Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 18110 del 12/03/2018


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 18110 Anno 2018
Presidente: PALLA STEFANO
Relatore: PISTORELLI LUCA

SENTENZA

sui ricorsi proposti dai difensori di:
Esposito Carmine, nato a Napoli, i119/8/1971;
Galluccio Fortunato, nato a Casoria, i130/3/1964;
Laezza Raffaele, nato ad Afragola, iI7/1/1957;
Giordano Armando, nato a Casoria, iI23/9/1975;
Perna Giuseppe, nato a Portici, il 5/2/1951;

avverso la sentenza del 30/3/2016 della Corte d’appello di Roma;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. Luca Pistorelli;
udito il Pubblico Ministero in.persona del Sostituto Procuratore generale Dott. Perla
Lori, che ha concluso per l’inammissibilità dei ricorsi;

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Data Udienza: 12/03/2018

uditi per gli imputati gli avv.ti Filomena Stellato, Filippo Trofino, Angelo Cerbone,
Angelo Spaniscia, Gustavo Barzini , che hanno concluso chiedendo l’accoglimento dei
ricorsi proposti nell’interesse dei rispettivi assistiti.

RITENUTO IN FATTO
1. Con la sentenza impugnata la Corte d’appello di Roma ha confermato la condanna di

Giuseppe per i reati – come rispettivamente contestati – di falso materiale in atto
pubblico continuato e aggravato, falso ideologico in atto pubblico, corruzione in atti
giudiziari, falsa testimonianza e favoreggiamento personale. In parziale riforma della
pronunzia appellata, la Corte territoriale ha invece ridotto le pene irrogate in primo
grado al Galluccio, al Giordano ed al Perna. La vicenda, nella prospettazione
accusatoria accolta dai giudici del merito ed in estrema sintesi, riguarda la corruzione
del Laezza, ufficiale della polizia municipale di Afragola, assoldato dall’Esposito con il
concorso degli altri imputati al fine di predisporre falsi rapporti e relazioni ad oggetto
un sinistro stradale mai avvenuto, consentendo in tal modo al suddetto Esposito di
precostituirsi la documentazione necessaria a provare l’alibi dallo stesso prospettato nel
processo in cui era imputato per il reato di tentato omicidio (nel quale è stato
effettivamente assolto) e nel quale il Laezza, confermando il contenuto degli atti citati,
ha successivamente reso falsa testimonianza.
2. Avverso la sentenza ricorrono tutti gli imputati a mezzo dei rispettivi difensori.
2.111 ricorso proposto nell’interesse dell’Esposito articola due motivi. Con il primo
vengono dedotti errata applicazione della legge penale e vizi della motivazione in
merito alla autonoma rilevanza penale della condotta di formazione della falsa relazione
conclusiva ad oggetto il menzionato sinistro contestata al capo B), che secondo il
ricorrente costituirebbe un post factum non punibile, atteso che tale relazione si limita
a riprodurre il contenuto dei falsi rapporti oggetto dell’imputazione di falso materiale in
atto pubblico di cui al precedente capo A). Analoghi vizi vengono dedotti con il secondo
motivo in relazione al contestato concorso dell’imputato nella falsa testimonianza
commessa dal Laezza e di cui al capo D). In proposito viene eccepito che a quest’ultimo
avrebbe dovuto essere riconosciuta

l’esimente di cui all’art.

384 c.p.,

indipendentemente dal fatto che egli stesso, in quanto autore dei falsi rapporti, avesse
cagionato la situazione di pericolo che lo aveva portato a rendere una testimonianza
mendace proprio al fine di evitare di autoincriminarsi. Ciò premesso il ricorrente rileva
che la Corte territoriale avrebbe altresì errato nel ritenere comunque non estensibile la
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Esposito Carmine, Galluccio Fortunato, Giordano Armando, Laezza Raffaele e Perna

suddetta esimente all’Esposito, giacchè questi, in quanto istigatore della falsa
testimonianza, era mosso dalla stessa necessità del coimputato di prevenire
l’accertamento della falsità dei rapporti, di cui pure avrebbe dovuto rispondere a titolo
di concorso morale.
2.2 Il ricorso proposto nell’interesse del Galluccio lamenta errata applicazione della
legge penale in merito al mancato assorbimento del falso di cui al capo B) in quello di
cui al capo A), prospettando i medesimi argomenti già illustrati trattando del primo

dell’esimente di cui all’art. 51 c.p. in riferimento al contestato concorso dell’imputato
nei reati di falsa testimonianza e di favoreggiamento personale. Quanto a quest’ultimo,
il ricorrente eccepisce altresì il suo assorbimento, in nome del principio di specialità, in
quelli di falso contestati. Infine, sotto altro profilo, censura il denegato riconoscimento
delle attenuanti generiche, motivato esclusivamente in ragione dell’appartenenza
dell’imputato all’Arma dei Carabinieri e senza considerare la particolare situazione
personale e familiare prospettata con i motivi d’appello.
2.3 Con il ricorso proposto nell’interesse del Laezza vengono dedotti errata applicazione
della legge penale e vizi della motivazione in merito alla conferma del giudizio di
bilanciamento tra le contestate aggravanti e le riconosciute attenuanti generiche in
termini di mera equivalenza nonostante le documentate condizioni di salute
dell’imputato.
2.4 II ricorso proposto nell’interesse del Giordano articola due motivi. Con il primo
vengono dedotti errata applicazione della legge penale e vizi della motivazione in
merito alla qualificazione giuridica dei fatti di cui al capo E) a titolo di concorso in
corruzione in atti giudiziari,anziché ai sensi dell’art. 322 c.p., una volta riconosciuto in
sentenza il mero ruolo di intermediario svolto dall’imputato nella corruzione del Laezza.
Sottoaltro profilo con il medesimo motivo il ricorrente lamenta l’indicazione solo
complessiva dell’aumento di pena disposto a titolo di continuazione per i reati di cui ai
capi E) ed F), non consentendo così la verifica del percorso seguito nella
commisurazione dei singoli aumenti applicati. Analoghi vizi vengono dedotti con il
secondo motivo in merito al denegato riconoscimento delle attenuanti generiche.
2.5 II ricorso proposto nell’interesse del Perna articola cinque motivi.
2.5.1 Con il primo il ricorrente eccepisce la violazione dell’art. 11 c.p.p. e vizi della
motivazione, lamentando l’illegittimità della dichiarazione di incompetenza del G.i.p. del
Tribunale di Napoli, originariamente investito del procedimento, in favore del Tribunale
di Roma in ragione dell’appartenenza dell’imputato alla magistratura onoraria. In tal
senso viene innanzi tutto osservato che, secondo l’insegnamento delle Sezioni Unite di
questa Corte, la speciale competenza derogatoria prevista dalla disposizione che si
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motivo del ricorso dell’Esposito, nonché in ordine al mancato riconoscimento

