Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 18024 del 19/12/2017


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Penale Sent. Sez. 1 Num. 18024 Anno 2018
Presidente: MAZZEI ANTONELLA PATRIZIA
Relatore: ROCCHI GIACOMO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
VASTARELLA PASQUALE nato il 01/03/1996 a NAPOLI

avverso la sentenza del 19/09/2016 della CORTE APPELLO di ROMA
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere GIACOMO ROCCHI
Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore GIOVANNI DI
LEO
che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.
E’ presente l’avvocato LEDDA GIUSEPPE del foro di CAGLIARI, sostituto
processuale, come da nomina depositata in udienza, dell’avvocato VIGGIANO
LUCA del foro di SANTA MARIA CAPUA VETERE difensore della parte civile DI
MAIO ALESSANDRO, che conclude come da conclusioni scritte che deposita
insieme alla nota spese.
E’ presente l’avvocato SIGNORE MASSIMO del foro di LATINA in difesa di
VASTARELLA PASQUALE che conclude chiedendo l’annullamento della sentenza
impugnata.
E’ presente l’avvocato IMPERATO ANDREA del foro di NAPOLI in difesa di
VASTARELLA PASQUALE che conclude chiedendo l’annullamento della sentenza
impugnata.

Data Udienza: 19/12/2017

RITENUTO IN FATTO

1. Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte di appello di Roma, in
riforma di quella del Tribunale di Cassino appellata da Vastarella Pasquale,
riduceva la pena ad anni cinque e mesi sei di reclusione, confermava nel resto la
sentenza impugnata e condannava l’imputato alla rifusione delle spese di
costituzione sostenute dalla parte civile.
Vastarella Pasquale è imputato del delitto di tentato omicidio aggravato da

Alessandro, ricoverato in rianimazione con prognosi riservata e con
indebolimento permanente della funzione contenitiva e di difesa della parete
respiratoria nonché dell’apparato respiratorio e con uno stato di malattia
superiore a quaranta giorni, nonché della contravvenzione di cui all’art. 4 legge
110 del 1975 con riferimento al porto del coltello usato per ferire la vittima. Il
Giudice di primo grado aveva concesso all’imputato le attenuanti generiche
equivalenti alla contestata aggravante e ritenuto i reati riuniti per continuazione.
Nel corso di un diverbio sorto tra due gruppi di giovani che si trovavano in
una piazza di Formia, dopo essere venuto alle mani, Vastarella aveva colpito Di
Maio con un casco e successivamente l’aveva accoltellato con un coltello “a
farfalla” che i giudici avevano ritenuto l’imputato avesse con sé; Di Maio aveva
corso pericolo di vita e la lesione aveva provocato indebolimenti permanenti e
una lunga malattia.
Nell’atto di appello, la difesa dell’imputato aveva chiesto l’assoluzione dal
delitto di tentato omicidio in mancanza della prova dell’univocità ed idoneità
dell’azione a provocare la morte e dell’animus necandi, nonché l’assoluzione dalla
contravvenzione di cui al capo B, ribadendo che Vastarella aveva trovato il
coltello sul bancone del bar dove era entrato e non lo portava con sé; aveva
chiesto, altresì, la riqualificazione della condotta principale nel delitto di lesioni
volontarie, l’esclusione del nesso teleologico contestato con riferimento alla
contravvenzione, la concessione dell’attenuante della provocazione, l’esclusione
dell’aggravante dei futili motivi e la riduzione della pena.
Secondo la Corte, la condotta era stata correttamente qualificata come
tentato omicidio: l’imputato aveva sferrato il colpo di coltello con il braccio alto
indirizzato verso la parte alta della sagoma della vittima, quindi verso una parte
vitale; il fatto che avesse ferito la vittima in una parte semilaterale in
conseguenza dello spostamento del Di Maio non mutava l’idoneità concreta a
determinare la morte; in ogni caso, la vittima aveva corso pericolo di vita.
L’efficacia offensiva del coltello utilizzato, inoltre, garantiva l’esito letale,
attesa la significativa penetrazione che l’arma aveva avuto nel torace di Di Maio,

