Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 18306 del 15/01/2018


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Penale Sent. Sez. 1 Num. 18306 Anno 2018
Presidente: CASA FILIPPO
Relatore: RENOLDI CARLO

SENTENZA
sul ricorso proposto da
ABBRUZZO Salvatore, nato a Catanzaro il 5/07/1977,
avverso l’ordinanza del Tribunale del riesame di Catanzaro in data 1516/06/2017;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Carlo Renoldi;
udite le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del sostituto Procuratore
generale, dott. Paolo Canevelli, che ha chiesto il rigetto del ricorso;
udito, per l’indagato, l’avv. Salvatore Staiano, il quale ha insistito nel ricorso,
chiedendone l’accoglimento.
RITENUTO IN FATTO
1. Con ordinanza in data 18/05/2017, il Giudice per le indagini preliminari del
Tribunale di Catanzaro non convalidò il fermo di indiziato di delitto disposto, con
decreto del 12/05/2017, dalla Procura della Repubblica presso il medesimo
tribunale nei confronti, tra gli altri di Salvatore ABBRUZZO (noto Tubetto).
Nondimeno, con lo stesso provvedimento, costui fu sottoposto alla misura della
custodia cautelare in carcere in relazione al delitto di cui all’art. 416-bis, commi
1, 2, 3, 4 e 5 del codice penale, per avere organizzato e partecipato unitamente, tra gli altri, a Leonardo CATARISANO (Nando), Francesco
GUALTIERI e Andrea GUARNIERI – all’associazione di stampo mafioso di tipo
‘ndranghetistico denominata “Cosca CATARISANO”, operante nel territorio di
Roccelletta di Borgia (ove avrebbe tuttora epicentro) e nei territori limitrofi, sotto

Data Udienza: 15/01/2018

l’influenza, nell’alternarsi dei vari equilibri criminali, delle locali di ‘ndrangheta di
Cutro e Isola Capo Rizzuto; associazione la quale si avvarrebbe, secondo
l’imputazione cautelare, della forza di intimidazione derivante dal vincolo
associativo e della conseguente condizione di assoggettamento e di omertà, per
commettere una serie indeterminata di delitti, in particolare contro il patrimonio,
in materia di armi, stupefacenti, estorsioni, nonché per acquisire, in modo diretto
o

indiretto, la gestione o comunque il controllo di attività economiche,

infiltrandosi nei diversi ambiti commerciali e imprenditoriali, compresi i settori

opere pubbliche o private, nonché delle forniture per servizi vari sul territorio.
Invero, secondo il giudice della cautela, erano stati acquisiti gravi indizi di
colpevolezza in relazione al fatto che Salvatore ABBRUZZO avesse assunto un
ruolo apicale all’interno del sodalizio, unitamente a Leonardo CATARISANO, che
egli avrebbe coadiuvato nell’organizzazione e nella direzione del gruppo
criminale, in particolare assumendo, unitamente al capocosca, le decisioni più
rilevanti della vita dell’organizzazione, pianificando le vicende estorsive anche in
relazione alle stesse modalità esecutive; rappresentando la cosca nei rapporti
con le altre organizzazioni mafiose e mantenendo rapporti diretti sia con
l’esponente di vertice della locale di

‘ndrangheta di Curto, Nicolino GRANDE

ARACRI, sia con l’attuale reggente della locale di

‘ndrangheta di Isola di Capo

Rizzuto, Paolo LENTINI; dirigendo le azioni da compiere nel territorio di
riferimento e impartendo puntuali disposizioni agli altri associati a loro
subordinati, concorrendo a conservare ed esaltare l’operatività della cosca, ad
accrescere fa forza economica della medesima, onde rafforzarne la capacità di
azione.
2. Con ordinanza emessa in data 15-16/06/2017, il Tribunale del riesame di
Catanzaro rigettò il gravame proposto nell’interesse dello stesso ABBRUZZO,
ritenendo riscontrati i gravi indizi di colpevolezza in relazione alla esistenza della
fattispecie associativa ed al ruolo dell’indagato, avuto riguardo, in particolare alle
convergenti, quantomeno su molti punti qualificanti, dichiarazioni di alcuni
collaboratori (quali Raffaele MOSCATO, Gennaro PULICE, Francesco FIORENTINO
e Santo MIRARCHI) e sui riscontri offerti da un cospicuo materiale intercettativo;
e ravvisando, in virtù della presunzione stabilita dall’art. 275 cod. proc. pen., le
esigenze cautelari connesse al pericolo di reiterazione di reati della stessa specie.
3. Avverso il predetto provvedimento ha proposto ricorso per cassazione
Salvatore ABBRUZZO a mezzo dei difensori fiduciari, avv.ti Antonio LOMONACO e
Salvatore STAIANO, deducendo tre distinti motivi di impugnazione, di seguito
enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp.
att. cod. proc. pen..

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dei villaggi turistici e delle attività recettive, delle forniture per la realizzazione di

3.1. Con il primo motivo, il ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 606, comma
1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., la inosservanza o erronea applicazione della
legge processuale penale in relazione agli artt. 125, 192 e 274 cod. proc. pen.,
nonché la apparenza e contraddittorietà della motivazione in relazione alla
configurabilità dei gravi indizi di colpevolezza circa l’esistenza della ipotizzata
cosca indranghetistica denominata “CATARISANO” e circa l’appartenenza ad essa
di Salvatore ABBRUZZO. Dopo avere censurato la preliminare ricostruzione delle
vicende criminali della c.d. “Cosca ARENA” (le quali, riepilogate anche alla

apoditticamente intrecciate, senza adeguata spiegazione, con quelle della “Cosca
CATARISANO”), il ricorrente denuncia la confusa rievocazione delle vicende della
cosca di Roccelletta di Borgia, riferibili a un contesto spazio-temporale estraneo
alla contestazione cautelare, sottolineando, in particolare: a) le aporie della
ricostruzione (in particolare per quanto concerne il favoreggiamento di
Massimiliano FALCONE asseritamente svolto da ABBRUZZO e GUALTIERI,
nonostante che questi ultimi avessero fatto parte, secondo l’ipotesi di accusa,
della fazione di CATARISANO, in lotta con quella dei COSSARI, nella quale
FALCONE avrebbe rivestito un ruolo di primo piano; ricostruzione fondata sul
racconto dei collaboratori, ma rimasta priva di qualunque concreto riscontro
indiziario); b) l’illegittima utilizzazione del materiale indiziario e probatorio tratto
da altri procedimenti a carico della cosca COSSARI e dei coindagati COSCO e
VALEO, relativi alla esistenza di una