eccepisce violata riguarda sì anche i magistrati onorari, ma solo qualora questi abbiano
rivestito l’incarico in modo stabile e continuativo per un arco temporale significativo. In
secondo luogo viene evidenziato come la normativa ordinamentale (e in particolare
l’art. 42-quinquies r.d. n. 12/1941) stabilisca che l’incarico di magistrato onorario sia
triennale e possa essere rinnovato una sola volta e per un ulteriore triennio, alla cui
scadenza – come chiarito dalle circolari del CSM rilevanti in materia – all’interessato è
preclusa la possibilità di proporre nuova domanda di incarico presso qualsiasi ufficio

riconoscersi che il Perna era cessato dall’incarico al più tardi nel 2003, anno di
scadenza della sua conferma nella nomina originariamente risalente al 1998. Peraltro
dalla documentazione versata in atti (certificazioni della Presidenza e dell’Ufficio
Pagamenti del Tribunale di Napoli) risulta che egli comunque non ha di fatto svolto le
funzioni di magistrato onorario già a partire dal 2001, avendole egli esercitate solo per
un breve periodo, talchè nemmeno può ritenersi lo abbiano riguardato le proroghe ope
legis degli incarichi in corso operate dal d.l. n. 115/2005 e dal d. I. n. 248/2007. Non
solo, ben prima della pronunzia di incompetenza, il Perna era in ogni caso decaduto
dall’incarico di magistrato onorario per la sopravvenuta incompatibilità con il medesimo
causata dall’esercizio della professione forense nel circondario in cui aveva svolto la
funzione. Di conseguenza il fatto che il provvedimento formale di ricognizione della sua
decadenza sia intervenuto tardivamente – e cioè nel 2015 – contrariamente a quanto
affermato dalla sentenza impugnata, non può ritenersi sufficiente a dimostrare la
sussistenza dei presupposti per l’operatività nel caso di specie dell’art. 11 c.p.p.
2.5.2 Con il secondo motivo il ricorrente lamenta errata applicazione della legge penale
in merito alla ritenuta configurabilità del reato di favoreggiamento personale di cui al
capo F), evidenziandosi in tal senso come l’art. 378 c.p. punisca esclusivamente colui
che aiuta altri ad eludere le indagini o a sottrarsi alle ricerche dell’Autorità e non già,
come invece contestato nel caso di specie e ritenuto anche nella sentenza impugnata, a
garantirsi l’impunità per un altro reato. Conseguentemente la condotta contestata deve
per il ricorrente considerarsi atipica, come peraltro dimostra il disposto dell’art. 61 n. 2
c.p., che espressamente contempla la suddetta finalità tra quelle che integrano
l’aggravante teleologica.
2.5.3 Con il terzo motivo vengono dedotti vizi di motivazione in merito alla valutazione
delle prove a carico dell’imputato. In particolare, con riguardo alle chiamate in correità
del Perna effettuate dall’Esposito e dal Laezza, il ricorrente lamenta che la Corte
territoriale avrebbe affermato in maniera illogica la credibilità di questi ultimi basandosi
esclusivamente sul fatto che gli stessi hanno innanzi tutto confessato le proprie
responsabilità, svalutando in modo altrettanto illogico la tardività delle loro confessioni
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giudiziario. Alla luce di tale quadro normativo, secondo il ricorrente doveva allora

- intervenute solo al fine attenuare il regime cautelare a cui erano già stati assoggettati
– e trascurando la smentita che alcune dichiarazioni del Laezza hanno ricevuto dagli
accertamenti successivi.
2.5.4 Con il quarto motivo vengono dedotti errata applicazione della legge penale e vizi
della motivazione in merito alla qualificazione giuridica dei fatti di cui ai capi A) e B),
lamentando in particolare il ricorrente la denegata derubricazione degli stessi sotto il
titolo dell’utilizzazione di atti falsi. In particolare si eccepisce l’apoditticità della

formazione dei falsi rapporti di sinistro sulla base della mera circostanza che questi
siano stati visionati dall’imputato prima della loro produzione in giudizio,
comportamento del tutto logico per un avvocato. Peraltro se effettivamente, come
riferito dal Laezza, egli avesse impartito istruzioni su come redigere i suddetti atti del
tutto illogica sarebbe stata la successiva pretesa di visionarli, contraddizione questa che
i giudici del merito hanno omesso di valutare.
2.5.5 Con il quinto ed ultimo motivo analoghi vizi vengono dedotti con riguardo al reato
di cui al capo D). In tal senso il ricorrente lamenta come del tutto illogicamente i giudici
dell’appello abbiano affermato che il Laezza, una volta chiamato a testimoniare nel
processo a carico dell’Esposito, avrebbe potuto riferire la verità, atteso che in tal modo
egli si sarebbe autoincriminato, mentre il suo mendacio deve ritenersi scriminato ai
sensi dell’art. 384c.p. Conseguentemente non sarebbe configurabile il ritenuto concorso
del Perna nel reato,peraltro affermato in maniera apodittica e comunque erroneamente
qualificato come tale, posto che al più l’imputato dovrebbe rispondere del diverso reato
di cui all’art. 377 c.p., mentre invece non potrebbe essere ritenuto responsabile del
fatto ai sensi dell’art. 111 c.p., posto che tale disposizione richiede la prova non già
della mera sollecitazione dell’autore materiale, bensì la vera e propria sua
determinazione a commettere il reato, prova insussistente nel caso di specie e
comunque non evidenziata dalla Corte territoriale.

