Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 18223 del 17/04/2013


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Penale Sent. Sez. 6 Num. 18223 Anno 2013
Presidente: GARRIBBA TITO
Relatore: APRILE ERCOLE

SENTENZA

sul ricorso presentato da
Cafarelli Ovidio, nato a Popoli il 21/03/1954
avverso la sentenza del 31/01/2011 della Corte di appello di L’Aquila;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Ercole Aprile;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Tindari
Baglione, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.
RITENUTO IN FATTO

1. Con la sentenza sopra indicata la Corte di appello di L’Aquila confermava la
pronuncia di primo grado del 15/06/2005 con la quale il Tribunale di Pescara
aveva condannato Ovidio Cafarelli alla pena di giustizia in relazione ai delitti di
cui agli artt, 110 cod. pen., 73 comma 5 d.P.R. n. 309 del 1990 e 368 cod. pen.,
per avere, in Popoli il 13/03/1999, in concorso con persone non identificate,
detenuto illegalmente sostanza stupefacente del tipo cocaina del peso di gr.
12,581, con un percentuale di principio attivo dell’8%, che veniva da loro

Data Udienza: 17/04/2013

introdotta nei locali del night club “Petra ed occultata in una fodera di un cuscino
di una poltroncina, così simulando tracce di reato a carico del titolare del locale
Giuseppantonio Lizzi, notiziando successivamente i carabinieri di Popoli della
presenza di quella droga, e in tal modo falsamente incolpando persone che
sapeva essere innocenti del delitto di detenzione a fine di spaccio ovvero di
agevolazione all’uso di sostanze stupefacenti.
Rilevava la Corte di appello come le emergenze processuali – in specie le
dichiarazioni rese dai marescialli dei carabinieri Alberto Biasello e Cesare
Rocco Di Renzo, Massimiliano Guerra e Angelini, nonché il contenuto dei tabulati
telefonici e delle intercettazioni eseguite durante le indagini – avessero
dimostrato la colpevolezza del Cafarelli in ordine a tutti i delitti contestatigli,
essendo stato comprovato come lo stesso, “ossessionato” dagli affari del Lizzi,
titolare di un esercizio commerciale a quello da lui gestito, avesse preparato e
realizzato quella iniziativa criminosa per ragioni di risentimento ed invidia.
2. Avverso tale sentenza ha presentato ricorso il Cafarelli, con atto sottoscritto
dal suo difensore avv. Giovanni Margiotta, il quale ha dedotto, articolandoli su
più punti, i seguenti quattro motivi.
2.1. Violazione di legge, In relazione all’art. 10 comma 3 legge n. 251 del
2005, per avere la Corte di appello negato la declaratoria di estinzione dei reati
contestati per intervenuta prescrizione in ragione della più favorevole disciplina
dettata da quella legge: norma con riferimento alla quale li ricorrente ha chiesto
sollevarsi questione di legittimità costituzionale, non manifestamente infondata e
rilevante nella fattispecie.
2.2. Violazione di legge, in relazione agli artt. 195, 203 e 63 comma 2 cod.
proc. pen., per avere la Corte territoriale utilizzato ai fini della decisione la
deposizione testimoniale del maresciallo dei carabinieri Malvestuto, il quale
aveva riferito quanto appreso durante la fase delle indagini dal Cafarelli, senza
che vi fossero le condizioni di eccezionalità che avrebbero potuto esimere
l’ufficiale di polizia giudiziaria dal verbalizzare quanto appreso; e comunque
aveva riportato le dichiarazioni rese dall’imputato senza le formalità di legge
previste a garanzia delle sue ragioni difensive.
2.3. Vizio di motivazione, per avere la Corte abruzzese erroneamente valutato
le risultanze probatorie, in particolare valorizzato le dichiarazioni dei testi
Malvestuto, Lizzi, Guerra e Di Renzo, invece inattendibili perché: le prime fornite
all’autorità giudiziaria oltre un anno dopo i fatti; le seconde provenienti da
soggetto condizionato dai suoi precedenti per droga, che si era contraddetto e
che aveva avuto un evidente interesse a fornire una versione diversa da quella
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Malvestuto (deposizioni, quest’ultime, utilizzabili), quelle rese dai testi Lizzi,

