Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 17807 del 07/03/2014


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Penale Sent. Sez. 4 Num. 17807 Anno 2014
Presidente: ZECCA GAETANINO
Relatore: IANNELLO EMILIO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
MAZZONE GIUSEPPE N. IL 23/05/1983
avverso la sentenza n. 2817/2011 CORTE APPELLO di FIRENZE, del
20/01/2012
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 07/03/2014 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. EMILIO IANNELLO
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. VíNcEiv20 ‘EarAcA
che ha concluso per ,i( i’2 Lp
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Udito, per la civile, l’Avv
Udi ‘ ifensor Avv.
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Data Udienza: 07/03/2014

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza del 2/2/2011 il Tribunale di Viareggio condannava Giuseppe
Mazzone, concesse le attenuanti generiche, alla pena di un anno e due mesi di
reclusione per i reati, unificati dal vincolo della continuazione, p. e p. dall’art.
189, commi 6 e 7, e dall’art. 186, comma 1 e 2, lett. b) cod. strad., ordinando
altresì la sospensione della patente di guida per un anno e sei mesi.
Proposto appello con riferimento ai soli reati di cui all’art. 189, commi 6 e 7,

la sentenza di primo grado. Sulla scorta delle dichiarazioni della teste Cecchi
Serena, che nell’occorso si trovava a seguire alla guida della propria autovettura
quella dell’imputato – dichiarazioni ritenute precise, dettagliate e degne della
massima considerazione – la Corte territoriale riteneva accertato che l’imputato,
procedendo a zig-zag mentre beveva alcolici e scattava fotografie con un amico,
ha cagionato la caduta del motociclista che lo stava superando sul lato sinistro,
ancorché per effetto di un urto da ritenersi molto lieve: circostanza che la Corte
reputava non in contrasto con la deposizione della teste, considerato che

«non

occorre molta energia per provocare la caduta di un veicolo a due ruote
urtandolo di fianco».
Osservava inoltre che l’urto è avvenuto a pochi centimetri di distanza
dall’imputato e all’altezza del posto di guida e che inoltre la moto della vittima,
una volta caduta, ha strisciato sul manto stradale per decine di metri e con
rumore: circostanze che rendevano impossibile che l’imputato non avesse visto o
udito nulla, il contrario potendosi peraltro desumere dalla accelerazione che,
secondo quanto riferito dalla stessa teste Cecchi, l’imputato aveva subito dopo
impresso all’autovettura dallo stesso condotta, spiegabile solo con il fatto che
egli si era perfettamente reso conto di quanto accaduto e intendeva allontanarsi
dal luogo dell’incidente.

2. Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione l’imputato, per
mezzo del proprio difensore, sulla base di quattro motivi.

2.1. Con il primo deduce violazione di legge in relazione all’art. 189, comma
7, cod. strada.
Rileva che contraddittoriamente egli è stato accusato al contempo di non
aver ottemperato all’obbligo di fermarsi previsto dal comma 6 della citata
disposizione e, inoltre, di non aver prestato assistenza alla vittima dell’incidente,
assumendo che in realtà si tratta di previsioni l’una all’altra alternative e che,
con un’unica condotta, non possono essere state entrambe congiuntamente

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cod. strada, la Corte d’appello di Firenze lo rigettava confermando integralmente

violate.
Secondo il ricorrente è, infatti, «ovvio che chi non si fermi necessariamente
non presta l’assistenza necessaria richiesta dal caso». Per converso la seconda
norma presuppone necessariamente che il soggetto agente si sia fermato in caso
di incidente stradale. Nel caso in esame, pertanto, la fattispecie contemplata
dalla prima previsione esaurirebbe, in tutto e per tutto, la condotta in concreto
posta in essere dall’imputato.

decisiva. Secondo il ricorrente in tale vizio sarebbero incorse entrambe le
sentenze di merito per aver omesso di disporre la perizia richiesta al fine di
accertare l’effettiva verificazione di un urto tra i due mezzi e di procedere
all’audizione dell’agente Batori Luca, che avrebbe proceduto ad ispezionare il
veicolo investitore nel mentre si trovava presso il commissariato di P.S. di
Viareggio non rinvenendo sul mezzo alcun segno riferibile direttamente
all’incidente.

2.3. Con il terzo motivo denuncia inosservanza di norme processuali stabilite
a pena di inutilizzabilità, per avere il giudice di primo grado basato la propria
decisione anche su quanto riferito dall’Isp. Careddu – circa il fatto che l’imputato
era stato notato a bordo dell’autovettura ferma al semaforo tra viale Belluomini e
viale Einaudi intento a bere birra con altra persona all’interno dell’abitacolo e a
scattare fotografie con il cellulare – omettendo di considerare, però, che detto
teste aveva fatto riferimento alle dichiarazioni raccolte da altra persona: ciò in
violazione dell’art. 195 cod. proc. pen..