3. Con memoria trasmessa il 23 febbraio 2018 il difensore dell’Esposito ha
ulteriormente argomentato i rilievi svolti con il secondo motivo, ribadendo come anche
all’istigatore della falsa testimonianza, qualora si trovi al pari dell’istigato nella
necessità di sottrarsi al pericolo di un grave e inevitabile nocumento per la propria
libertà, deve potersi applicare l’esimente di cui al primo comma dell’art. 384 c.p. In pari
data anche la difesa del Perna ha depositato memoria e documenti ad integrazione di
quelli allegati al ricorso a sostegno dell’eccezione processuale dedotta con il primo
motivo di ricorso.

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motivazione con la quale la Corte ha ritenuto provato il concorso morale del Perna nella

CONSIDERATO IN DIRITTO
1. I ricorsi sono infondati e per certi versi inammissibili e devono essere rigettati.
2. Pregiudiziale è l’esame dell’eccezione di incompetenza sollevata con il primo motivo
del ricorso del Perna, che è peraltro manifestamente infondata.

conferma in servizio cessava entro il 31 dicembre 2003, come nel caso dell’imputato,
sono stati prorogati ex lege per 1 anno, dal 1.1.2004 al 31.12.2004, ai sensi dell’art. 1,
comma 1, d.l. 354/2003; per 1 anno, dal 1.1.2005a1 31.12.2005, ai sensi dell’art. 18,
comma 2, d.l. 266/2004; per 2 anni, dal 1.1.2006 al 31.12.2007, ai sensi dell’art. 9,
comma 2-bis, d.l. 111/2005; per 2 anni, dal 1.1.2008 al 31.12.2009, ai sensi dell’art.
14, comma 1, d.l. 248/2007; per 1 anno, dal 1.1.2010 al 31.12.2010, ai sensidell’art.
1, comma 2, d.l. 193/2009; per 1 anno, dal 1.1.2011 al 31.12.2011,ai sensi dell’art. 1,
comma 2-quater, d.l. 225/2010; per 1 anno,dal 1.1.2012 al 31.12.2012, ai sensi
dell’art. 15, comma 2, d.l. 212/2011; per 1 anno, dal 1.1.2013 al 31.12.2013, ai sensi
dell’art. 1, comma 395, legge 228/2012; per 1 anno,dal 1.1.2014 al 31.12.2014, ai
sensi dell’art. 1, comma 290, legge 147/2013; per 1 anno, dal 1.1.2015 al 31.12.2015,
ai sensi dell’art. 2-bis d.l. 150/2013; per 6 mesi,dal 1.1.2016 al 31.05.2016, ai sensi
dell’art. 1, comma 610, legge 208/2015. Pertanto, lungi dall’essere cessato
dall’incarico, come sostenuto nel ricorso, alla scadenza nel 2003 della conferma
adottata tre anni prima, il Perna, sia al momento della consumazione dei reati
contestatigli, quanto in quello in cui il G.i.p. del Tribunale di Napoli nel 2013 si è
dichiarato incompetente ai sensi dell’art. 11 c.p.p., era ancora magistrato onorario e
tale è rimasto fino al provvedimento di decadenza pronunziato dal CSM nel 2015.
2.2 Irrilevante è poi che a partire dal 2001 l’imputato non abbia eventualmente svolto
in concreto le funzioni connesse al suo incarico. Come infatti precisato da Sez. Un., n.
292/05 del 15 dicembre 2004, Scabbia ed altro, Rv. 229632, l’applicabilità dell’art. 11
c.p.p. al magistrato onorario presuppone, per l’appunto, che il suo incarico sia
connotato dalla stabilità e cioè dalla continuatività riconosciuta formalmente per un
arco temporale significativo, in quanto tale stabilità è sufficiente a radicarlo
istituzionalmente nel plesso territoriale di riferimento e, di conseguenza, a determinare
il pericolo di un non imparziale esercizio della giurisdizione dei suoi confronti. In tal
senso è dunque inconferente la documentazione prodotta dal ricorrente per dimostrare
il mancato svolgimento in concreto di funzioni giurisdizionali a partire dal 2001,
mentre, alla luce di quanto esposto in precedenza, non vi è dubbio che
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2.1 Il ricorrente non considera infatti e innanzi tutto che i magistrati onorari la cui

successivamente alla cessazione della conferma, in forza dei provvedimenti legislativi
sopra elencati, egli sia stato formalmente prorogato senza soluzione di continuità nel
suo incarico per un periodo significativo.
2.3 Manifestamente infondata è altresì l’ulteriore obiezione del ricorrente per cui egli
sarebbe comunque decaduto dall’incarico successivamente al 2001 per essere incorso
nell’incompatibilità derivante dall’esercizio della professione forense nel medesimo
ambito territoriale. Anche a prescindere dal fatto che la sopravvenienza della situazione

