al De Luca la violazion e dell’obbligo di
vigilanza.

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Il giudice civile provvederà anche alla regolamentazione delle spese tra le parti

Deve quindi escludersi che il medico di vertice abbia effettivamente in carico la
cura di tutti i malati ricoverati nel proprio reparto. L’organizzazione del lavoro
attraverso l’assegnazione dei pazienti (anche) ad altri medici assolve ad una
funzione di razionalizzazione dell’erogazione del servizio sanitario: con lo
strumento dell’assegnazione, il primario suddivide con precisione ruoli e
competenze all’interno del reparto. Il che, peraltro, risponde anche ad esigenze
di carattere prettamente cautelare, essendo dei tutto evidente che il singolo

specificamente incaricati di seguirne il decorso patologico e diagnosticoterapeutico.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte il medico in posizione apicale con
l’assegnazione dei pazienti opera una vera e propria «delega di funzioni
impeditive dell’evento» in capo al medico in posizione subalterna.( Sez. IV, 28
giugno 2007, n. 39609, Rv. 237832, in cui si legge che gli obblighi di garanzia
connessi all’esercizio della organizzazione ospedaliera consentono al medico in
posizione apicale di trasferire al medico subordinato funzioni mediche di alta
specializzazione o la direzione di intere strutture semplici (con riferimento al
medico in posizione intermedia) oppure la cura di singoli pazienti ricoverati nella
struttura (con riferimento al medico in posizione iniziale). Ovviamente anche
attraverso detta delega il medico apicale “delegante” non si libera
completamente della propria originaria posizione di garanzia, conservando una
posizione di vigilanza, indirizzo e controllo sull’operato dei delegati. Obbligo di
garanzia che si traduce, in definitiva, nella verifica del corretto espletamento
delle funzioni delegate e nella facoltà di esercitare il residuale potere di
avocazione alla propria diretta responsabilità di uno specifico caso clinico.
l’obbligo di verificare il corretto espletamento dell’incarico pur delegato a
persona competente.
Proprio in questo genere di ipotesi si innesta il limite all’operatività del principio
di affidamento. Chi abbia istituzionalmente un obbligo di controllo dell’altrui
operato non potrebbe confidare nella sua correttezza, assurgendo questa
proprio ad oggetto della propria vigilanza.
Inteso in termini, il dovere di controllo segna un limite apparentemente
invalicabile all’applicazione del principio di affidamento. Questo principio esclude
di regola la configurabilità di obblighi di diligenza aventi ad oggetto la condotta
altrui; e non dovrebbe, logicamente, operare nei casi in cui i doveri cautelari
incombenti sul soggetto considerato contemplino proprio la vigilanza sulla
correttezza del comportamento di coloro con cui si trovi a cooperare.

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paziente potrà ricevere cure più efficaci ed efficienti se ha a disposizione medici

Il problema che si pone in questi casi consiste nei comprendere se la presenza
di obblighi di controllo sull’operato altrui escluda completamente la possibilità di
fare affidamento sulla altrui diligenza, con conseguente configurabilità di una
cooperazione colposa in caso di evento infausto derivante dall’altrui condotta
inosservante non percepita né emendata.
Tuttavia ipotizzare un obbligo di controllo tanto pervasivo da non consentire
alcun margine di affidamento sulla correttezza dell’operato altrui significa

lesivo possa occorrere nel reparto affidato alla sua direzione. ciò, a prescindere
da fattori quali le dimensioni della struttura, il numero di pazienti ricoverati,
l’assegnazione degli stessi a medici di livello funzionale inferiore ma comunque
dotati per legge di un’autonomia professionale il cui rispetto è imposto alla
stessa figura apicale.
Pertanto deve ritenersi che allorchè il medico apicale abbia correttamente svolto
i propri compiti di organizzazione, direzione, coordinamento e controllo e,
ciononostante, si verifichi un evento infausto causato da un medico della propria
struttura, di detto evento debba rispondere eventualmente unicamente il medico
o i medici subordinati. Ravvisare infatti una responsabilità penale del medico in
posizione apicale anche in questi casi significa accettare una ipotesi di
responsabilità per posizione, in quanto non può pretendersi che il vertice di un
reparto possa controllare costantemente tutte le attività che ivi vengono svolte,
anche per la ragione, del tutto ovvia, che anch’egli svolge attività tecnicoprofessionale.
In tal caso, appare evidente il rischio di contrasto col principio di responsabilità
penale personale, ex art. 27, comma I Cost.
Nel caso in esame dalle stesse indicazioni contenute nella sentenza impugnata
emerge che i fatti si svolsero in un ambito temporale ristretto, che il De Luca
non ebbe modo di visitare direttamente il paziente, che nulla a riguardo gli fu
segnalato dai medici della struttura.
La sentenza impugnata va pertanto annullata senza rinvio (non essendo possibili
ulteriori approfondimenti) nei confronti di De Luca Filippo per non aver
commesso il fatto.

P.Q.M.
annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di De Luca Filippo per
non aver commesso il fatto.
Annulla agli effetti civili la medesima sentenza nei confronti di Crisafulli
Giuseppe, Lucanto Cristina, Chimenz Roberto, Zuccarello Biagio e Centorrino

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esporre a responsabilità penale il medico in posizione apicale per ogni evento

Antonio, nonché nei confronti del Responsabile Civile, con rinvio al giudice civile
competente per valore in grado di appello, cui rimette anche il regolamento
delle spese tra le parti per questo giudizio di Cassazione

Così deciso nella camera di consiglio del 21 giugno 2017

IL CONSIGLIERE ESTE SORE

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(dott. Francesco Ma Cyampi)
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