Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 18253 del 13/03/2018


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 18253 Anno 2018
Presidente: DIOTALLEVI GIOVANNI
Relatore: CIANFROCCA PIERLUIGI

SENTENZA
sul ricorso proposto nell’interesse di:
Drgova Andrea, nata a Spisska Nova Ves (SVK) il 25.5.1980, quale terza
interessata nel procedimento di prevenzione instaurato a carico di Alvaro
Cosimo,
contro il decreto della Corte di Appello di Reggio Calabria del 27.1.2017,
depositato in data 29.9.2017;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere dott. Pierluigi Cianfrocca;
letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto
Procuratore Generale dott. Mariella De Masellis, che ha concluso per
l’inammissibilità del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. Con provvedimento del 27.1-19.9.2017 la Corte di Appello di Reggio
Calabria respingeva gli appelli proposti nell’interesse di Cosimo Alvaro e di
Andrea Drgova contro il decreto emesso dal Tribunale in data 16.9.2015 con il
quale era stata adottata, nei confronti del primo, la misura di prevenzione della
sorveglianza speciale di P.S. con obbligo di soggiorno nel comune di residenza
per anni 4 ed imposta la cauzione di Euro 4.000 e con cui, contestualmente, era
stata disposta la confisca di una serie di cespiti patrimoniali tra cui, in
particolare, il “Lido Calajunco” stabilimento balneare con annessa vendita di
bevande, con sede in Reggio Calabria, Lungomare Falcomatà, facente parte della
impresa individuale denominata “Le Palme di Drgova Andrea”, esercente l’attività
di bar ristorante, in quanto formalmente intestata alla Drgova ma a lui di fatto e

Data Udienza: 13/03/2018

sostanzialmente riconducibile; la Corte di Appello, richiamati gli elementi che
erano stati posti dal Tribunale a fondamento della adozione della misura
personale e di quella patrimoniale, riteneva infondate le censure articolate
dall’Alvaro e dalla Drgova;
2. ricorre per Cassazione, tramite il difensore, Andrea Drgova, quale terza
interessata in quanto intestataria della impresa individuale “Le Palme di Drgova
Andrea” lamentando:
2.1 inosservanza ovvero erronea applicazione di legge con riferimento al

motivazione del decreto impugnato sia del tutto carente in ordine alla integrale
riconducibilità del Lido Calajunco all’Alvaro omettendo, nella sostanza, di
affrontare la censura relativa al fatto che il cespite era stato acquistato dalla
Grillo in data antecedente la affermazione di pericolosità del proposto e che essa
ricorrente lo aveva a sua volta acquisito nel 2009;
2.2 inosservanza ovvero erronea applicazione di legge con riferimento agli
artt. 2ter, comma 2 e 3 della legge 575 del 1965; segnala, sul punto, che la
Corte di Appello ha totalmente omesso di motivare in ordine al requisito della
corrispondenza temporale tra la formazione del patrimonio oggetto della misura
di prevenzione ed i fatti dimostrativi della pericolosità sociale del proposto per di
più, a suo avviso, violando il giudicato penale rappresentato dalla sentenza della
Corte di Appello di Reggio Calabria che aveva accertato, in dibattimento, il
subentro dell’Alvaro, pro quota, nell’azienda già riferibile alla Grillo ed operante
ben prima che il proposto, all’epoca detenuto, ed una volta rimesso in libertà, si
radicasse in Reggio Calabria;
2.3 inosservanza ovvero erronea applicazione di legge con riguardo agli
artt. 11 e 117 Cost. in relazione all’art. 7 CEDU; all’art. 1, I, prot. CEDU; 42, 25
Cost., 2 cod. pen. e 24 D. Lg.vo 159 del 2011, 125, comma 3, cod. proc. pen.;
eccepisce infatti che il decreto impugnato ha finito per confermare la confisca
dell’intero cespite patrimoniale senza verificare se anche il capitale inizialmente
investito dalla Grillo e quello successivamente immesso dalla odierna ricorrente
fossero di origine illecita limitandosi, semmai, a confermare il provvedimento
ablatorio ai soli incrementi aziendali riconducibili alla immissione di capitali da
parte dell’Alvaro.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Prima di affrontare l’esame del ricorso è opportuno ancora in questa
sede ribadire che nel procedimento di prevenzione il ricorso per cassazione è
ammesso soltanto per violazione di legge, secondo il disposto dell’art. 4 legge 27