deve rilevarsi come, ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 42-sexies r.d. n. 12/1941
applicabile ratione temporis alla fattispecie in esame, la cessazione, la decadenza o la
revoca dall’ufficio di magistrato onorario deve essere dichiarata o disposta con le stesse
modalità previste per la nomina e cioè con decreto del Ministro della Giustizia previa
delibera del CSM, talchè fino all’adozione di tali provvedimenti non può ritenersi venuta
meno l’attualità dell’incarico (cfr. nello stesso senso Sez. 1, n. 40145 del 23 settembre
2009, Confl. comp. in proc. Di Maria, Rv. 245050).
2.4 La disposizione da ultima citata evidenzia, infatti, come il provvedimento di
decadenza non abbia natura dichiarativa ed efficacia retroattiva, come pretenderebbe il
ricorrente, confondendo la sua natura, per l’appunto, con il carattere eventualmente
ricognitivo e non discrezionale della decisione. Sono note le incertezze della dottrina e
le oscillazioni della giurisprudenza amministrativa nella classificazione del
provvedimento di decadenza, alla cui inclusione, comunemente accettata, nella
categoria degli atti di ritiro o di secondo grado, volti a porre nel nulla o a privare di
efficacia un provvedimento precedentemente emesso, fa riscontro, per altro verso, la
sottolineatura della varietà e disomogeneità delle situazioni alle quali si riferisce,
individuabili di volta in volta nel mancato esercizio delle facoltà inerenti ad un rapporto
derivante da un provvedimento amministrativo, ovvero nell’inadempimento degli
obblighi inerenti ad un rapporto continuativo con la Pubblica Amministrazione, o ancora
nel venir meno dei presupposti necessari perché il provvedimento potesse essere
originariamente emesso. Il carattere obiettivo di tali fattispecie, impedendo di ravvisare
margini di discrezionalità nel relativo accertamento, attribuisce per l’appunto carattere
ricognitivo al provvedimento, al quale tuttavia deve riconoscersi, nel contempo, una
efficacia costitutiva, che si traduce nell’idoneità a determinare la risoluzione del
rapporto derivante dal precedente provvedimento, o il venir meno delle facoltà o dei
poteri da quest’ultimo attribuiti, ovvero l’insorgenza di obblighi restitutori a carico del
destinatario. In tale contesto, ed avuto riguardo al carattere eventualmente
continuativo del rapporto di cui la decadenza comporta lo scioglimento, o all’esigenza di
salvaguardare la legittimità degli atti precedentemente compiuti, non pare affatto lecito
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di incompatibilità è stata solo assertivamente prospettata dall’imputato, in ogni caso

attribuire, come pretende il ricorrente, efficacia necessariamente retroattiva
all’accertamento compiuto dall’Autorità preposta in ordine alla sussistenza dei relativi
presupposti, né nel senso che esso sia destinato in ogni caso a travolgere fin
dall’origine gli effetti prodotti dal precedente provvedimento, né nel senso, che assume
principalmente rilievo in questa sede, che la caducazione sia destinata sempre e
comunque ad operare fin dal momento in cui si sono verificati i predetti presupposti
(cfr. Cons. Stato, Sez. III, 10 luglio 2013, n. 3707, relativa alla decadenza da una

rapporto di pubblico impiego; Cons. Stato, Sez. IV, 23 novembre 1995, n. 939, relativa
alla decadenza di vincoli urbanistici; Cass. Sez. 1 civ., n. 18227 del 24 luglio 2017, Rv.
644980).
3.Generiche sono invece le censure proposte con i ricorsi dell’Esposito e del Galluccio
per il mancato “assorbimento” del falso di cui al capo B) in quello di cui al capo A). Tali
censure prescindono infatti dalla confutazione svolta in sentenza dell’analoga obiezione
proposta dai ricorrenti con i rispettivi motivi d’appello, limitandosi a riproporla. La Corte
territoriale ha invece esaurientemente dimostrato l’autonomia – materiale e funzionale
– della relazione conclusiva sul sinistro stradale di cui al citato capo B), sottolineando
come la sua falsità non possa considerarsi un mero post factum non punibile in ragione
della circostanza che la sua redazione non era comunque dovuta, essendo al contrario
imposta esclusivamente in caso di specifica richiesta tesa al suo rilascio (richiesta che
nel caso di specie è stata peraltro presentata dal Perna per conto dell’Esposito). Del
tutto logicamente, dunque, la sentenza ha ritenuto irrilevante il fatto che la relazione
riproduca il contenuto dei falsi rapporti di cui al capo A), come peraltro è ovvio che
fosse.
4. Manifestamente infondato ed altresì generico deve ritenersi il primo motivo del
ricorso del Giordano, con il quale viene eccepita l’errata qualificazione della condotta
attribuita all’imputato nel contesto dell’imputazione di corruzione in atti giudiziari.
Anche in questo caso il ricorrente ha sostanzialmente omesso il doveroso confronto con
la motivazione della sentenza, che in maniera logica e coerente alle risultanze
processuali riportate (e non contestate con il ricorso) ha argomentato l’affermata
rilevanza concorsuale dell’intermediazione svolta dall’imputato tra l’Esposito e il Laezza.
In tal senso non è dunque in dubbio che il Giordano sia stato correttamente ritenuto
responsabile del concorso nel reato di cui all’art. 319-ter c.p. contestatogli, mentre la
diversa qualificazione della sua condotta ai sensi dell’art. 322 dello stesso codice
proposta dal ricorrente non solo, come detto, contrasta con quanto accertato, ma è
altresì palesemente errata in diritto, posto che per la configurabilità dell’istigazione alla
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nomina; Cons.- Stato, Sez. VI, 23 settembre 1999, n. 1249, relativa alla decadenza dal

corruzione è necessario che l’offerta o la promessa corruttiva non venga accettata,
mentre nel caso di specie non sussiste dubbio alcuno (né il ricorrente lo contesta) che il
Laezza abbia ricevuto il compenso offertogli per compiere le azioni criminose di cui
anche il ricorrente è stato chiamato a rispondere.
5. Con riguardo alla configurabilità del reato di favoreggiamento, manifestamente
infondata è l’obiezione sollevata con il ricorso del Galluccio in merito al suo preteso
assorbimento in quelli di falso materiale di cui ai capi A) e B). Non sussiste infatti alcun