‘ndrina

nel territorio di Roccelletta

(utilizzazione che sarebbe illegittima in quanto, in tali procedimenti, l’odierno
ricorrente non avrebbe assunto alcun ruolo formale); c) l’illegittima utilizzazione
dei contenuti dichiarativi dei chiamanti in reità (Raffaele MOSCATO, Gennaro
PULICE, Francesco FIORENTINO e Santo MIRARCHI), non sottoposta alla
valutazione di credibilità soggettiva e di attendibilità intrinseca ed estrinseca
richiesta dalla giurisprudenza di legittimità, in specie in relazione alla dedotta
possibilità, per ciascuno dei dichiaranti, di accedere alle carte processuali di altri
procedimenti e, dunque, al relativo patrimonio conoscitivo. Con specifico
riferimento ai contributi dei singoli dichiaranti, il ricorrente ha, poi, osservato: 1)
quanto a MOSCATO, che il Tribunale del riesame non ne avrebbe valutato il
percorso collaborativo, la personalità, la situazione socio-economica,
l’attendibilità intrinseca ed estrinseca, in particolare con riferimento alle
confidenze ricevute da COSCO e VALEO sulla composizione del gruppo di
CATARISANO e sulla guerra di mafia tra quest’ultimo e quello dei COSSARI,
senza considerare che molti dei particolari raccontati sarebbero stati accessibili
attraverso la stampa e che, in ogni caso, non sarebbe stata valutata la sincerità
della collaborazione in rapporto all’interesse a lucrare un trattamento di favore;
2) quanto a PULICE, che anche in questo caso il tribunale avrebbe omesso

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stregua delle dichiarazioni del collaboratore Santo MIRARCHI, sarebbero state

qualunque vaglio specifico circa il contenuto delle sue dichiarazioni, in specie sul
versante dei riscontri estrinseci all’episodio dell’incarico, datogli da Domenico
COSSARI, di uccidere Salvatore ABBRUZZO in occasione di un matrimonio,
atteso che nel periodo 2010-2011 vi era stato un solo ricevimento al quale,
peraltro, ABBRUZZO aveva partecipato, diversamente da quanto raccontato da
PULICE; 3) quanto a Francesco FIORENTINO, oltre a non avere valutato la
personalità del dichiarante, tossicodipendente e inaffidabile, il tribunale non
avrebbe considerato l’evidente illogicità delle sue affermazioni, avendo egli fatto i

sottolineato di non farne parte, fermo restando che, anche in questo caso,
l’episodio da lui raccontato relativo all’incontro con Nicolino GRANDE ARACRI, al
vertice della famiglia di Cutro, sarebbe stato conoscibile da atti ormai già
pubblici; 4) quanto, infine, a Santo MIRARCHI (unico tra i collaboratori a fare
riferimento al ruolo di GUARNIERI, indicato come braccio destro di ABBRUZZO),
la mancanza di una verifica sulla attendibilità, la inverosimiglianza di alcune
propalazioni (quali quella relativa alla protezione della latitanza di FALCONE di
cui si è detto), l’assenza di riscontri circa le presunte attività estorsive che
sarebbero state agite dal sodalizio, l’inverosimiglianza di un incontro tra Nicola
GRANDE ARACRI e ABBRUZZO in vista di una riunione svoltasi, nel marzo 2016,
con Paolo LENTINI, reggente della “Cosca Arena”, atteso che tra le due cosche
sarebbe stata accertata giudizialmente una storica inimicizia, l’inconcludenza
degli elementi indicati dal tribunale per dimostrare la raggiunta pax mafiosa tra i
due gruppi di Roccelletta e Vallefiorita, stretta sotto l’egida del menzionato
LENTINI. Fermo restando, a ulteriore riprova dell’inattendibilità delle loro
dichiarazioni, che tutti i chiamanti in reità sarebbero appartenenti ad altri
contesti delinquenziali ed avrebbero singolarmente riferito in relazione al gruppo
criminale indicato in contestazione.
Sotto altro profilo, non concludenti, dato il loro carattere equivoco, sarebbero
le intercettazioni ambientali, come quelle relative alle conversazioni tra CELI e
SCHIACCHITANO e tra CATALANO e FIORENTINO. Né sarebbero significative le
intercettazioni del 2012 relative a Nicola GRANDE ARAI, che non sarebbero
dimostrative dell’esistenza del sodalizio criminoso in contestazione. E quanto alle
conversazioni tra GUALTIERI e GUARNIERI, ritenute riconducibili ad un affiato di
pedagogia mafiosa, si tratterebbe, invero, di innocenti chiacchiere su come
affrontare le difficoltà della vita; così come nella successiva intercettazione,
relativa a una conversazione occorsa poco più tardi, i due avrebbero discusso
delle tecniche del gioco elettronico del