2.4. Con il quarto motivo, infine, il ricorrente deduce violazione dell’art. 533,
comma 1, cod. proc. pen. per avere la Corte ritenuto sussistente l’elemento
psicologico dei reati contestati sulla base di elementi inidonei a indicare un tale
convincimento al di là di ogni ragionevole dubbio.

Considerato in diritto

3. È infondato il primo motivo di ricorso.
Secondo pacifica interpretazione, il reato di fuga dopo un investimento e
quello di mancata prestazione dell’assistenza occorrente, previsti rispettivamente
dal sesto e dal settimo comma dell’art. 189 cod. strada, hanno diversa
oggettività giuridica, essendo la prima previsione finalizzata a garantire
l’identificazione dei soggetti coinvolti nell’investimento e la ricostruzione delle

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2.2. Con il secondo motivo deduce la mancata assunzione di una prova

modalità del sinistro, mentre la seconda è finalizzata a garantire che le persone
ferite non rimangano prive della necessaria assistenza, sicché le due ipotesi
criminose ben possono materialmente concorrere (v. Sez. 4, n. 6306 del
15/01/2008, Grosso, Rv. 239038, che ha per tal motivo escluso sussistere
violazione del divieto di un secondo giudizio qualora, giudicato taluno per il reato
di fuga ed assolto per la ritenuta assenza dell’elemento psicologico, il medesimo
soggetto venga poi sottoposto a nuovo procedimento per il reato di mancata
assistenza, con riguardo alla condotta da lui posta in essere successivamente alla

danno alle persone, di cui in precedenza non si era reso conto).

4. È infondato anche il secondo motivo.
Per altrettanto pacifico indirizzo «prova decisiva» è da intendere unicamente
quella che, non incidendo soltanto su aspetti secondari della motivazione (quali,
ad esempio, quelli attinenti alla valutazione di testimonianze non costituenti
fondamento della decisione) risulti determinante per un esito diverso del
processo, nel senso che essa, confrontata con le argomentazioni contenute nella
motivazione, si riveli tale da dimostrare che, ove fosse stata esperita, avrebbe
sicuramente determinato una diversa pronuncia (v. Sez. 2, n. 21884 del
20/03/2013, Cabras, Rv. 255817; Sez. 4, n. 27738 del 08/05/2007, Matteucci,
non mass.; Sez. 2, n. 16354 del 28/04/2006, Maio, Rv. 234752).
Di conseguenza, non sussiste il vizio di mancata ammissione di prova
decisiva quando si tratti di prova che debba essere valutata unitamente agii altri
elementi di prova processualmente acquisiti, non per eliderne l’efficacia
probatoria, ma per effettuare un confronto dialettico che in ipotesi potrebbe
condurre a diverse conclusioni argomentative (v. Sez. 6, n. 37173 del
11/06/2008, Ianniello, Rv. 241009; Sez. 2, n. 2827 del 22/11/2005 – dep.
24/01/2006, Russo, Rv. 233328).
Alla stregua di tali parametri, carattere di decisività non può certamente
attribuirsi alle attività istruttorie nella specie indicate dal ricorrente in quanto
entrambe dirette a dimostrare l’insussistenza di tracce d’urto che in realtà la
sentenza impugnata già considera, sulla base di argomenti ragionevoli e non fatti
segno in sé di alcuna specifica critica, come circostanza verosimile ma in sé non
incompatibile con l’accolta ricostruzione, in quanto inidonea a escludere di per sé
l’esistenza di un urto leggero e, con ciò, la riconducibilità causale della caduta
della persona offesa al comportamento di guida dell’imputato.
Il vizio dedotto peraltro è in radice da escludersi possa configurarsi con
riferimento alla perizia.
Posto invero che la norma di cui all’art. 606 comma 1 lett. d) cod. proc. pen.

fuga, una volta messo a conoscenza dell’avvenuto investimento con possibile

fa specifico riferimento alle prove alla cui ammissione le parti hanno diritto,
come si desume dall’espresso richiamo all’art. 495, comma 2, cod. proc. pen. e che deve dunque trattarsi di prove indicate a discarico sui fatti costituenti
oggetto delle prove a carico – deve escludersi che a tale previsione possa mai
essere ricondotta la perizia, non potendo questa essere considerata alla stregua
di una prova a discarico stante il suo carattere neutro, sottratto alla disponibilità
delle parti in quanto affidato alla discrezionalità del giudice (v. Sez. 6, n. 43526
del 03/10/2012, Ritorto, Rv. 253707; Sez. 4, n. 14130 del 22/01/2007,

Sez. 6, n. 17629 del 12/02/2003, Zandri, Rv. 226809; Sez. 4, n. 9279 del
12/12/2002 – dep. 28/02/2003, Bovicelli, Rv. 225345).
Si è peraltro in argomento anche condivisibilmente rilevato che il
provvedimento con cui il giudice respinge la richiesta di una perizia, ritenuta
decisiva dalle parti, non è censurabile ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. d),
cod. proc. pen., in quanto costituisce il risultato di un giudizio di fatto che, se
sorretto da adeguata motivazione, è insindacabile in cassazione (Sez. 4, n. 7444
del 17/01/2013, Sciarra, Rv. 255152).