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futili motivi per avere colpito con un profondo colpo di coltello al torace Di Maio

provocando un emopneumotorace e il ricovero in terapia intensiva, con il rischio
per la vita e necessità di ricorrere ad un intervento chirurgico d’urgenza.
La Corte rimarcava l’assoluta sproporzione della condotta rispetto al futile
intento perseguito, quello di affermare la propria supremazia, fino a giungere al
tentativo di annullamento fisico della controparte.
La Corte osservava che il reato di porto di coltello doveva ritenersi
consumato anche se l’arma fosse stata prelevata nel bar, come sostenuto
dall’imputato, in quanto egli, anche se per un breve lasso temporale, aveva pur

Non sussistevano i presupposti per il riconoscimento dell’attenuante della
provocazione: proprio la condotta rivendicata dall’imputato di essersi recato al
bar e di avere prelevato il coltello escludeva ogni ipotesi di azione in stato
d’impeto e avvalorava l’intento omicidiario; in ogni caso non risultava alcuna
condotta della vittima di aggressione fisica o verbale di portata tale da
giustificare una reazione di livello onnicidiario.
Sussisteva il nesso teleologico contestato con riferimento all’aggravante,
atteso che il porto dell’arma era stato funzionale all’aggressione omicidiaria.

2. Ricorrono per cassazione i difensori di Vastarella Pasquale, deducendo
violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento alla qualificazione della
condotta come tentativo di omicidio anziché come lesioni.
Il dolo del tentato omicidio deve essere provato e non può essere presunto,
nemmeno sulla base della circostanza oggettiva della messa in pericolo della vita
della persona offesa. I Giudici di merito, invece, si erano soffermati
esclusivamente su dati di natura obiettiva, senza valutare ulteriori elementi di
fatto che deponevano per conclusioni diametralmente opposte.
In particolare, non erano state prese in considerazione le dichiarazioni
confessorie dell’imputato, quelle degli altri testi presenti sul posto, la circostanza
che il colpo era stato inferto nel corso della colluttazione con Di Maio, l’essere
stato inferto un solo fendente, senza che Vastarella avesse nemmeno tentato di
colpire nuovamente la persona offesa, l’immediato allontanamento di Vastarella
dal luogo del ferimento, la sua giovanissima età e immaturità e, infine, il
comportamento post factum con immediata messa a disposizione dell’Autorità
Giudiziaria.
Particolarmente significativa era l’unicità del colpo inferto; il ricorrente
richiama la giurisprudenza di questa Corte secondo cui il dato è irrilevante ai fini
della configurazione del tentato omicidio quando l’agente è convinto che l’unico
colpo inferto sia esiziale: nel caso in esame, invece, la persona offesa non aveva
dato segno di avere subito un colpo mortale. Quindi, l’imputato non lo aveva

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sempre portato il coltello in luogo pubblico senza giustificato motivo.

nuovamente colpito perché non aveva intenzione di ucciderlo.
Il ricorrente denuncia, inoltre, un travisamento della prova nel passo della
motivazione in cui si afferma che Vastarella impugnava il coltello con il braccio
rivolto verso l’alto, atteso che tale circostanza non risultava affatto dalle
dichiarazioni dei testimoni e della stessa persona offesa. Per di più, Vastarella
aveva sostenuto di avere brandito il coltello solo per minacciare Di Maio e di
averlo colpito solo durante la colluttazione.
Tutti questi elementi dimostravano che la Corte territoriale aveva effettuato

discendere dal pericolo di vita corso da Di Maio la sussistenza

dell’animus

necandi, senza alcuna indagine diretta ad accertare quale fosse la reale volontà
dell’imputato.
Nemmeno la “zona presa di mira” supportava la qualificazione giuridica della
condotta come tentato omicidio, poiché la Corte non aveva tenuto conto che il
ferimento era avvenuto durante un colluttazione durante il quale i corpi dei due
contendenti erano in rapido movimento. La stessa motivazione dava atto che
quella zona era stata colpita in conseguenza dei movimenti dei due soggetti.
Di conseguenza, non poteva essere tratta la convinzione dell’animus necandi
dalla zona colpita, poiché non vi era certezza della volontà dell’imputato di
colpire uno specifico punto del corpo della persona offesa.
Nemmeno la potenzialità lesiva del coltello poteva supportare la tesi della
sussistenza del tentativo di omicidio: in assenza di reiterazione dei colpi, esso
avrebbe potuto essere al più indicativo di un dolo eventuale, incompatibile con il
tentativo; non vi era nemmeno lo spazio per il dolo alternativo di omicidio e
lesioni, perché la volontà di uccidere era in netto contrasto con l’azione di colui
che, pur avendone l’intento, non aveva proseguito nella condotta.