Pokemon e non della spartizione di

competenze mafiose.
Equivoco sarebbe, infine, il dato della accertata frequentazione tra i soggetti
ritenuti affiliati alla cosca, tenuto anche conto del ristretto contesto paesano che
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nomi di alcuni degli affiliati alla cosca pur avendo contraddittoriamente

connotava i rapporti tra essi e, comunque, l’impossibilità di inferire da tale dato
l’elemento qualificante sul piano della fattispecie contestata e della
partecipazione al sodalizio, la quale richiederebbe una stabile compenetrazione
del soggetto indiziato nel tessuto organizzativo dell’associazione.
3.2. Con il secondo motivo, la difesa di ABBRUZZO censura, ex art. 606,
comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., la inosservanza o erronea applicazione
della legge penale e processuale in relazione agli artt. 125 cod. proc. pen. e 416-

bis cod. pen., nonché la apparenza della motivazione in relazione all’esistenza

alla stessa dell’indagato, finanche con un ruolo di vertice; profili in relazione ai
quali vi sarebbe stata una totale pretermissione degli indici di elaborazione
giurisprudenziale che concernono la configurabilità del sodalizio mafioso e il ruolo
partecipativo del singolo associato, essendo stato apoditticamente affermato, ma
senza alcun riscontro, che l’organizzazione esercitasse una forma di
intimidazione sul territorio, imponendovi una dilagante omertà e
condizionandone il tessuto economico, che il sodalizio fosse dedito a una serie
assai variegata di comportamenti illeciti, laddove, ad esempio, le intercettazioni
ambientali con Nicola GRANDE ARACRI sarebbero relative ad un unico, isolato,
episodio, riferibile a comportamenti individuali e non indicativi dell’esistenza di
un gruppo criminale organizzato.
Quanto, poi, al ruolo rivestito da ABBRUZZO all’interno del sodalizio, non
sarebbe stato chiarito quale contributo egli abbia prestato a favore
dell’associazione, né le relative coordinate spazio-temporali. In questo modo,
parrebbe che i giudici calabresi si siano omologati al minoritario indirizzo
interpretativo, accolto in alcune sentenze, in particolare, della II e V Sezione di
questa Corte, secondo cui non sarebbe necessario, ai fini della configurazione
della fattispecie associativa, la esteriorizzazione del metodo mafioso, essendo
sufficiente la mera potenzialità del vincolo associativo, nonché, quanto al ruolo
del singolo partecipe, il semplice mettersi a disposizione, a tempo indeterminato,
rispetto agli interessi dell’associazione, senza che assuma rilevanza l’apporto,
dinamico e funzionale, alla vita della consorteria. Per questa via, sarebbe,
dunque, necessario che il Collegio rimettesse alle Sezioni unite di questa Corte la
questione dei requisiti qualificanti della fattispecie associativa e della condotta
partecipativa, stante il rilevante contrasto su tali profili registratosi in seno alla
giurisprudenza di legittimità.
3.3. Con il terzo motivo, il ricorrente si duole, ai sensi dell’art. 606, comma 1,
lett. b) ed e), cod. proc. pen., della inosservanza o erronea applicazione della
legge processuale penale in relazione agli artt. 125 e 274 cod. proc. pen. nonché
della apoditticità della motivazione in relazione alla sussistenza delle esigenze
cautelari. Benché lo stesso Tribunale del riesame abbia affermato il carattere

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degli elementi sintomatici sia della associazione mafiosa, sia della partecipazione

relativo della presunzione, correlata alla contestazione di una fattispecie di
associazione mafiosa, l’ordinanza impugnata non avrebbe motivato in relazione
agli elementi che la confermerebbero; motivazione viepiù necessaria dinnanzi
alla omessa indicazione di operatività specifica del sodalizio ovvero di
esternazione n’dranghetistica.

CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è infondato e, pertanto, deve essere respinto.
Giova preliminarmente ribadire, quale generale cornice di principio in

materia di motivazione dei provvedimenti in tema di misure cautelari personali e
di controllo di legittimità sugli stessi, che non è affetta da vizio di motivazione
l’ordinanza del tribunale del riesame la quale confermi, in tutto o in parte, il
provvedimento impugnato, recependone in maniera sostanzialmente integrale le
argomentazioni, perché in tal caso i due atti si integrano reciprocamente, ferma
restando la necessità che le eventuali carenze di motivazione dell’uno risultino
sanate dalle argomentazioni utilizzate dall’altro (ex plurimis Sez. 3, n. 8669 del
15/12/2015, dep. 3/03/2016, Belringieri, Rv. 266765; Sez. 6, n. 48649 del
6/11/2014, dep. 24/11/2014, Beshaj ed altri, Rv. 261085; Sez. 2, n. 774 del
28/11/2007, dep. 9/01/2008, Beato, Rv. 238903).
3.

Muovendo, secondo l’ordine logico, dall’analisi del primo motivo di

doglianza, osserva il Collegio che, diversamente dall’ordinanza del tribunale del
riesame, la quale ha riportato unicamente il contenuto delle dichiarazioni dei
collaboratori e delle risultanze dell’attività di intercettazione, il provvedimento
genetico si è puntualmente confrontato con la necessità, imposta dalla
giurisprudenza di questa Corte, di sottoporre ad un attento vaglio, alla stregua di
cadenze logico-valutative ormai consolidate, le dichiarazioni compiute dai
chiamanti in reità.
Invero, in tema di valutazione della chiamata in reità o correità in sede
cautelare, le dichiarazioni accusatorie rese dal coindagato o coimputato nel
medesimo reato o da persona indagata o imputata in un procedimento connesso
o collegato, integrano i gravi indizi di colpevolezza di cui all’art. 273, comma 1,
cod. proc. pen. – in virtù dell’esplicito richiamo all’art. 192, commi 3 e 4, operato
dall’art. 273, comma 1-bis, cod. proc. pen., introdotto dall’art. 11 della legge n.
63 del 2001 – quando le stesse siano state innanzitutto sottoposte ad un positivo
scrutinio circa la credibilità soggettiva del dichiarante e l’attendibilità oggettiva
delle sue dichiarazioni (Sez. U, n. 20804 del 29/11/2012, dep. 14/05/2013,
Aquilina e altri, Rv. 255145, secondo cui “tale percorso valutativo non deve
muoversi attraverso passaggi rigidamente separati, in quanto la credibilità
soggettiva del dichiarante e l’attendibilità oggettiva del suo racconto devono
essere vagliate unitariamente, non indicando l’art. 192, comma 3, cod. proc.