disposto di cui all’art. 192 cod. proc. pen.; rileva, in particolare, come la

dicembre 1956, n. 1423, richiamato dall’art. 3 ter, secondo comma, legge 31
maggio 1965, n. 575 e, oggi, dagli artt. 10, comma 3, e 27, comma 2, del D.
Lg.vo 159 del 2011; ne consegue che, in tema di sindacato sulla motivazione, è
esclusa dal novero dei vizi deducibili in sede di legittimità l’ipotesi dell’illogicità
manifesta di cui all’art. 606, lett. e), cod. proc. pen., potendosi esclusivamente
denunciare con il ricorso, poiché qualificabile come violazione dell’obbligo di
provvedere con decreto motivato imposto al giudice d’appello dal nono comma
del predetto art. 4 legge n.1423 del 56, il caso di motivazione inesistente o

33.451, Repaci che, in motivazione, ha ribadito che non può essere proposta
come vizio di motivazione mancante o apparente la deduzione di
sottovalutazione di argomenti difensivi che, in realtà, siano stati presi in
considerazione dal giudice o comunque risultino in ogni caso assorbiti dalle
argomentazioni poste a fondamento del provvedimento impugnato; conf., Cass.
Pen., 1, 7.1.2016 n. 6.636 Pandico; Cass. Pen., 6, 15.6.2016 n. 33.705,
Caliendo).
2. Fatta questa premessa, va rilevato che, nei tre motivi di ricorso, che
per questa ragione possono essere trattati congiuntamente, il rilievo proposto
dalla difesa della ricorrente riguarda il fatto che la Corte di Appello, come prima il
Tribunale, non avrebbero considerato che il cespite rappresentato dall’attività
“Lido Calajunco” era già stato realizzato ed acquisito dalla Grillo, che lo aveva
successivamente ceduto alla Drgova prima dell’avvento dell’Alvaro e che, in
definitiva, quest’ultimo era subentrato “pro quota”, dovendo limitare semmai la
confisca agli incrementi patrimoniali direttamente riconducibili al capitale illecito
immesso dall’Alvaro.
2. La Corte di Appello di Reggio Calabria, in realtà, non ha trascurato di
esaminare la censura che era stata articolata, proprio sotto questi profili, e
nell’interesse della odierna ricorrente, contro il provvedimento del Tribunale; ha
ricordato che la stessa Corte di Appello reggina, con sentenza resa in data
10.6.2013 nel processo “Meta”, aveva condannato Mazzitelli Salvatore,
compagno della Drgova, per il delitto di interposizione fittizia di beni in favore
dell’Alvaro alla pena di anni 1 e mesi 8 di reclusione; in tal modo, dunque, hanno
osservato i giudici, era stato riconosciuto il ruolo ed il coinvolgimento occulto ma
diretto dell’Alvaro nella gestione dell’attività commerciale pur intestata al
Mazzitelli “a dispetto del fatto che la fittizia attribuzione sia intervenuta in un
momento successivo rispetto a quello di creazione dell’attività imprenditoriale ed
abbia determinato l’instaurazione di una società di fatto anziché un integrale
trasferimento della effettiva titolarità del bene” (cfr., pag. 13 del decreto che in

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meramente apparente (cfr, così, tra le tante, Cass. SS.UU., 29.5.2014 n.

tal modo riporta un passo della sentenza della Corte di Appello valorizzato dalla
difesa della Drgova al fine, per l’appunto, di sostenere la non – integrale riconducibilità del bene all’Alvaro, a sua volta condannato, nell’ambito dello
stesso procedimento ma con separato giudizio, alla non lieve pena di anni 17,
mesi 9 e giorni 10 di reclusione ed Euro 3.100 di multa per il delitto di
partecipazione all’associazione a delinquere denominata “Ndrangheta”, nella sua
articolazione della costa “Alvaro” prevalentemente operante nelle zone di
Sinopoli, S. Eufemia, Cosoleto, San Procopio e zone limitrofe).