In un secondo motivo il ricorrente deduce violazione dell’art. 4 legge 110 del
1975.
Se il coltello era stato prelevato al bar, come sostenuto dell’imputato, non
sussisteva il reato contestato, poiché l’arma si trovava già in un luogo pubblico e
non nell’abitazione dell’imputato, come la norma richiede.
Il venir meno della contravvenzione incide anche sul riconoscimento
dell’attenuante teleologica.

In un terzo motivo il ricorrente deduce violazione di legge e vizio di
motivazione con riferimento al diniego dell’attenuante della provocazione.
Il fatto era avvenuto nel lasso di pochi secondi e lo stato d’ira non era stato
cancellato dall’ingresso nel bar e dal conseguente prelevamento del coltello; la

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una valutazione ex post, e non ex ante, della condotta dell’imputato, facendo

valutazione della sproporzione tra la condotta illecita e la reazione non escludeva
l’attenuante.
La prova era stata travisata con riferimento alla mancata adozione di
condotte provocatorie da parte di Di Maio, il quale aveva ammesso di avere dato
uno schiaffo per allontanare Vastarella, dopo uno scambio di battute; il G.I.P., in
sede di interrogatorio per la convalida del fermo, aveva dato atto a verbale di
una ferita all’altezza dell’occhio sinistro del Vastarella.
In definitiva, vi era stata un’aggressione fisica che non poteva non essere

In un quarto motivo, il ricorrente deduce violazione di legge e vizio di
motivazione con riferimento alla ritenuta aggravante dei futili motivi.
La Corte di appello non aveva preso in considerazione il relativo motivo di
appello formulato dalla difesa dell’imputato. In ogni caso, l’attenuante della
provocazione è incompatibile con l’aggravante dei futili motivi e, del resto, la
stessa sentenza riconosceva che anche la vittima aveva avuto un atteggiamento
prevaricatorio e minaccioso sfociato nello schiaffo inferto a Vastarella.

In un quinto motivo il ricorrente deduce analoghi vizi con riferimento alla
determinazione della pena e al mancato bilanciamento nel senso della
prevalenza delle attenuanti generiche sulle aggravanti.
Anche su questo motivo di appello la Corte aveva omesso di provvedere.

3. Il difensore di Vastarella avv. Massimo Signore ha presentato autonomo
ricorso per cassazione.
In un primo motivo si deduce violazione dei criteri di valutazione della
prova: ad esempio, la Corte aveva tralasciato il contenuto delle dichiarazioni
della persona offesa, che contenevano elementi favorevoli all’imputato, primo fra
tutti lo schiaffo inferto dallo stesso Di Maio all’imputato ed inoltre la circostanza
che un solo colpo era stato inferto.

In un secondo motivo il ricorrente deduce violazione di legge e vizio di
motivazione in relazione alla idoneità ed univocità dell’azione.
Viene messa in dubbio l’attendibilità della consulenza tecnica esperita su
incarico del P.M. e sottolineata l’unicità del colpo e l’essere stato lo stesso inferto
in corsa; né il coltello dimostrava la volontà di uccidere, anziché di ferire. Quanto
al punto della ferita, la Corte non aveva tenuto conto della dinamica dei fatti.

In un terzo motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione con

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considerato atto ingiusto.

riferimento alla mancata applicazione dell’attenuante della provocazione e alla
mancata esclusione dell’aggravante dei futili motivi; in un quarto motivo si
deducono analoghi vizi con riferimento al bilanciamento delle circostanze.