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2.

pen., alcuna specifica tassativa sequenza logico-temporale”); e quando esse
risultino corroborate da riscontri estrinseci individualizzanti, tali cioè da attribuire
capacità dimostrativa e persuasività probatoria in ordine all’attribuzione del
fatto-reato al soggetto destinatario di esse, ferma restando la diversità
dell’oggetto della delibazione cautelare, preordinata a un giudizio prognostico in
termini di ragionevole e alta probabilità di colpevolezza del chiamato, rispetto a
quella di merito, orientata invece all’acquisizione della certezza processuale in
ordine alla colpevolezza dell’imputato (Sez. U, n. 36267 del 30/05/2006, dep.

successiva, tra le tante, Sez. 2, n. 11509 del 14/12/2016, dep. 9/03/2017, P.M.
in proc. Djorjevic, Rv. 269683; Sez. 5, n. 50996 del 14/10/2014, dep.
4/12/2014, Scalia, Rv. 264213).
3.1. Sotto questo profilo, rileva il Collegio che il primo giudice ha in primo
luogo passato in rassegna, in maniera analitica ed approfondita, il contributo di
ciascuno dei dichiaranti, onde vagliare la credibilità soggettiva di ciascuno di essi
e l’intrinseca attendibilità del relativo racconto.
3.1.1. Quanto a Raffaele MOSCATO l’ordinanza genetica ha sottolineato:
a) con riferimento al profilo della credibilità soggettiva, che il collaboratore
aveva rivestito, fino al momento dell’arresto, un ruolo di primo piano
nell’associazione dei Piscopisani, ruolo che gli aveva consentito di essere messo
a conoscenza di numerosi episodi anche delittuosi, dei quali egli, peraltro, si era
anche autoaccusato; che, inoltre, i suoi rapporti con i chiamati in reità erano
stati improntati, fino all’arresto, al rispetto reciproco e a un rapporto di
solidarietà criminale tra appartenenti a cosche diverse, sicché egli non avrebbe
avuto alcun motivo per calunniare ABBRUZZO e GUALTIERI; che anche la genesi
della collaborazione, si connotava per l’assoluta spontaneità di una scelta
ricollegata alla volontà di un cambio di vita e alla necessità impellente di
salvaguardare i congiunti da possibili azioni di ritorsione da parte di gruppi rivali;
b) con riguardo alla attendibilità intrinseca, le sue dichiarazioni sono state
ritenute coerenti e spontanee, conformemente alla ricordata genesi, oltre che di
solida consistenza e precisione, anche nella indicazione delle fonti de relato da
cui egli avrebbe appreso alcuni episodi.
3.1.2. Quanto a Gennaro PULICE, il giudice della cautela ha osservato:
a) con riferimento al profilo attinente alla credibilità soggettiva, che il
collaboratore, al di là dell’analiticità e della precisione delle dichiarazioni (v.
infra), è stato un esponente di primo piano della “cosca IANNAZZO” di Lamezia
Terme, il quale ha vissuto, per un lungo periodo, nel capoluogo catanzarese,
venendo a conoscenza delle locali dinamiche criminali; che, con riferimento alla
genuinità della sua collaborazione, egli si è accusato di un omicidio rispetto al
quale non era sospettato di essere stato l’esecutore; che le notizie fornite erano
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31/10/2006, P.G. in proc. Spennato, Rv. 234598 e, nella giurisprudenza

riconducibili a una assidua frequentazione dei componenti della cosca, sia pure
della fazione rivale dei COSSARI, e a una piena compenetrazione nelle dinamiche
criminali di Borgia, avendo compiuto materialmente l’omicidio di Rosario
PASSAFARO commissionato da Salvatore COSSARI, dal quale aveva ricevuto
confidenze sulla situazione criminale nel comprensorio; elementi questi che,
secondo la niente affatto illogica conclusione del giudice della cautela, sono stati
ritenuti indicativi dell’assoluta credibilità soggettiva del dichiarante, anche per
l’assenza di particolari motivi di astio nei confronti dei chiamati in reità o di

b) con riguardo alla attendibilità intrinseca, è stato osservato come le
dichiarazioni rese da PULICE spiccassero per “precisione e analiticità” e come
fossero “prive di discordanze logiche”, giustificando, pienamente, un giudizio
positivo di attendibilità intrinseca.
3.1.3. Quanto a Santo MIRARCHI, il giudice della cautela ha, ancora,
osservato:
a) con riferimento alla credibilità soggettiva, che il collaboratore ha fornito
notizie recenti e di cui aveva conoscenza diretta per avere partecipato a incontri
e attività delittuose e per avere condiviso, con Paolo LENTINI (detto “pistola”),
alcuni periodi di detenzione presso la Casa circondariale di Catanzaro; che la sua
collaborazione deve considerarsi pienamente spontanea, per avere egli deciso
autonomamente di collaborare con l’autorità giudiziaria;
b) con riguardo alla attendibilità intrinseca, le dichiarazioni si sono rivelate
precise (avendo lo stesso collaboratore messo a disposizione, in relazione alla
cosca di appartenenza e alla relativa articolazione territoriale dallo stesso
coordinata, le proprie conoscenze quanto ad appartenenti, gerarchie, attività
illecite d’elezione, alleanze, tensioni, luoghi deputati alle riunioni organizzative,
vittime di reati ad essa riconducibili ecc.), coerenti (non rinvenendosi
significative contraddizioni al suo narrato, salvo piccole ed inevitabili imprecisioni
dovute al numero elevatissimo di vicende criminali cui ha fatto riferimento),
costanti (non essendoci stati ripensamenti di sorta in relazione a quanto in
precedenza riferito, ed anzi ad ogni successivo interrogatorio l’apporto
collaborativo arricchendosi di novità, dettagli, precisazioni, secondo una
progressione dichiarativa consueta nella fase iniziale delle nuove collaborazioni,
che come hanno sottolineato i pubblici ministeri si connotano per il “graduale
accrescimento della consapevolezza collaborativa e parallelamente [per la]
maggiore sicurezza per sé e per i soggetti a lui più vicini con la manifestazione
della piena volontà di rendere dichiarazioni, anche autoaccusatorie, sempre più
esaustive”), senza che da esse emergessero motivi di astio che potessero far
ipotizzare intenti calunniatori.