rivestito nella realtà aziendale dal proposto fosse pienamente dimostrata dal
tenore della conversazioni intercettate sulla utenza di Gianluca Favara (da cui
emergeva il diretto interessamento dell’Alvaro all’andamento dell’attività) e dalle
dichiarazioni dei collaboratori di giustizia che avevano riferito in ordine alla
posizione assunta dalla famiglia Alvaro nella guerra di mafia e l’inserimento del
proposto nelle attività economiche della città di Reggio Calabria tra le quali, per
l’appunto, il Lido Calajunco; ha fatto presente, quindi, come, nella pur
preesistente attività, fossero stati immessi ingenti capitali di origine illecita (non
avendo l’Alvaro disponibilità di risorse lecite adeguate ad affrontare
l’operazione), così giustificandosi la conseguente estensione della confisca
all’intero esercizio commerciale; ha spiegato, ancora, come non rilevasse in
alcun modo l’effettiva formale titolarità dell’azienda (riconducibile, in un primo
tempo, dal 2005, alla madre del Mazzitelli, ovvero la Grillo e, poi, alla convivente
del medesimo Mazzitelli, ovvero la odierna ricorrente), atteso che proprio dal
tenore delle conversazioni intercettate (corroborate dall’attività di 0.P.C.)
emergeva in maniera chiara la veste solo formale rivestita dalle due donne
all’interno della struttura.
La Corte ha sottolineato, ancora, come non fosse rilevante, a tal fine, la
circostanza per cui l’apertura dell’esercizio era avvenuta a nome della Grillo, e
con un finanziamento da costei contratto, quando, nel 2005, l’Alvaro era ancora
detenuto; ha segnalato, infatti, che l’Alvaro aveva iniziato ad “interessarsi” della
predetta attività all’atto della sua scarcerazione, avvenuta nel 2006,
immettendovi danaro con la complicità dell’amico Mazzitelli e, infine,
assumendovi un ruolo preminente come dimostrato dalle emergenze
investigative sopra richiamate.
In tal modo, la Corte reggina ha motivato in maniera congrua, con
puntuale riferimento agli elementi acquisiti, in ordine ai presupposti della
confisca del bene quand’anche nella formale titolarità del terzo in quanto
pervenuto nella sua sostanziale disponibilità in diretta correlazione temporale con

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La Corte di Appello, tuttavia, ha sottolineato che la preminenza del ruolo

la manifestazione della sua pericolosità sociale essendo stato l’Alvaro condannato
in via definitiva per associazione a delinquere finalizzata al traffico di sostanze
stupefacenti e, poi, per il delitto di cui all’art. 4hIbis cod. pen. commesso nel
periodo compreso tra il giugno del 2006 ed il dicembre del 2014 laddove
l’acquisto del bene andava fatto ricadere tra il giugno del 2006 ed il mese di
ottobre del 2009.
Il provvedimento impugnato, quindi, in quanto congruamente motivato
con argomentazioni non illogiche o contraddittorie, si sottrae ai rilievi di

D’altra parte, questa Corte ha avuto modo di chiarire che la confisca di
prevenzione di un complesso aziendale non può essere disposta, in ragione del
carattere unitario del bene che ne è oggetto, con limitazione alle componenti di
provenienza illecita, specie nel caso in cui l’intera attività di impresa sia stata
agevolata dalla cointeressenze con organizzazioni criminali di tipo mafioso (cfr.,
Cass. Pen., 5, 30.1.2009 n. 17.988, Baratta; Cass. Pen., 5, 23.1.2014 n. 16.311,
Di Vincenzo).
3. L’inammissibilità del ricorso comporta la condanna della ricorrente al
pagamento delle spese processuali e, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., della
somma di Euro 2.000 in favore della Cassa delle Ammende, non ravvisandosi
ragione alcuna d’esonero.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento
delle spese processuali e della somma di Euro 2.000 in favore della Cassa delle
Ammende.
Così deciso in Roma il 13 marzo 2018

Il Consigliere estensore

residente

legittimità suscettibili di essere sollevati in questa sede.

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