378 e dall’art.476 c.p., a nulla rilevando che in concreto, il falso sia stato lo strumento
attraverso cui è stato realizzato il favoreggiamento, circostanza idonea semplicemente
a configurare il concorso formale tra i reati previsti dalle due disposizioni citate.
6. Infondate sono invece le doglianze sull’atipicità della condotta di favoreggiamento in
concreto contestata avanzate con il secondo motivo di ricorso del Perna in ragione della
funzionalità dei falsi rapporti a garantire l’impunità dell’Esposito nel corso del processo
a suo carico e non già ad eludere le investigazioni nei suoi confronti. Alla luce
dell’ampio orizzonte semantico che caratterizza il termine “investigazioni” dispiegato
dal legislatore e della sua eccentricità rispetto a quelli utilizzati nel codice di rito per
identificare la fase procedimentale di cui agli artt. 326 e sss. c.p.p. non può infatti
escludersi che nella sfera di protezione dell’incriminazione prevista dall’art. 378 c.p.
rientri anche l’attività di istruzione dibattimentale (Sez. 6, n. 14222 del 23 novembre
1999, Poncet ed altri, Rv. 215596). Ed in tal senso questa Corte ha già avuto modo di
precisare – con argomentazioni che devono essere condivise – il delitto di
favoreggiamento è configurabile non solo quando il comportamento dell’agente sia
diretto a sviare l’attività investigativa della polizia giudiziaria, ma anche quando sia
preordinato a turbare l’attività di ricerca e acquisizione della prova da parte degli organi
della magistratura (non solo inquirente ma anche giudicante), compresi quegli organi
che non hanno poteri istruttori, atteso che, attività investigativa non è solo quella volta
alla ricerca delle prove, ma anche quella mirante all’acquisizione di esse nel
procedimento penale (anche incidentale) nonché quella di selezione del materiale
raccolto per individuare le fonti di prova idonee a procurare il convincimento del giudice
ai fini della ricerca della verità (Sez. 6, n. 7270 del 21 marzo 2000, P.G. in proc.
Liguoro A, Rv. 216888).
7. Parimenti infondate sono le doglianze proposte con i ricorsi dell’Esposito e del Perna
in merito alla mancata applicazione nei loro confronti dell’art. 384 comma 1 c.p.

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rapporto di specialità tra le fattispecie astratte contemplate, rispettivamente, dall’art.

7.1 Comunemente l’esimente prevista dalla citata disposizione viene presentata come
diretta emanazione del principio del nemo tenetur se detegere. Affermazione che può
essere accolta solo se tale principio viene evocato in senso ampio e generico riferendolo cioè a comportamenti comunque pregiudizievoli per l’agente – e non in
quello proprio del divieto di coazione dell’imputato o del potenziale imputato a rendere
dichiarazioni autoaccusatorie, atteso che alla disposizione menzionata sono riconducibili
anche condotte che non costituiscono esercizio del diritto di difesa, come ad esempio

personale.
7.2 In realtà i limiti di operatività dell’esimente, per come emergono
inequivocabilmente dal testo della previsione normativa, consentono di identificare la
ratio che la ispira. Infatti, essendo richiesto che la situazione di necessità riguardi
l’agente (o un suo prossimo congiunto) e che questi realizzi personalmente la condotta
necessitata, deve ritenersi imposta un’interpretazione in chiave soggettiva del termine
“costretto”, evocativo di un condizionamento della volontà del soggetto.
7.3 Alla base della non punibilità dell’agente, del resto, non può ritenersi, sussista quel
bilanciamento di interessi in conflitto che caratterizza la ratio delle scriminanti, attesa la
profonda eterogeneità e conseguente incomparabilità tra il bene individuale della libertà
o dell’onore e quello collettivo dell’amministrazione della giustizia. Ed in tal senso è
significativo che l’art. 384 c.p. non richieda il requisito della proporzione, né è possibile
mutuarlo dall’art. 54 c.p. (come pure si è prospettato in passato) ricostruendo la
fattispecie esimente in questione come una sorta di ipotesi speciale dello stato di
necessità, ricorrendo in definitiva all’analogia in malam partem. Anzi, la previsione in
esame dimostra che, in via normale, il legislatore considera l’interesse pubblico di
giustizia prevalente rispetto ad interessi privati, offrendo una pietra di paragone per il
giudizio sopra i medesimi.
7.4 Deve dunque ritenersi che l’art. 384 comma 1 c.p. non designi affatto una
preferenza per l’interesse individuale a scapito di quello pubblico, ma, più
riduttivamente, uno spazio di impunità dipendente dalla irragionevolezza della pretesta
di un comportamento conforme alle aspettative. In altri termini esso tipicizza una
situazione di alterazione del normale processo motivazionale del soggetto, spinto ad
agire per lo scopo di salvamento indicato dalla norma. L’esimente configurata dalla
disposizione in oggetto deve pertanto essere correttamente qualificata come una causa
di esclusione della colpevolezza e non già dell’antigiuridicità della condotta, apparendo
evidente la scelta del legislatore di attribuire rilevanza, nei confini segnati dalla
previsione normativa, alla particolare situazione soggettiva in cui si è venuto a trovare
l’agente, che rende inesigibile un comportamento conforme alle norme indicate nel
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condotte materiali integranti gli estremi della frode processuale o del favoreggiamento

citato comma primo dell’art. 384, pur non escludendo il disvalore oggettivo del fatto
tipico realizzato.
7.5 Conseguentemente deve escludersi che, come invece preteso dai ricorrenti,
l’esimente in questione si estenda ai concorrenti nel reato materialmente commesso dal
soggetto non punibile, in quanto la stessa, attesa la sua natura soggettiva, ha carattere
strettamente personale (nello stesso senso cfr. Sez. 1, n. 9916 del 18 aprile 1977,
Schiavone, Rv. 136597).