reale; il terzo offerte da un soggetto che era stato smentito dalla
documentazione concernente i periodi in cui aveva lavorato per il Di Renzo; le
quarte provenienti da persona che aveva contraddetto il Guerra circa gli incontri
con il Lizzi; e non tenuto conto del contenuto di una serie di intercettazioni
telefoniche favorevole all’imputato, né delle indicazioni del teste Biasello, altro
maresciallo del carabinieri, che aveva descritto le modalità della perquisizione nel
night club in termini difformi da quelli riferiti dal Lizzi.
2.4. Vizio di motivazione, per avere la Corte aquilana condannato il Cafarelli

3. Con nota depositata in data odierna l’avv. Luca Tirabassi, nell’interesse delle
parti civili Giuseppantonio Lizzi, Vita Di Marco e Berlina Uberita, ha chiesto il
rigetto del ricorso.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Ritiene la Corte che il ricorso sia inammissibile.

2.

Manifestamente infondata è la questione di legittimità costituzionale

prospettata, peraltro in termini molto generici, dal ricorrente.
Al riguardo è sufficiente rammentare come la Corte costituzionale ha già
dichiarato la infondatezza della questione di legittimità costituzionale, sollevata
per violazione dell’articolo 117 comma 1 Cost., in relazione all’art. 7 della
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali, ratificata e resa esecutiva con la legge n. 848 del 1955, come
interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, dell’articolo 10 comma
della legge n. 251 del 2005 (contenente “Modifiche al codice penale e alla legge
26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio
di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di
prescrizione), nella parte in cui esclude l’applicazione dei nuovi termini di
prescrizione, se più brevi, ai “processi già pendenti in grado di appello o avanti
alla Corte di cassazione. In particolare la Consulta ha chiarito che la sentenza
della Corte EDU del 17 settembre 2009 nel caso Scoppola non ha escluso la
possibilità che, in presenza di particolari situazioni, il principio di retroattività
della lex mitior possa subire deroghe o limitazioni, sottolineando come “il
riconoscimento da parte della Corte europea del principio di retroattività in mItius
– che già operava nel nostro ordinamento in forza dell’art. 2 commi 2, 3 e 4cod.
pen. e aveva trovato un fondamento costituzionale attraverso la giurisprudenza
costituzionale – non abbia escluso la possibilità di introdurre deroghe o

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per condotte diverse da quelle descritte nei capi a) e b) dell’imputazione.

4 1. 1140 1TI rmr

limitazioni alla sua operatività, quando siano sorrette da una valida
giustificazione”; ed infatti, si è detto che Il principio di retroattività della lex
mitior “riconosciuto dalla Corte di Strasburgo riguarda esclusivamente la