CONSIDERATO IN DIRITTO

Il ricorso è infondato e deve essere rigettato.

vizio di travisamento della prova da parte della sentenza impugnata, risulta privo
di autosufficienza su due punti importanti: il fatto che Vastarella avesse
impugnato il coltello con il braccio puntato verso l’alto e la circostanza che Di
Maio avesse dato uno schiaffo a Vastarella; si menzionano, infatti, verbali che
non vengono né allegati, né riprodotti integralmente, cosicché la sollecitazione a
questa Corte a valutare il vizio della motivazione risulta generica e
inammissibile.
Si è ripetutamente affermato che il ricorso per cassazione con cui si contesta
il difetto di motivazione in ordine alla valutazione di una dichiarazione
testimoniale deve essere accompagnato dalla integrale produzione dei verbali
relativi o dalla integrale trascrizione in ricorso di detta dichiarazione, in quanto
necessarie ai fini della verifica della corrispondenza tra il senso probatorio
dedotto dal ricorrente ed il contenuto complessivo della dichiarazione (Sez. 3, n.
19957 del 21/09/2016 – dep. 27/04/2017, Saccomanno, Rv. 269801; Sez. F, n.
32362 del 19/08/2010 – dep. 26/08/2010, Scuto ed altri, Rv. 248141). Più in
generale, è onere del ricorrente, che lamenti l’omessa o travisata valutazione di
specifici atti processuali, provvedere alla trascrizione in ricorso dell’integrale
contenuto degli atti medesimi, nei limiti di quanto già dedotto, perché di essi è
precluso al giudice di legittimità l’esame diretto, a meno che il

fumus del vizio

non emerga all’evidenza dalla stessa articolazione del ricorso (Sez. 1, n. 6112
del 22/01/2009 – dep. 12/02/2009, Bouyahia, Rv. 243225), cosicché sono
inammissibili, per violazione del principio di autosufficienza e per genericità, i
motivi che deducano il vizio di manifesta illogicità o contraddittorietà della
motivazione e, pur richiamando atti specificamente indicati, non contengano la
loro integrale trascrizione o allegazione (Sez. 2, n. 20677 del 11/04/2017 – dep.
02/05/2017, Schioppo, Rv. 270071; Sez. 4, n. 46979 del 10/11/2015 – dep.
26/11/2015, Bregamotti, Rv. 265053), così come sono parimenti inammissibili
quei motivi che, deducendo il vizio di manifesta illogicità o di contraddittorietà
della motivazione, riportano meri stralci di singoli brani di prove dichiarative,
estrapolati dal complessivo contenuto dell’atto processuale al fine di trarre

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1. Occorre preliminarmente rilevare che il primo ricorso, nel denunciare il

rafforzamento dall’indebita frantumazione dei contenuti probatori, o, invece,
procedono ad allegare in blocco ed indistintamente le trascrizioni degli atti
processuali, postulandone la integrale lettura da parte della Suprema Corte (Sez.
1, n. 23308 del 18/11/2014 – dep. 29/05/2015, Savasta e altri, Rv. 263601).

2. La motivazione della sentenza impugnata in punto di qualificazione
giuridica della condotta resiste alle censure mosse dal ricorrente.
In effetti, entrambi i giudici di merito ricostruiscono l’azione dell’imputato,

Maio e il gruppo di cui faceva parte Vastarella: l’imputato, infatti, ad un certo
punto si era allontanato dai contendenti, si era diretto verso un bar che si
affacciava sulla piazza teatro dei fatti, era entrato, aveva trovato sul bancone (a
suo dire: ma i giudici di merito non lo ritengono attendibile su questo punto) un
coltello, era immediatamente uscito, aveva inseguito di corsa Di Maio e gli aveva
sferrato un colpo sotto la mammella destra.
L’animus necandi, pertanto, doveva essere valutato con riferimento a questa
azione, assolutamente lineare e semplice: il giovane, con il coltello “a farfalla”
aperto rivolto verso l’altro, che insegue la vittima e, senza alcun intervento
esterno né preventiva reazione, la accoltella al torace.
Questa dinamica, come risulta dalla sentenza di primo grado, era stata
confermata dallo stesso imputato nell’interrogatorio di garanzia, con l’unica
precisazione di avere colpito Di Maio “senza guardare” e di averlo fatto perché il
giovane “si era girato”, ma riferendo di averlo “raggiunto”: l’imputato aveva
quindi ammesso di averlo inseguito con il coltello rivolto nei suoi confronti, così
come la Corte territoriale riassume. Il gesto di tenere il coltello con il “braccio
alto” rivolto verso l’avversario – che risultasse o meno da verbali che il ricorrente
non produce – è dedotto, come si evince dalla motivazione della sentenza, dalla
parte del torace colpita, appunto una parte alta.