riconosciuta l’esimente in maniera autonoma ai concorrenti nel reato – a prescindere
cioè dalla sua comunicabilità o meno agli stessi – in quanto, analogamente al Laezza, i
medesimi avrebbero agito sulla base della medesima necessità di sottrarsi al pericolo di
un nocumento per la propria libertà. Come già accennato, infatti, l’art. 384 comma 1
c.p. è applicabile soltanto a chi compie materialmente l’azione tipica, come dimostra il
tenore testuale della disposizione, la quale, in maniera armonica con lo stesso
fondamento dell’esimente, identifica il destinatario dell’esenzione esclusivamente in
colui che abbia commesso il fatto perché “costretto” dalla necessità di scongiurare un
nocumento grave e inevitabile nella libertà e nell’onore e non già indiscriminatamente
in chi abbia la generica esigenza di salvare sé medesimo da una probabile incolpazione.
E nel caso della falsa testimonianza non vi è dubbio che la situazione di costrizione
insorga soltanto nei confronti di colui che è chiamato a deporre con l’obbligo di
rispondere e dire la verità, venendo posto di fronte all’alternativa di assolvere tale
obbligo autoincriminandosi ovvero di mentire per salvarsi.
7.7 Deve dunque ritenersi che la Corte territoriale abbia correttamente escluso che ai
concorrenti nel reato si applichi l’esimente in questione, mentre infondata è anche
l’ulteriore obiezione sollevata con il ricorso del Perna in merito all’evocazione in
sentenza, a sostegno delle rassegnate conclusioni, dell’art. 111 c.p. Infatti i giudici
dell’appello non hanno inteso applicare – né di fatto hanno applicato – all’imputato
l’aggravate prevista dal primo comma dell’articolo menzionato (peraltro mai
contestata), limitandosi ad evocare ad colorandum la possibilità di ritenere l’imputato
addirittura come determinatore della condotta del Laezza.
7.8 Manifestamente infondata è invece l’obiezione proposta con il ricorso del Galluccio,
secondo cui il concorso di quest’ultimo nei reati di falsa testimonianza e di
favoreggiamento sarebbe scriminato ai sensi dell’art. 51 c.p. in quanto l’imputato
avrebbe esercitato il proprio diritto di difesa. Come questa Corte ha già avuto modo di
ricordare, infatti, tale diritto comporta, oltre a facoltà di vario genere e ad obblighi di
informazione, la non assoggettabilità ad atti di costrizione tendenti a provocare
un’autoincriminazione, ma non anche la possibilità di violare regole di comportamento
11

7.6 Né ha pregio l’ulteriore pretesa – avanzata dai ricorrenti – di vedere comunque

poste a tutela di interessi non legati alla pretesa punitiva; il diritto di difesa, cioè, non
comprende anche il diritto di arrecare offese ulteriori (Sez. 5, n. 6650 del 22 gennaio
1992, Zampini, Rv. 190500).
7.9 Infine deve escludersi che l’esimente possa essere riconosciuta al Laezza, sebbene
per motivi diversi da quelli incidentalmente prospettati dalla sentenza impugnata.
7.9.1 II principio richiamato dalla Corte territoriale, per cui la suddetta esimente non
compete all’agente quando la situazione di pericolo sia stata da lui volontariamente

volontariamente posto nelle condizioni di dover deporre, come nel caso in cui egli abbia
proposto una denunzia o una querela ovvero, pur potendolo fare, non si sia avvalso
dell’eventuale facoltà di non testimoniare riconosciutagli dalla legge (cfr. Sez. 6, n.
7823/99 del 15 dicembre 1998, Mocerino I, Rv. 214756; Sez. 6, n. 10654 del 20
febbraio 2009, Ranieri, Rv. 243076; Sez. Un., n. 7208/08 del 29 novembre 2007, P.M.
in proc. Genovese, Rv. 238383). Per converso il suddetto principio non può essere
esteso alla diversa ipotesi in cui l’agente venga costretto a deporre su un fatto di reato
da lui stesso in precedenza commesso, ancorchè potesse prevedere tale eventualità,
che altrimenti la previsione di cui al primo comma dell’art. 384 c.p. perderebbe di
significato (cfr. Sez. 3, n. 45444 del 25 giugno 2014, Maccioni e altro, Rv. 260744;
Sez. 6, n. 12817 del 26 febbraio 2013, P.M. in proc. Bramati, Rv. 256009; Sez. 6, n.
20454 del 4 marzo 2009, Marianelli e altro, Rv. 244389; Sez. 6, n. 3427/09 del 5
novembre 2008, P.G. in proc. Devito, Rv. 242420).
7.9.2 In realtà la prova della sussistenza dell’esimente è demandata all’imputato che
intende avvalersene e che, al fine di assolvere all’onere probatorio, non può limitarsi
alla mera allegazione delle condizioni della sua esistenza, dovendo invece specificare gli
elementi specifici che pongano il giudice in condizione di rilevarne l’applicabilità (Sez. 6,
n. 1401/15 del 25 novembre 2014, Vigneri, Rv. 262054). Nel caso di specie il Laezza
non solo non ha assolto tale onere probatorio, ma nemmeno ha invocato l’esimente nel
corso del procedimento indicando le condizioni della sua esistenza.