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accertati intenti calunniatori;

3.2. Le dichiarazioni dei menzionati collaboratori sono state attentamente
vagliate anche con riferimento al profilo dei riscontri estrinseci.
3.2.1. Quanto a MOSCATO, si è osservato come, al di là del riscontro
reciproco con le dichiarazioni degli altri collaboratori (v. Infra), il suo racconto in
merito alle confidenze ricevute da COSCO e VALE° sul gruppo di Borgia trovasse
conferma: nell’accertamento del fatto che, in alcuni periodi, MOSCATO era stato
detenuto nello stesso istituto di COSCO e VALEO; nel fatto che, essendo stati gli
ultimi due condannati per il tentato omicidio di COSSARI, sorto nell’ambito della

agguato ai danni di ABBRUZZO e GUALTIERI, fosse verosimile che essi fossero a
conoscenza delle dinamiche della cosca di Borgia; nella considerazione che essi
non avrebbero avuto ragione di riferire il falso a MOSCATO, sicché doveva
ritenersi improbabile che le loro dichiarazioni fossero calunniose; nel fatto che le
dichiarazioni rese da COSCO e VALEO nel corso dell’udienza di convalida,
secondo cui MOSCATO sarebbe stato visto leggere le sentenze relative alla
condanna dei due per il tentato omicidio di Salvatore COSSARI, mentre si
trovava, in tempi diversi, in cella con loro, fossero chiaramente inattendibili,
considerato che le dichiarazioni del collaboratore riguardavano anche altri profili
rispetto a quelli decisi nelle menzionate sentenze di condanna (dal
mantenimento ricevuto da VALE° durante la detenzione, all’organigramma della
cosca, al conferimento di doti di

‘ndrangheta etc.), fermo restando che gli

incontri di MOSCATO con i due erano avvenuti ben prima della decisione di
quest’ultimo di collaborare.
3.2.2. Quanto a Santo MIRARCHI, l’ordinanza ha riassuntivamente richiamato
i seguenti riscontri estrinseci: 1) gli elementi indiziari relativi al suo ruolo
criminale, tra cui, in particolare, le intercettazioni a bordo dell’autovettura di
Ignazio CATALANO con Alex FRONGIA, quelle tra lo stesso MIRARCHI e Armando
ABRUZZESE, quelle relative ai colloqui carcerari di Antonio GIGLIO, nell’ambito
dei quali egli aveva inveito proprio contro MIRARCHI per esser venuto meno
all’obbligo di soccorso economico tra sodali, su di lui incombente in virtù del suo
ruolo apicale; 2) le intercettazioni a bordo dell’autovettura di Paolo LENTINI e, in
particolare, la conversazione del 15/03/2016 tra costui e il figlio Vincenzo,
riscontranti i luoghi (in particolare il cantiere di LEONETTI sito in Germaneto) ove
i catanzaresi ospitavano gli isolitani venuti a discutere delle questioni criminali di
loro interesse.
3.2.3. Quanto a Francesco FIORENTINO, l’ordinanza genetica ha posto in luce
come le dichiarazioni rese in merito alle richieste avanzate a GRANDE ARACRI in
relazione a profili afferenti al mantenimento dei detenuti nella cosca di Sia,
riferite da FIORENTINO come frutto di conoscenza diretta, siano state riscontrate

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guerra per il predominio nel territorio di Borgia e come risposta al pericolo di un

dall’intercettazione attivata presso la sua cantinetta in merito proprio alla visita
compiuta da quest’ultimo.
3.2.4. Oltre ai profili indicati, è stato ritenuto che le dichiarazioni dei vari
collaboratori si riscontrassero reciprocamente, avendo il giudice della cautela
posto in evidenza come la chiamata

de relato di MOSCATO riscontrasse, in

maniera individualizzante, quella diretta di MIRARCHI in relazione al ruolo
apicale rivestito da ABBRUZZO e GUALTIERI per la cosca di Borgia a fianco di
CATARISANO, quali titolari di doti di ‘ndrangheta ed “azionisti” di quel gruppo

La chiamata di PULICE, a sua volta, è stata ritenuta pienamente riscontrante
quelle di MIRARCHI e MOSCATO, avendo il collaboratore riferito in termini alle
stesse sovrapponibili circa il ruolo di primo piano svolto, all’interno della cosca di
Borgia, da ABBRUZZO e GUALTIERI. Secondo il suo racconto, infatti, Salvatore
COSSARI, ucciso nel 2008, gli aveva riferito di temerli in quanto erano uomini di
Rosario PASSAFARO, cioè di colui che COSSARI aveva fatto uccidere proprio da
PULICE. E anche Giovanni TRAPASSO gli aveva raccontato che i due indagati
fossero a disposizione delle cosche crotonesi; mentre della loro ascesa criminale
gli avevano riferito anche i cutresi.
3.2.5. Alla luce delle considerazioni che precedono, deve ritenersi
pienamente superata, proprio alla stregua del richiamato principio di
integrazione tra i due provvedimenti di merito, la censura difensiva secondo cui
non sarebbero stati approfonditamente valutati sia la credibilità soggettiva del
singolo collaboratore, sia i profili di attendibilità, intrinseca ed estrinseca, dei
relativi contenuti dichiarativi. Ne consegue, dunque, l’affermazione di
infondatezza della relativa doglianza.
3.3. Neppure possono ritenersi condivisibili le censure mosse dalla difesa di
ABBRUZZO in relazione ai profili di asserita illogicità nella complessiva lettura del
materiale investigativo.
Ci si riferisce, in primo luogo, alla condotta di favoreggiamento di
Massimiliano FALCONE prestata da parte di ABBRUZZO e GUALTIERI, nonostante
che questi ultimi avessero fatto parte, secondo l’ipotesi di accusa, della fazione di
CATARISANO, in lotta con quella dei COSSARI, nella quale FALCONE avrebbe
rivestito un ruolo di primo piano. Sul punto, infatti, le ordinanze hanno posto in
luce l’iniziale vicinanza all’associazione mafiosa riconducibile a
COSSARI/FALCONE/PASSAFARO di Salvatore ABBRUZZO e Francesco
GUALTIERI, condannati con sentenza irrevocabile per il favoreggiamento della
latitanza di Massimiliano FALCONE fino al 2006; nonché, dopo l’omicidio dello
stesso FALCONE e di Davide IANNOCCARI, l’avvio di un percorso che li avrebbe
portati ai vertici della cosca capeggiata da Leonardo CATARISANO, che uscita
vittoriosa dalla falda con il gruppo capeggiato da Giuseppe COSSARI, aveva
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criminale.

