Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 1808 del 09/10/2013


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 1808 Anno 2014
Presidente: SQUASSONI CLAUDIA
Relatore: AMOROSO GIOVANNI

SENTENZA
sul ricorso proposto da Mohammad Sharif, nato in Pakistan il 3 gennaio 1964
avverso l’ordinanza del 27.9.2012 della Corte d’appello di Napoli
Udita la relazione fatta in camera di consiglio dal Consigliere Giovanni Amoroso;
Udito il P.M., in persona del S. Procuratore Generale dott. Gioacchino Izzo che ha
concluso per l’annullamento con rinvio;
la Corte osserva:

Data Udienza: 09/10/2013

RITENUTO IN FATTO
1. Il difensore di Mohammad Sharif proponeva richiesta di riparazione per
ingiusta detenzione depositata il 22.10.2008 presso la cancelleria della Corte
d’appello di Napoli che, all’esito

dell’udienza in camera di consiglio in data

27.09.2012, la rigettava con ordinanza in pari data.
Osservava la Corte territoriale che Mohannmad Sharif fu tratto in arresto
in flagranza il 31.05.2007, quindi sottoposto a custodia cautelare in carcere
giusta ordinanza del gip di Napoli per i delitti di tentato omicidio e rapina

Successivamente fu assolto dal tribunale di Santa Maria Capua Vetere
con sentenza n. 859/08, irrevocabile dal 19.09.2008, “perché il fatto non
sussiste”.
Però – osservava la Corte d’appello di Napoli – l’assoluzione era dipesa dal
fatto che la persona offesa, principale fonte di prova a carico, si era resa
irreperibile prima del processo e non ricorrevano i presupposti previsti dall’art.
512 c.p.p. per acquisirne ed utilizzarne le dichiarazioni rese in fase di indagini
preliminari, ma tali dichiarazioni, non viziate da inutilizzabilità patologica,
dovevano essere considerate dal giudice della riparazione, desumendosi da
esse un contesto di vivo contrasto tra l’imputato e la persona offesa, tale
ultimo contrasto andava qualificato come causa ostativa riconducibile
all’istante connotata da colpa grave.
2. Con sentenza n. 9532 del 12.03.2012) questa Corte di cassazione ha
cassato anche detta ordinanza di rigetto affermando che la Corte di merito, pur
invocando esattamente il principio di autonomia tra il giudizio di merito e quello
di riparazione per l’ingiusta detenzione e l’utilizzabilità nel secondo di

prove

fisiologicamente inutilizzabili nel primo, aveva insufficientemente motivato
circa l’individuazione della condotta gravemente colposa, riferibile all’istante,
che avrebbe concorso a dare causa alla custodia cautelare, facendo generico
riferimento al contesto di vivo contrasto tra i due litiganti.
3. Il giudizio è stato nuovamente rimesso alla Corte d’appello di Napoli
che con ordinanza del 27.9.2012 rigettava l’istanza. In particolare la Corte
territoriale riteneva sussistente la causa ostativa prevista dall’art. 314, primo
comma, ultimo periodo, c.p.p., consistente nel concorso dell’istante, per dolo o
colpa grave, a dare causa alla custodia cautelare.
Secondo

la ricostruzione del fatto offerta dalla sentenza assolutoria

irrevocabile – cui la Corte si riferiva onde valutare la sussistenza di cause
ostative alla riparazione – risultava che il Wasim Raja si presentò presso la
Stazione dei Carabinieri in due occasioni, a distanza di poche ore, nella stessa
mattina, la prima volta riferendo di avere litigato con l’odierno istante (che gli
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aggravata ai danni di Wasim Raja.