8. Il terzo ed il quarto motivo del ricorso proposto dal Perna sono invece inammissibili.
8.1 La sentenza ha innanzi tutto ritenuto provato il concorso dell’imputato nei reati
contestatigli sulla base delle chiamate in correità effettuate dal Laezza e dall’Esposito,
la cui convergenza le riscontra reciprocamente in senso individualizzante. In tal modo
la Corte territoriale ha fatto puntuale applicazione del consolidato insegnamento di
questa Corte per cui, in tema di chiamata in correità, i riscontri dei quali necessita la
narrazione, possono essere costituiti da qualsiasi elemento o dato probatorio, sia
rappresentativo che logico, a condizione che sia indipendente e, quindi, anche da altre
12

causata, deve infatti essere correttamente riferito all’ipotesi in cui lo stesso si sia

chiamate in correità, purché la conoscenza del fatto da provare sia autonoma e non
appresa dalla fonte che occorre riscontrare, ed a condizione che abbia valenza
individualizzante, dovendo cioè riguardare non soltanto il fatto-reato, ma anche la
riferibilità dello stesso all’imputato, mentre non è richiesto che i riscontri abbiano lo
spessore di una prova “autosufficiente” perché, in caso contrario, la chiamata non
avrebbe alcun rilievo, in quanto la prova si fonderebbe su tali elementi esterni e non
sulla chiamata di correità (ex multis Sez. 3, n. 44882 del 18 luglio 2014, Cariolo e altri,

8.2 Quanto alle critiche mosse dal ricorrente alla valutazione delle suddette chiamate in
correità, va innanzi tutto osservato come siano ispirate ai principi affermati in un noto
precedente delle Sezioni Unite risalente al 1992 e per cui il giudice dovrebbe in . primo
luogo sciogliere il problema della credibilità del dichiarante; in secondo luogo dovrebbe
verificare l’intrinseca consistenza, e le caratteristiche delle dichiarazioni del chiamante,
alla luce di criteri quali, tra gli altri, quelli della precisione, della coerenza, della
costanza, della spontaneità; infine dovrebbe esaminare i riscontri cosiddetti esterni
(Sez. Un., n. 1653/93 del 21 ottobre 1992, Marino ed altri, Rv. 192465). L’esame del
giudice, sempre secondo il citato arresto del Supremo Collegio, andrebbe compiuto
seguendo l’indicato ordine logico, perché non sarebbe possibile procedere ad una
valutazione unitaria della chiamata in correità e degli “altri elementi di prova che ne
confermano l’attendibilità” se prima non si chiariscono gli eventuali dubbi che si
addensino sulla chiamata in sè, indipendentemente dagli elementi di verifica esterni ad
essa. Va però ricordato come tale orientamento, a lungo perpetratosi nella
giurisprudenza di questa Corte, sia stato in tempi più recenti precisato (o se si
preferisce: rettificato) dal Supremo Collegio, il quale ha avuto modo di sottolineare
come, nella valutazione della chiamata in correità o in reità, il giudice, ancora prima di
accertare l’esistenza di riscontri esterni, deve sì verificare la credibilità soggettiva del
dichiarante e l’attendibilità oggettiva delle sue dichiarazioni, ma tale percorso valutativo
non deve muoversi attraverso passaggi rigidamente separati, in quanto la credibilità
soggettiva del dichiarante e l’attendibilità oggettiva del suo racconto devono essere
vagliate unitariamente, non indicando l’art. 192, comma terzo, c.p.p. alcuna specifica
tassativa sequenza logica o cronologica (Sez. Un., n. 20804/13 del 29 novembre 2012,
Aquilina e altri, Rv. 255145). Ed è a tale arresto – pienamente condiviso dal collegio che implicitamente si è ispirata la Corte territoriale nel compiere una valutazione
complessiva e circolare dell’attendibilità intrinseca ed estrinseca dei coimputati del
Perna.
8.3 Ciò premesso, è indubitabile che i rilievi svolti dal ricorrente a critica della ritenuta
attendibilità dei due dichiaranti risultino generici nella misura in cui rappresentano la
13

Rv. 260607).

mera riproposizione delle obiezioni sollevate con il gravame di merito e specificamente
confutate dalla sentenza impugnata con motivazione con cui il ricorso non si è
sostanzialmente confrontato. Così è in particolare per le censure relative alla presunta
tardività delle dichiarazioni eteroaccusatorie e al presunto interesse dei coimputati a
renderle. Infondato è poi il rilievo per cui la preventiva confessione delle proprie
responsabilità non possa costituire parametro di valutazione della credibilità del
dichiarante, giacchè la logica, prima di tutto, impone di affermare esattamente il

8.4 Le doglianze del ricorrente si rivelano poi vieppiù generiche in ragione della
mancata confutazione della sentenza nella parte in cui certifica l’attendibilità estrinseca
delle chiamate – contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa -non solo sulla base
della loro convergenza, ma altresì di ulteriori elementi (di ordine fattuale, come le
dichiarazioni del Giordano o la presentazione della richiesta di rilascio della relaizone
conclusiva sul falso sinistro, ovvero logico, come le considerazioni sul significato delle
intercettazioni telefoniche e degli incontri intervenuti tra gli imputati). Quanto infine
alla presunta smentita che il Laezza avrebbe trovato in risultanze documentali, quello
dedotto è sostanzialmente un vizio di travisamento per omessa considerazione di un
dato probatorio. Deduzione che parimenti risulta generica nella misura in cui tale prova
(costituita dal combinato disposto della dichiarazione del coimputato e dal riscontro
documentale) viene solo evocata e non anche riportata nella sua integralità o allegata
al ricorso. Non di meno non risulta che il travisamento in questione sia stato eccepito
con il gravame di merito, talchè è comunque inammissibile la sua deduzione in questa
sede, non essendo ammesso nel caso di c.d. “doppia conforme” superarsi il limite del
devolutum con recuperi in sede di legittimità, salvo il caso in cui il giudice d’appello, per
rispondere alla critiche dei motivi di gravame, abbia richiamato – ma non è questo il
caso – atti a contenuto probatorio non esaminati dal primo giudice (ex multis Sez. 4 n.
19710 del 3 febbraio 2009, p.c. in proc. Buraschi, rv 243636). Infine va rilevato che il
ricorrente non ha in ogni caso esplicitato le ragioni della decisività del dato probatorio
di cui si lamenta l’omessa valutazione.
8.5 Con riguardo alle censure svolte con il quarto motivo è appena il caso di
evidenziare come il ricorrente – nel lamentare la mancata derubricazione dei fatti di cui
ai capi A) e B) sotto il titolo di cui all’art. 489 c.p. – si sia limitato ad estrapolare un
brano della motivazione della sentenza, senza considerare nella sua interezza il
ragionamento svolto dai giudici dell’appello. Ed infatti la denegata riqualificazione è
innanzi tutto l’effetto dell’affermato concorso morale dell’imputato nella redazione degli
atti falsi, mentre le considerazioni oggetto di critica costituiscono la tutt’altro che