fattispecie incriminatrice e la pena, mentre sono estranee all’ambito di
operatività di tale principio, così delineato, le ipotesi in cui non si verifica un
mutamento, favorevole al reo, nella valutazione sociale del fatto, che porti a
ritenerlo penalmente lecito o comunque di minore gravità”, giungendo alla
conclusione che esso “non può riguardare le norme sopravvenute che
riduzione del tempo occorrente perché si produca l’effetto estintivo del reato”
(così C. cost., n. 236 del 2011; conf. anche C. cost., n. 43 del 2012).
3. Il secondo motivo dell’impugnazione è manifestamente infondato.
Correttamente esclusa dalla Corte di merito l’operatività, nella fattispecie,
tanto del divieto fissato dall’art. 63 comma 2 cod. proc. pen., in quanto le
dichiarazioni a suo rese dal Cafarelli al maresciallo Malvestuto vennero fornite da
un soggetto per il quale non vi erano affatto le condizioni affinché venisse
escusso come persona indagato o come imputato, quanto della inutilizzabllità
prevista dall’art. 203 cod. proc. pen., che attiene alla diversa situazione nella
quale rimane sconosciuta la identicità dell’informatore da cui l’ufficiale di polizia
giudiziaria ha ricevuto le notizie, la motivazione della sentenza gravata appare,
sul punto, conforme al consolidato orientamento della giurisprudenza di
legittimità secondo il quale il divieto di testimonianza sulle dichiarazioni acquisite
dalla polizia giudiziaria durante le indagini non impedisce al personale della
stessa polizia di sviluppare le investigazioni sulla base di quanto appreso, con la
conseguenza che restano validi ed utilizzabili nel processo i risultati dell’attività
così compiuta, e deve ritenersi consentita la testimonianza dell’ufficiale di polizia
giudiziaria che abbia riferito sull’esito delle indagini svolte e sugli elementi
raccolti a seguito delle indicazioni ricevute (in questo senso, tra le altre, Sez. 4,
n. 41040 del 24/09/2008, Muzzolon, Rv. 241367; Sez. 2, n. 11722 del
05/02/2008, Casadei, Rv. 239738).
D’altro canto, bisogna evidenziare come il motivo dedotto dal Cafarelli è
inammissibile anche per carenza di interesse, in quanto è pacifico che il giudice
dell’impugnazione non è tenuto a dichiarare preventivamente l’inutilizzabilità
della prova contestata qualora ritenga di poterne prescindere per la decisione,
ricorrendo al cosiddetto “criterio di resistenza”, applicabile anche nel giudizio di
legittimità (così, tra le molte, Sez. 5, n. 37694 del 15/07/2008, Rizzo, Rv.
241299). Applicando al caso di specie tale regula iuris, va evidenziato come, a
fronte dell’affermazione, contenuta nella sentenza impugnata, secondo la quale
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modificano, in senso favorevole al reo, la disciplina della prescrizione, con la

•19.91″1.11′,””””””

la eventuale inutilizzabilità delle dichiarazioni testimoniali del maresciallo
Malvestito non avrebbero inciso sul giudizio di colpevolezza, basato su ben altri e
sostanziosi elementi di prova a carico, il ricorrente ha omesso di chiarire quale
“peso” avrebbe avuto nell’economia motivazionale della pronuncia l’eventuale
applicazione di quella sanzione alla testimonianza resa dall’ufficiale di polizia
giudiziaria.
4. I motivi, articolati su più punti, sopra elencati nel paragrafo 2.3. del
diverse da quelle consentite dalla legge.
Il ricorrente solo formalmente ha indicato, come motivi della sua
Impugnazione, li vizio di manifesta illogicità della motivazione della decisione
gravata, non avendo prospettato alcuna reale contraddizione logica, intesa come
implausibilità delle premesse dell’argomentazione, irrazionalità delle regole di
inferenza, ovvero manifesto ed insanabile contrasto tra quelle premesse e le
conclusioni; né essendo stata lamentata, come pure sarebbe stato astrattamente
possibile, una incompleta descrizione degli elementi di prova rilevanti per la
decisione, intesa come incompletezza dei dati informativi desumibili dalle carte
del procedimento.
Il ricorrente, invero, si è limitato a criticare il significato che la Corte di appello
di L’Aquila aveva dato al contenuto delle emergenze acquisite durante
l’istruttoria dibattimentale di primo grado e, In specie, al valore da attribuire alle
varie deposizioni testimoniali ed al contenuto delle intercettazioni telefoniche. E
tuttavia, bisogna rilevare come il ricorso, lungi dal proporre un ‘travisamento
delle prove’, vale a dire una incompatibilità tra l’apparato motivazionale del
provvedimento impugnato ed il contenuto degli atti del procedimento, tale da
disarticolare la coerenza logica dell’intera motivazione, è stato presentato per
sostenere, in pratica, una ipotesi di ‘travisamento dei fatti’ oggetto di analisi,
sollecitando un’inammissibile rivalutazione dell’intero materiale d’indagine,
rispetto al quale è stata proposta dalla difesa una spiegazione alternativa alla
semantica privilegiata dalla Corte territoriale nell’ambito di un sistema
motivazionale logicamente completo ed esauriente.
Questa Corte, pertanto, non ha ragione di discostarsi dal consolidato principio
di diritto secondo il quale, a seguito delle modifiche dell’art. 606, comma 1, lett.
e), cod. proc. pen., ad opera dell’art. 8 della legge 20 febbraio 2006, n. 46,
mentre è consentito dedurre con il ricorso per cassazione il vizio di ‘travisamento
della prova’, che ricorre nel caso in cui il giudice di merito abbia fondato il
proprio convincimento su una prova che non esiste o su un risultato di prova
obiettivamente ed incontestabilmente diverso da quello reale, non è affatto
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‘Ritenuto in fatto’, sono tutti inammissibili perché diretti a fare valere ragioni