aveva concesso in sublocazione una stanza nel suo appartamento), la seconda
volta presentando una ferita da arma da taglio all’altezza del cuore e la
maglietta, bucata in corrispondenza

della ferita e piena di sangue, c

dichiarando di essere stato accoltellato dall’odierno istante. Tuttavia, in
assenza della deposizione del Wasim e nel divieto per gli ufficiali di polizia
giudiziaria di riferire circa le dichiarazioni ricevute dalla persona offesa, il
tribunale ha rettamente ritenuto insufficienti le prove a carico per ritenere che
l’odierno istante fosse responsabile dell’accoltellamento. Dall’esame delle

con precisione le circostanze ed i motivi dei due litigi, precisando che in
occasione del primo litigio egli aveva rotto i vetri dell’auto del Mohammad Sharif
c che, in occasione del secondo litigio, avvenuto poco dopo, il Mohammad “folle
di rabbia” mi sferrava prima un colpo alla base dell’addome .
Nel contempo, l’odierno istante gli strappò di dosso 140euro in contanti
che la vittima deteneva.
Tali dichiarazioni sono state ritenute dalla Corte territoriale come precise,
logiche e circostanziate, e corrispondono con le lesioni personali e i danni alla
maglietta riscontrati direttamente dai Carabinieri al momento della seconda
denunzia.
L’identità

dell’odierno

istante

come

aggressore risultava

dalla

individuazione di persona che i Carabinieri avevano dato atto di avere eseguito
nell’immediatezza del fatto, nel corso della quale la vittima riconobbe senza
dubbio l’odierno istante come l’aggressore. I Carabinieri avevano dato atto,
inoltre, che le fattezze dell’ istante coincidevano con la descrizione dello stesso
resa all’atto della denunzia e prima dell’individuazione di persona, dal
Wasim. Inoltre, i Carabinieri riferivano di avere rinvenuto poco dopo, nella
stessa zona, l’odierno istante, in possesso delle chiavi di una autovettura Opel,
parcheggiata nelle vicinanze, che presentava tutti i vetri rotti, il che
confermava la narrazione resa dal Wasinn in occasione della denunzia circa il
verificarsi del primo litigio.
Ha quindi concluso la Corte territoriale che l’imputato aveva tenuto la
condotta descritta dalla vittima, vibrando due coltellate in direzione del suo
cuore, una delle quali andata a segno. Tale condotta, senz’altro dolosa, aveva
indotto il giudice della cautela a fondare ragionevolmente il proprio
convincimento sul fatto che un soggetto che aveva vibrato due coltellate al cuore
di un altro soggetto, per poi strappargli 140euro in contanti, intendesse ucciderlo
e lo avesse rapinato. Tale condotta aveva dunque dato causa alla custodia
cautelare sicché infondata era l’istanza di equa riparazione.

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dichiarazioni rese ai Carabinieri dal Wasinn si apprezza, per contro, che egli narrò

4. Avverso questa pronuncia l’istante propone ricorso per cassazione con
tre motivi.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Con il ricorso, articolato in tre motivi, il ricorrente lamenta violazione
dell’art. 606 lett. e) c.p.p. in relazione all’art. 314 c.p.p. per avere la Corte
rinvenuto la sua colpa grave (del ricorrente) nella gravità indiziaria legittimante
la restrizione personale e costituita dalle dichiarazioni della parte offesa, senza
tenere in nessun conto la condotta processuale dell’istante.