assunto definitivamente il controllo dell’area di Roccelletta di Borgia, ricevendo il
pieno riconoscimento della sua egemonia criminale anche da parte dei gruppi
criminali riconducibili a Nicolino GRANDE ARACRI e Giovanni TRAPASSO.
Non significativa è, ancora, la censura mossa in relazione alla inattendibilità
delle dichiarazioni di Gennaro PULICE in relazione all’episodio dell’incarico,
datogli da Domenico COSSARI, di uccidere Salvatore ABBRUZZO in occasione di
un matrimonio; inattendibilità che deriverebbe dal fatto che, nel periodo 20102011, vi era stato un solo ricevimento al quale lo stesso ABBRUZZO aveva

dal carattere fattuale della censura, osserva in ogni caso il Collegio che secondo
quanto riportato a pag. 60 dell’ordinanza genetica, PULICE non ha affermato che
ABBRUZZO non partecipò al matrimonio, quanto piuttosto di avere riferito a
COSSARI di non aver potuto compiere l’omicidio a causa dell’assenza della
vittima designata.
Né può accogliersi la censura relativa all’inverosimiglianza di un incontro tra
Nicola GRANDE ARACRI e ABBRUZZO in vista della riunione svoltasi, nel marzo
2016, con Paolo LENTINI, reggente della “Cosca Arena”, sul presupposto che tra
le due cosche sarebbe stata accertata giudizialmente una storica inimicizia.
Infatti, ancora una volta, l’ordinanza genetica ha ricordato che, a partire dal
2006, i due rami della famiglia ARENA di Isola Capo Rizzuto (i “Chitarra” e i
“Cicala”), si erano riappacificati con l’altra cosca isolitana dei “Nicoscia”, dopo
che, all’inizio dell’anno 2000, quest’ultima aveva preteso una propria autonomia
ed un proprio territorio di riferimento, così facendo deflagrare una cruenta
guerra di mafia.
Del tutto aspecifiche, infine, devono ritenersi le ulteriori doglianze svolte con
il primo motivo, in relazione aWasserita equivocità delle intercettazioni ambientali
tra CELI e SCHIACCHITANO e tra CATALANO e FIORENTINO, così come quelle
relative a GRANDE ARAI nonché alla non concludenza della frequentazione tra
i soggetti ritenuti affiliati alla cosca, tenuto anche conto del ristretto contesto
paesano; osservazioni critiche che decontestualizzano i menzionati elementi
indiziari, trattati in maniera parcellizzata e avulsa dal complessivo compendio
investigativo, il quale ne ha, invece, consentito una chiara e niente affatto
illogica lettura di insieme da parte delle ordinanze impugnate.
Quanto, poi, all’utilizzazione asseritamente illegittima del materiale indiziario
e probatorio proveniente da altri procedimenti a carico della Cosca COSSARI e
dei coindagati COSCO e VALEO, relativi alla esistenza di una

ndrina nel territorio

di Roccelletta, appare infondata la tesi difensiva, secondo cui l’illegittimità
deriverebbe dal fatto che, in tali procedimenti, l’odierno ricorrente non abbia
assunto alcun ruolo formale. Sul punto, invero, è appena il caso di osservare che
la prescrizione contenuta nell’art. 238, comma 1, cod. proc. pen., che limita

11

partecipato, diversamente da quanto raccontato da PULICE. Anche a prescindere

l’acquisizione di verbali di prove di altro procedimento ai casi di prove assunte
nell’incidente probatorio o nel dibattimento, è applicabile soltanto in sede
dibattimentale e non anche in sede di riesame ai fini di verifica della sussistenza
dei gravi indizi di colpevolezza da parte del Tribunale (Sez. 2, n. 31995 del
17/06/2016, dep. 25/07/2016, Graziano, Rv. 267477).
4. Con il secondo motivo di doglianza, il ricorrente deduce la mancata
dimostrazione dell’esistenza di un sodalizio operativo e riconducibile alla
fattispecie incriminatrice dettata dall’art. 416-bis cod. pen. e, sotto un distinto