Ciò premesso, i giudici di merito ricavano l’animus necandi da dati oggettivi
significativi, cosicché la motivazione sul punto non risulta affatto illogica: l’area
corporea prescelta, cioè il torace nella parte alta, sede di organi vitali, l’uso di un
coltello ad alta capacità offensiva (un coltello “a farfalla” che l’imputato aveva
provveduto ad aprire prima di avvicinarsi alla vittima: i giudici di merito non
credono all’utilizzo di un coltello da cucina e, del resto, l’imputato non ha
permesso di ritrovare l’arma che la persona offesa aveva descritto) e la violenza
con cui il colpo è stato inferto, dimostrato dalla significativa penetrazione nel
torace, con conseguente lacerazione di due arterie, del foglietto pericardico e del
polmone destro.

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nella sua parte finale, come sganciata dal battibecco e dalla colluttazione tra Di

Risultando ampiamente provata l’idoneità degli atti compiuti ad uccidere, si
deve ricordare che la direzione non equivoca degli atti, intesa come caratteristica
oggettiva della condotta, può rivelare l’intenzione dell’agente (Sez. 1, n. 9284
del 10/01/2014 – dep. 26/02/2014, Losurdo e altri, Rv. 259249); in effetti, la
prova del dolo, in assenza di esplicite ammissioni da parte dell’imputato, ha
natura indiretta, dovendo essere desunta da elementi esterni e, in particolare, da
quei dati della condotta che, per la loro non equivoca potenzialità offensiva,
siano i più idonei ad esprimere il fine perseguito dall’agente (Sez. 1, n. 35006 del

07/07/2011 – dep. 01/08/2011, Miletta e altro, Rv. 251014).

Il ricorrente richiama la pronuncia di questa Corte secondo cui la mancata
inflizione di più pugnalate non esclude la configurabilità del dolo omicida, ove sia
accertato che, per le modalità operative e per lo strumento utilizzato, l’azione
era idonea a causare la morte della vittima, evento non verificatosi per cause
indipendenti dalla volontà dell’agente, per un caso in cui la vittima era stata
ferita all’addome con un solo colpo ma tale da lasciarne presumere l’esizialità ed
era stata abbandonata esanime sul luogo del fatto (Sez. 1, n. 51056 del
27/11/2013 – dep. 18/12/2013, Tripodi, Rv. 257882).
In verità, la massima citata non può essere utilizzata come se enunciasse un
principio di diritto che stabilisca che, per la sussistenza dell’animus necandi sono
necessari più fendenti, tranne casi eccezionali: non solo perché si tratta
palesemente di una valutazione in fatto su cui questa Corte non è competente a
dettare regole rigide di valutazione, ma anche perché, paradossalmente, la
portata di quella pronuncia era di contenuto opposto, ritenendo non illogica la
valutazione del giudice di merito che aveva ritenuto sussistente l’animus necandi
pur in presenza di un solo fendente.

In realtà, il giudice di merito può trarre da diversi elementi oggettivi della
condotta la convinzione che il dolo dell’agente fosse quello di uccidere e non solo
di ferire: deve fornire adeguata motivazione della propria valutazione e, in
particolare, deve chiarire perché elementi apparentemente contrari alla tesi del
dolo di omicidio non siano decisivi; comunque, non è necessario che tutti gli
elementi sintomatici dell’animus necandi siano presenti: la reiterazione dei colpi,
quindi, quando è presente è certamente un sintomo di tale animus, ma la sua
assenza non costituisce di per sé il sintomo dell’assenza del dolo di omicidio che,
quindi – come nel caso in esame – può essere tratto dagli altri indici significativi
sopra richiamati.