214 del 2013 ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 315, comma 3, in relazione all’art. 646, comma 1, c.p.p. sollevata, in
riferimento agli artt. 111, primo comma, e 117, primo comma, Cost., dalle
Sezioni unite di questa Corte di cassazione nella parte in cui non consentono che,
su istanza degli interessati, il procedimento per la riparazione dell’ingiusta
detenzione si svolga, davanti alla corte d’appello, nelle forme dell’udienza
pubblica. In base alle norme denunciate, infatti, il procedimento in questione è
trattato in camera di consiglio e, dunque, «senza la presenza del pubblico» (art.
127, comma 6, cod. proc. pen.).
3. Nel merito il ricorso è infondato.
Con il ricorso in esame si impugna l’ordinanza, in data 27/9/2012, con la
quale la Corte d’Appello di Napoli ha respinto la richiesta di MOHAMMAD Sharif,
volta ad ottenere equa riparazione per ingiusta detenzione sofferta in carcere dal
31/5/2007 al 14/2/2008 e poi in regime di arresti domiciliari fino al 16/5/2008,
per i delitti di tentato omicidio e rapina aggravata, per avere lo stesso dato
causa allo stato di detenzione con colpa grave, desunta dalle dichiarazioni della
parte offesa.
Fondamentale in materia è la distinzione tra decisione di merito al fine
dell’accertamento della responsabilità penale – nella specie, la decisione è stata
assolutoria – e ricostruzione delle vicende processuali al diverso fine del
riconoscimento del diritto all’equa riparazione, riconoscimento escluso laddove il
soggetto interessato abbia tenuto comportamenti, colposi o dolosi, tali da far
ritenere necessaria la disposizione di misure cautelari. In quest’ultima sede il
giudice deve valutare non già se la condotta integri estremi di reato, ma solo se
sia stata il presupposto che abbia ingenerato, ancorché in presenza di errore
dell’autorità procedente, la falsa apparenza della sua configurabilità come illecito
penale, dando luogo alla detenzione con rapporto di causa ad effetto. Infatti va
ribadito che il rapporto tra giudizio penale e giudizio per l’equa riparazione è
connotato da totale autonomia ed impegna piani di indagine diversi e che
possono portare a conclusioni del tutto differenti (assoluzione nel processo, ma
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2. Quanto al rito va ricordato che la Corte costituzionale con sentenza n.

rigetto della richiesta riparatoria) sulla base dello stesso materiale probatorio
acquisito agli atti, ma sottoposto ad un vaglio caratterizzato dall’utilizzo di
parametri di valutazione differenti. In particolare, è consentita al giudice della
riparazione la rivalutazione dei fatti non nella loro valenza indiziaria o probante
(smentita dall’assoluzione), ma in quanto idonei a determinare, in ragione di una
macroscopica negligenza od imprudenza dell’imputato, l’adozione della misura.
Nella fattispecie in esame, la corte d’appello di Napoli, sulla base delle
considerazioni sopra indicate in narrativa, è pervenuta al convincimento che

di aggressione nei confronti della parte offesa. Al fine di accertare il presupposto
di esclusione dell’equa riparazione consistente nel fatto che l’imputato o
l’indagato abbia dato causa, o abbia concorso a dare causa, al provvedimento
restrittivo della sua libertà personale, la prova può essere liberamente rinvenuta
anche al di là dei limiti previsti per l’accertamento della responsabilità penale nel
giudizio dibattimentale; sicché a formare il convincimento del giudice possono
concorrere anche atti di indagine non utilizzabili in dibattimento. Pertanto
correttamente la corte d’appello ha considerato che le dichiarazioni della parte
offesa ed il riconoscimento dell’imputato ad opera della stessa parte offesa,
benché non fossero utilizzabili in dibattimento per sopravvenuta irriperibilità di
quest’ultima, erano invece utilizzabili al fine di verificare che il ricorrente che
domandava l’indennizzo per l’ingiusta detenzione non avesse dato causa alla
stessa. Esaminando criticamente gli atti di indagine svolti nell’immediatezza e
quindi considerando soprattutto le dichiarazioni della parte offesa, la corte
d’appello è pervenuta motivatamente al convincimento che l’odierno ricorrente,
all’epoca imputato, fosse stato individuato come autore dell’aggressione che
aveva determinato la misura cautelare della custodia in carcere.
In sintesi, se dagli atti di indagine risultano gravi indizi di colpevolezza,
nonché le esigenze cautelari, sicché ritualmente è stata adottata la misura
cautelare della custodia in carcere, e tali gravi indizi non sono smentiti dalla
istruttoria dibattimentale, ma soltanto non hanno ingresso in essa in ragione
della non utilizzabilità degli atti di indagine, la corte d’appello adita per la
riparazione per ingiusta detenzione può nondimeno valutarli per pervenire al
convincimento che l’imputato abbia posto in essere una condotta che ha dato
causa alla detenzione.
3.

Pertanto il ricorso va rigettato con conseguente condanna del

ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
la Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali.
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l’imputato, attuale ricorrente, effettivamente avesse posto in essere la condotta

Così deciso in Roma, il 9 ottobre 2013
Il Presidente

Il Consigliere estensore

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