propria condotta partecipativa. Tali censure, tuttavia, si palesano infondate.
Infatti, i giudici di merito hanno preliminarmente ricordato che la fattispecie
prevista dall’art. 416-bis cod. pen. si caratterizza, sul piano strutturale, per il
dato della organizzazione, coessenziale ad ogni realtà associativa, risultando
peraltro sufficiente anche una struttura rudimentale purché adeguata alla
realizzazione del programma criminoso, apprezzabile anche in momenti di
“pausa attuativa” del medesimo, eventualmente caratterizzata, come di
frequente accade per le tradizionali associazioni di tipo mafioso, da continue
mutazioni soggettive, ma che nondimeno lascino immodificato il sostrato
fondamentale, costituito da una presenza di una struttura stabile, anche senza
una formale attribuzione di ruoli (pur comunque generalmente caratterizzante
tale fenoaenologia criminale), che sia idonea a raggiungere gli obiettivi criminali
che le sole) propri. Sul piano funzionale, invece, essa si caratterizza per il ricorso,
da parte degli associati, all’intimidazione nascente dal vincolo associativo e per la
conseguente condizione di assoggettamento ed omertà che ne deriva, senza che
sia ovviamente necessaria la concreta attuazione degli obiettivi criminali (dalle
estorsioni organizzate, all’ingerenza negli appalti, dalla realizzazione di monopoli
economici al traffico di stupefacenti e di armi), talvolta costituiti anche da attività
apparentemente lecite (come la gestione o il controllo di attività economiche o di
appalti), in cui l’aspetto essenziale diventa, come detto, il metodo mafioso che
caratterizza l’azione con cui ci si prefigge di realizzarli e costituisce “l’in sé
dell’associazione mafiosa”.
Quindi, le ordinanze di merito hanno definito le caratteristiche che, secondo
la giurisprudenza di questa Corte, deve palesare la condotta di partecipazione
all’associazione mafiosa, la quale, essendo “a forma libera”, può sostanziarsi nei
più diversi contributi, non necessariamente coincidenti con la commissione dei
delitti scopo, purché causalmente efficienti al mantenimento e/o al rafforzamento
dell’associazione, accrescendo la forza di intimidazione e la condizione di
assoggettamento e di omertà di cui il sodalizio può conseguentemente
beneficiare per realizzare i propri fini.

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ma concorrente profilo, la mancata dimostrazione di elementi indicativi della

4.1. Tanto premesso in termini generali, i giudici di merito, superato
positivamente il vaglio delle dichiarazioni indizianti rese dai collaboratori
MOSCATO, PULICE, FIORENTINO e MIRARCHI ed incrociato il loro contenuto
dichiarativo con quello ricavabile dall’attività di intercettazione, hanno quindi
ricostruito, in maniera niente affatto illogica e con piena rispondenza ai principi
giurisprudenziali in subiecta materia, sia l’esistenza della cosca CATARISANO
ovvero di una consorteria criminale, operante nel territorio di Roccelletta di
Borgia e nei territori limitrofi rispondente ai cennati requisiti per l’identificazione

Salvatore ABBRUZZO e di Francesco GUALTIERI.
La ricostruzione delle vicende della cosca prima dell’ascesa degli odierni
indagati, pur estranea alla presente contestazione, ha, infatti, consentito di
evidenziare l’attuazione, fin dal 2006, del progetto di progressivo insediamento
nel territorio, attuato scalzando gli antagonisti senza alcuno scrupolo e con
l’avallo delle associazioni crotonesi, influenti sulle dinamiche criminali di tutta la
zona jonica. Tale disegno è stato attuato con la realizzazione di una vera e
propria guerra di mafia del gruppo in ascesa (di cui facevano parte, oltre a
CATARISANO, anche ABBRUZZO e GUALTIERI) contro il clan di Squillace e contro
coloro i quali, all’interno del gruppo di Borgia, avevano in passato “comandato”,
attraverso la commissione di numerosi omicidi, anche con modalità eclatanti, nel
territorio controllato dal sodalizio, in questo modo palesando la propria esistenza
alla relativa popolazione e da essa venendo percepita come “una entità reale e
minacciosa, che domina incontrastata il territorio” di riferimento. E
coerentemente, i giudici di merito hanno ritenuto che l’associazione guidata da
CATARISANO, affiancato da ABBRUZZO e GUALTIERI, fosse palesemente
riconducibile al novero delle associazioni mafiose, ponendo in luce gli specifici
elementi di fatto indicativi, quantomeno secondo i canoni della gravità indiziaria,
dell’esistenza dei requisiti che connotano la fattispecie associativa contestata
ovvero: a) il controllo del territorio, attuato attraverso il conseguimento e il
successivo consolidamento di una posizione di supremazia all’interno della cosca
per il mezzo della guerra di mafia interna alla consorteria, che oltre a consentire
l’eliminazione della fazione rivale aveva segnato, in maniera a tutti visibile,
l’incontrastato dominio del clan nello specifico contesto roccellese; b) la capacità
di intimidazione nascente dal vincolo associativo, strettamente legata al controllo
del territorio e riconducibile ai numerosi omicidi commessi per conseguire
l’egemonia criminale all’interno di esso; e) la diffusa condizione di
assoggettamento ed omertà, radicate ed accettate in specie tra gli operatori
economici, e correlate, in un rapporto di causa ed effetto, alla capacità di
intimidazione promanante dal sodalizio mafioso; d) la presenza di una
organizzazione caratterizzata dalla ripartizione dei ruoli e rigidamente gerarchica
13

3u

dell’associazione mafiosa, sia il ruolo rivestito, all’interno di essa, da parte di

CL

al suo interno, nel cui contesto gli associati erano chiamati a adempiere a
inderogabili doveri di solidarietà (ad esempio, secondo quanto emerge dalle
conversazioni nella tavernetta di Cutro, quanto all’assunzione, da parte della
cosca nel suo complesso, delle spese legali a favore dell’affiliato detenuto anche
quando si trattasse di appartenenti a cosche “amiche”); e) la sistematica
commissione di un numero rilevante di reati, compresi nel “tradizionale”
programma criminoso delle associazioni mafiose quali le estorsioni (significativo
è l’episodio citato da MIRARCHI in ordine alla richiesta del gruppo di Vallefiorita,

accordi stretti con il defunto Salvatore “Turi” PILÒ, precedente capocosca, sulla
equa spartizione dei proventi dell’estorsione ai danni dell’impresa che avrebbe
installato il parco eolico), nonché con l’ingerenza, attuata grazie alla evidenziata
capacità di intimidazione, nelle attività economiche e in particolare negli appalti
pubblici eseguiti nella zona di dominio della consorteria.
4.2. Altrettanto è a dirsi con riferimento alla condotta partecipativa
dell’odierno ricorrente, rispetto alla quale i provvedimenti di merito hanno
puntualmente sottolineato come essa si sia esplicata nei termini “dinamici e
funzionali” richiesti dalla giurisprudenza di questa Corte.
In particolare, quanto a Salvatore ABBRUZZO, si è sottolineato il ruolo
operativo dallo stesso svolto nell’ascesa di Nando CATARISANO verso il controllo
della cosca, nonché nella successiva coadiuzione del capo nell’organizzazione del
sodalizio, con particolare riferimento ai seguenti profili: la pianificazione di
vicende estorsive e la regolazione dei rapporti con le consorterie operanti in zone
limitrofe (attestata dalla partecipazione di ABBRUZZO al