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18/04/2013 – dep. 14/08/2013, Polisi, Rv. 257208; Sez. 1, n. 30466 del

2. Il secondo motivo del primo ricorso è manifestamente infondato.
In effetti, esattamente la Corte territoriale – che, pure, non crede alla
versione dell’imputato di avere prelevato il coltello dal bancone del bar, così
come non crede che si trattasse di un semplice coltello da cucina, alla luce delle
dichiarazioni della persona offesa e delle caratteristiche della ferita descritte nella
consulenza medico-legale – afferma che la contravvenzione di cui all’art. 4 legge
110 del 1975 contestata al capo B dell’imputazione sussisterebbe anche nel caso

In effetti, la formulazione della norma incriminatrice non deve essere
interpretata nel senso che il porto di un coltello è punibile solo se il soggetto l’ha
trasportata fuori dalla propria abitazione dove in precedenza si trovava ma, più
banalmente, nel senso che la detenzione di armi od oggetti atti ad offendere
all’interno dell’abitazione non è punita; quindi, la detenzione o il possesso di
un’arma o di un oggetto atto ad offendere in luoghi diversi dall’abitazione e dalle
sue appartenenze sono puniti anche se non preceduti da una amotio o da una
ablatio da un luogo di privata dimora (Sez. 1, n. 35662 del 17/07/2013 – dep.
27/08/2013, P.G. e F., Rv. 256300).

3. Anche il terzo motivo di ricorso è infondato, alla luce della complessiva
dinamica dello scontro tra i due gruppi, cui Vastarella ha partecipato.
In effetti, la attenuante della provocazione non può essere invocata quando
il fatto apparentemente ingiusto della vittima, cui l’agente abbia reagito, sia
stato determinato a sua volta da un precedente comportamento ingiusto dello
stesso agente o sia frutto di reciproche provocazioni (Sez. 5, n. 42826 del
16/07/2014 – dep. 13/10/2014, P, Rv. 261037): in questo caso, infatti, non è
possibile l’attribuzione all’uno o all’altro dei contendenti di uno specifico fatto
ingiusto quale causa immediata della reazione (Sez. 1, n. 26847 del 01/07/2010
– dep. 13/07/2010, Rabita e altro, Rv. 247720).

Analogamente, è infondato il motivo concernente l’aggravante dei futili
motivi.
Il ricorrente invoca la giurisprudenza di questa Corte secondo cui la
circostanza aggravante dei futili motivi è incompatibile con l’attenuante della
provocazione, non potendo coesistere stati d’animo contrastanti, dei quali l’uno
esclude l’ingiustizia dell’azione dell’antagonista (Sez. 5, n. 17686 del 26/01/2010
– dep. 07/05/2010, Matei, Rv. 247222); ma, come si è visto, nel caso in esame
correttamente l’attenuante è stata esclusa.
Inoltre, è pretestuosa la pretesa di valutare la futilità del motivo della

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in cui la versione fosse veritiera.

condotta con riferimento alla sola condotta della persona offesa (come
anticipato: non provata) di colpire al volto l’imputato; il giudizio, in uno scambio
reciproco di provocazioni e ripicche da parte dei due gruppi, non può che
riguardare l’intera vicenda, oggettivamente futile e rispetto alla quale il
ferimento operato dall’imputato emerge nella sua assoluta sproporzione.
La Corte non ha omesso di valutare la futilità del motivo, oggetto di un
motivo di appello: ha efficacemente richiamato, infatti, un “errato ed infantile
concetto di rispetto” e fatto riferimento alla volontà di Vastarella di “affermare la

peraltro non lo coinvolgeva direttamente”, facendo così emergere i presupposti
tipici dell’aggravante contestata.

4. Infine, i motivi di ricorso concernenti la determinazione della pena sono
infondati: la Corte – esercitando la discrezionalità che, in questo ambito, il
giudice del merito possiede – ha correttamente e logicamente motivato sul
punto.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali nonché alla rifusione delle spese del presente grado di giudizio a
favore della parte civile Di Maio Alessandro, che liquida nella complessiva somma
di euro 3.500, oltre al rimborso delle spese generali, CPA e IVA.

Così deciso il 19 dicembre 2017

propria supremazia” di fronte ad un “insignificante gesto della vittima che

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