14

contrario.

illogica spiegazione – attesa la premessa – del perché il Perna abbia voluto verificare la
documentazione che si apprestava a produrre in giudizio.

9. Venendo ai rilievi svolti da alcuni dei ricorrenti con riferimento al trattamento
sanzionatorio, manifestamente infondati sono innanzi tutto quelli proposti con il ricorso
del Giordano in merito alla indicazione solo complessiva dell’entità degli aumenti di
pena disposti ex art. 81 c.p., posto che laddove il giudice non li determini in maniera

continuazione la stessa frazione dell’ammontare globale di pena applicato, dovendosi
peraltro ricordare come per consolidato orientamento di questa Corte non sussiste
obbligo di specifica motivazione per ogni singolo aumento, essendo sufficiente indicare
le ragioni a sostegno della quantificazione della pena-base (ex multis Sez. 2, n. 18944
del 22 marzo 2017, Innocenti e altro, Rv. 270361).
9.1 Infondate e per certi versi inammissibili sono invece le doglianze proposte dal
Laezza in merito alla mancata revisione del giudizio di bilanciamento tra le contestate
aggravanti e le già riconosciute attenuanti generiche ed alla commisurazione della
pena. Infatti la Corte territoriale, nel confermare il giudizio di mera equivalenza tra le
circostanze di segno opposto, ha legittimamente e logicamente fatto riferimento
all’oggettiva gravità delle plurime condotte illecite addebitate all’imputato, dovendosi
ricordare come le statuizioni relative al giudizio di comparazione, implicando una
valutazione discrezionale tipica del giudizio di merito, sfuggono al sindacato di
legittimità qualora non siano frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico e siano
sorrette da sufficiente motivazione, tale dovendo ritenersi perfino quella che per
giustificare la soluzione dell’equivalenza si sia limitata a ritenerla la più idonea a
realizzare l’adeguatezza della pena irrogata in concreto (Sez. Un., n. 10713 del 25
febbraio 2010, Contaldo, Rv. 245931). Quanto all’omessa valutazione delle allegazioni
difensive relative alla situazione familiare ed alle condizioni di salute dell’imputato, si
tratta invece di doglianza manifestamente infondata e generica. Tali elementi sono stati
infatti registrati dal giudice dell’appello, che nel valutare preminente – si ripete: con
motivazione logica – il dato relativo alla gravità dei comportamenti attribuibili al Laezza
ne ha implicitamente evidenziato l’inidoneità ad imporre una decisione di segno diverso
da quella adottata, mentre meramente assertiva e versata in fatto è la valutazione di
segno opposto effettuata dal ricorrente.
9.2 Generiche o manifestamente infondate sono infine le critiche avanzate dal Galluccio
e dal Giordano in ordine al denegato riconoscimento delle attenuanti generiche. Quanto
alla posizione del primo, non corrisponde a verità che la decisione censurata si fondi
esclusivamente sulla negativa valutazione dell’appartenenza dell’imputato all’Arma dei
15

differenziata deve ritenersi che implicitamente abbia assegnato ad ognuno dei reati in

Carabinieri, posto che innanzi tutto la Corte territoriale ha argomentato in relazione alla
ritenuta gravità dei fatti per i quali il Galluccio è stato condannato, talchè il suo ricorso
sul punto risulta per l’appunto manifestamente infondato e generico, dovendosi ancora
ricordare – in ordine all’ulteriore doglianza relativa alla mancata valorizzazione delle
circostanze evocate dalla difesa nei motivi d’appello – che la concessione o meno delle
attenuanti generiche rientra nell’ambito di un giudizio di fatto rimesso alla
discrezionalità del giudice, il cui esercizio deve essere motivato nei soli limiti atti a far

gravità effettiva del reato ed alla personalità del reo, anche quindi limitandosi a
prendere in esame, tra gli elementi indicati dall’art. 133 c.p., quello che ritiene
prevalente ed atto a determinare o meno il riconoscimento del beneficio (Sez. 6 n.
41365 del 28 ottobre 2010, Straface, rv 248737; Sez. 2, n. 3609 del 18 gennaio 2011,
Sermone e altri, Rv. 249163).
9.3 Altrettanto generiche sono le doglianze svolte sul punto con il ricorso del Giordano,
posto che le annotazioni dei giudici territoriali sulla eventualità che egli fosse
disponibile a testimoniare il falso nel processo a carico dell’Esposito sono state
all’evidenza svolte ad colorandum,

atteso che la motivazione della sentenza ha

chiaramente individuato innanzi tutto nella già citata gravità dei fatti imputati la
ragione principale (ed autonoma) del mancato riconoscimento nei suoi confronti delle
attenuanti generiche. E con tale apparato giustificativo il ricorrente sostanzialmente
non si è confrontato.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento ciascuno delle spese processuali.
Così deciso il 12/3/2018

emergere in misura sufficiente la sua valutazione circa l’adeguamento della pena alla

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