summit con Paolo

LENTINI, grazie al quale si intendeva raggiungere l’accordo tra i roccellesi e
quelli di Vallefiorita per la spartizione dei proventi delle estorsioni imposte
all’impresa che avrebbe realizzato le pale eoliche, spartizione che inizialmente lo
stesso ABBRUZZO aveva, invece, decisamente rifiutato); il controllo, sempre con
modalità estorsive, di alcune attività economiche del territorio (dimostrata
dall’episodio della lite presso la discoteca l’Atmosfera tra MIRARCHI e il titolare,
tale Rodolfo, il quale aveva investito della vicenda uno stretto collaboratore di
ABBRUZZO quale Francesco GUALTIERI, che aveva intimato a MIRARCHI di
astenersi, in futuro, dal recare disturbo alla discoteca in quanto il titolare già
pagava il sodalizio di Roccella per ricevere la “protezione”; nonché dalla vicenda
estorsiva subita da Saverio NISTICÒ, titolare del ristorante La Corteccia, sito in
località Canonici a Borgia e lontano parente di MIRARCHI, al quale egli aveva
confidato le richieste estorsive rivoltegli sempre da GUALTIERI); il mantenimento
dei rapporti con le consorterie maggiori della provincia crotonese (attestato dalla
partecipazione, sintomatica dell’alto livello raggiunto nella gerarchia criminale
della costa jonica, all’incontro di Cutro, insieme a GUALTIERI, con il boss
14

avanzata grazie alla mediazione di Nicolino GIOFFRÈ, di rispettare i vecchi

GRANDE ARATRI, rivelata dalle intercettazioni nel proc. Kyterion n. 5946/10
RNR, nel corso del quale erano state prese delle decisioni sull’assetto territoriale
delle cosche, in particolare per quanto riguarda il destino criminale di Giuseppe
BRUNO e di quelli di Vallefiorita); la piena intraneità nelle dinamiche criminali di
controllo del territorio (attestata dalla richiesta, significativamente rivoltagli, da
parte di Sandro CALIÒ volta a comprendere il motivo dell’incendio del ristorante
la Cena di Afrodite, al fine di individuare la provenienza dell’avvertimento).
Si tratta di episodi, quelli appena riassunti, che, con apprezzamento

la piena partecipazione di ABBRUZZO alla cosca, peraltro con un ruolo apicale.
Si è, dunque, in presenza, diversamente da quanto opinato dalla difesa, di
una corretta applicazione dei principi elaborati dalla giurisprudenza di questa
Sezione, condivisi pienamente dal Collegio, in materia di definizione della
condotta di partecipazione al sodalizio mafioso e non dell’adesione ad altri
minoritari indirizzi, attesa la cospicua mole di episodi denotanti il fattivo
contributo all’esistenza e all’azione criminale della consorteria mafiosa; sicché
non vi è alcuna ragione per rimettere la dedotta questione di diritto alle Sezioni
unite di questa Corte.
5. Quanto, infine, al terzo motivo di doglianza, relativo ai prospettati vizi di
violazione di legge e di motivazione apparente in ordine all’esistenza delle
esigenze cautelari, l’art. 275, comma 3, secondo periodo, cod. proc. pen.,
configura, in relazione al delitto di associazione mafiosa, una doppia presunzione
relativa, sia di esistenza delle esigenze cautelari, sia di adeguatezza della
custodia cautelare in carcere; presunzione suscettibile di essere sovvertita
soltanto nel caso in cui “siano acquisiti elementi dai quali risulti che non
sussistono esigenze cautelari”.
In questo caso, il Tribunale del riesame ha sottolineato indicare, come già
aveva fatto il giudice della cautela, come tali elementi non siano stati acquisiti, in
questo modo giungendo, alla stregua della menzionata presunzione, a ritenere
applicabile la più severa tra le misure cautelari.
Epperaltro va osservato che, nel caso di specie, il giudice della cautela non si
è limitato a fare una pur corretta applicazione del menzionato meccanismo
presuntivo, ma ha finanche affermato, in positivo, l’esistenza di concreti elementi
alla stregua dei quali affermare il concreto pericolo che l’indagato, in libertà,
possa commettere altri gravi delitti della stessa specie di quelli per cui si
procede. In tale senso il giudice ha richiamato “le modalità e le circostanze dei
fatti-reato e l’attualità della condotta associativa per tutti gli indagati oltre che
(…) la gravata biografia penale”, non potendo i comportamenti censurati
“inquadrarsi come episodi isolati” ed offrendo, piuttosto, “la rappresentazione di
un’inclinazione a delinquere idonea a giustificare una prognosi cautelare
15

valutativo niente affatto illogico, i giudici di merito hanno ritenuto confermassero

sfavorevole circa la reiterazione di condotte delittuose della stessa specie, tale
che il pericolo può essere scongiurato unicamente con la custodia cautelare in
carcere”.
Né, ha continuato il primo giudice, può avere rilevanza il tempo decorso dal
fatto di reato trattandosi di condotta associativa attuale e non emergendo dagli
atti prove di un qualche recesso dell’indagato dall’associazione.
6. Alla luce delle considerazioni che precedono, il ricorso deve essere

PER QUESTI MOTIVI
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali. Dispone trasmettersi, a cura della Cancelleria, copia del
provvedimento al Direttore dell’Istituto penitenziario, ai sensi dell’art. 94,
comma 1-ter, Disp. Att. c.p.p..

Così deciso in Roma, il 15/01/2018

Il Consigli

es nsore

Il Presidente

rigettato, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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