permesso dedurre il vizio del ‘travisamento del fatto’, stante la preclusione per il
giudice di legittimità a sovrapporre la propria valutazione delle risultanze
processuali a quella compiuta nel precedenti gradi di merito, e considerato che,
In tal caso, si domanderebbe alla Cassazione il compimento di una operazione
estranea al giudizio di legittimità, qual è quella di reinterpretazione degli
elementi di prova valutati dal giudice di merito ai fini della decisione (così, tra le
tante, Sez. 3, n. 39729 del 18/06/2009, Belluccia, Rv. 244623; Sez. 5, n. 39048
del 25/09/2007, Casavola, Rv. 238215).
completa capacità persuasiva, nella quale non sono riconoscibili vizi di manifesta
illogicità: avendo la Corte abruzzese analiticamente spiegato come i soggetti che
avevano reso dichiarazioni testimoniali a carico dell’imputato fossero tutti
credibili perché, pur in presenza di talune discordante di scarso rilievo,
comunque giustificate dal tempo trascorso, le loro indicazioni, globalmente
attendibili sotto l’aspetto intrinseco, si fossero in pratica confermate l’una con
l’altra ed avessero trovato riscontro nei dati desumibili dai tabulati del traffico
telefonico che il Cafarelli aveva intrattenuto con vari sottufficiali dei carabinieri
ed altri operatori di polizia in concomitanza delle due perquisizioni eseguiti nel
locale del Lizzi; come del pari ininfluente ai fini della decisione fosse il tenore
delle conversazioni telefoniche, intercettate durante le indagini, intercorse tra
l’imputato e tali “Leo” e “Claudia”, idonee solo a dimostrare l’esistenza di
relazioni tra i prevenuti già comprovate da altre emergenze processuali (v. pagg.
10-11 sent. impugn.).
5. L’ultimo motivo del ricorso, solo apparentemente formulato in termini di
vizio di motivazione, ma in realtà riguardante una presunta violazione di legge
per mancata osservanza del principio di correlazione tra contestazione e
decisione (violazione, peraltro, rappresentata in maniera molto confusa e
generica), è inammissibile perché avente ad oggetto una doglianza non dedotta
con l’atto di appello.
L’art. 606, comma 3, cod. proc. pen. prevede, infatti, espressamente come
causa speciale di inammissibilità la deduzione con Il ricorso per cassazione di
questioni non prospettate nei motivi di appello: situazione, questa, con la quale
si è inteso evitare il rischio di un annullamento, in sede di cassazione, del
provvedimento impugnato, in relazione ad un punto intenzionalmente sottratto
alla cognizione del giudice di appello.
6. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue, a norma dell’art.
616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento in favore dell’erario
6

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La motivazione contenuta nella sentenza impugnata possiede una stringente e

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delle spese del presente procedimento ed a quello in favore della cassa delle
ammende di una somma, che si stima equo fissare nell’importo che segue.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di euro 1.000,00 in favore della cassa delle
ammende.
Così deciso il 17/04/2013

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