5. È altresì palesemente infondato il terzo motivo di ricorso, posto che la
sentenza d’appello non pone a fondamento del proprio convincimento la prova
additata come inutilizzabile. La doglianza dunque si rivela non pertinente rispetto
alla struttura motivazionale della sentenza impugnata e, quando pure in sé
dovesse ritenersi fondata, non varrebbe a scalfire la portata e la persuasività
della motivazione della sentenza impugnata, in quanto congruamente e
coerentemente argomentata sulla base delle dette altre risultanze istruttorie.

6. Per considerazioni analoghe a quelle già espresse con riferimento al
secondo motivo di ricorso, deve ritenersi infondato anche il quarto motivo.
La sentenza impugnata dà infatti adeguatamente conto del convincimento
espresso circa la sussistenza dell’elemento psicologico dei reati contestati, in
modo che resiste alle critiche del ricorrente, ancora una volta risolventisi nella
prospettazione di una diversa valutazione delle prove raccolte e segnatamente
nella valorizzazione di elementi non specificamente considerati dalla sentenza ma
non dotati tuttavia di carattere di decisività nei sensi sopra detti (si fa riferimento
in particolare alla dichiarazione resa dalla stessa persona offesa secondo cui «…
è possibile che loro possano non essersi accorti dell’urto …»).
Come detto, infatti, la corte territoriale valorizza al riguardo le modalità e la
collocazione del punto d’urto tra i due mezzi quali desumibili dalla dichiarazione
della teste Cecchi Serena, nonché la circostanza che la moto della vittima,

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Pastorelli, Rv. 236191; Sez. 6, n. 37033 del 18/06/2003, Brunetti, Rv. 228406;

cadendo, ha strisciato rumorosamente sul manto stradale per una decina di
metri ed ancora l’accelerazione impressa dall’imputato al veicolo da lui condotto
subito dopo l’urto.
Il motivo in esame non si confronta puntualmente con tali elementi, né il
ragionamento inferenziale sulla base di essi condotto dal giudice di merito si
appalesa in sé manifestamente illogico.
Nè sotto altro profilo l’omessa specifica considerazione, nella sentenza
impugnata, della dichiarazione della persona offesa riferita dal ricorrente può

Un tale vizio, invero, per essere deducibile in cassazione, postula l’esistenza
di una palese e non controvertibile difformità tra i risultati obiettivamente
derivanti dall’assunzione della prova e quelli che il giudice di merito ne abbia
inopinatamente tratto, ovvero di verificare l’esistenza della decisiva difformità,
fermo restando il divieto di operare una diversa ricostruzione del fatto, quando si
tratti di elementi privi di significato indiscutibilmente univoco (v. Sez. 4, n.
14732 dell’1/3/2011, Molinario, Rv. 250133), trattandosi altrimenti di un’attività
valutativa che – tanto più quando come nella specie richiede la selezione tra fonti
e risultanze di segno opposto – resta imprescindibilmente riservata al potere
discrezionale del giudice di merito, insindacabile se, come detto e come
certamente accade nella specie, delle modalità del suo esercizio si dà
illustrazione esauriente e logicamente coerente, non richiedendosi per contro una
specifica dettagliata confutazione delle prove ritenute non attendibili o irrilevanti.
Tale, in particolare, nella specie deve considerarsi la riferita dichiarazione
della persona offesa, in quanto espressiva di una mera soggettiva impressione,
non dotata come tale di univoca e oggettiva valenza dimostrativa idonea a
confutare in modo decisivo il diverso convincimento motivatamente espresso dal
giudice sulla base dei detti elementi oggettivi.

6.1. Privo di autonoma rilevanza, rispetto a un siffatto giudizio di piena
adeguatezza della motivazione sul punto della sentenza impugnata, è poi il
riferimento che in ricorso è fatto alla regola di giudizio dell’oltre il ragionevole
dubbio.
Questa invero rappresenta nient’altro che, a contrario, la verifica del grado
di probabilità logica attribuibile al ragionamento inferenziale per mezzo del quale
il giudice risale, dagli elementi di conoscenza acquisiti sulla base delle prove
raccolte, al giudizio di colpevolezza dell’imputato.
Essa dunque impone al giudice di procedere ad un completo esame degli
elementi di prova rilevanti e dì argomentare adeguatamente circa le opzioni
valutative della prova, giustificando, con percorsi razionali idonei, che non

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ritenersi censurabile alla stregua di un travisamento della prova.

residuino dubbi in ordine alla responsabilità dell’imputato. L’inosservanza della
regola dell’al di là di ogni ragionevole dubbio, lasciando spazio all’incertezza ed
implicando una sentenza non pienamente e razionalmente motivata in punto di
colpevolezza, si traduce dunque inevitabilmente in un vizio di motivazione, la cui
verifica tuttavia rimane legata ai medesimi criteri sopra visti.
Né ad una diversa conclusione sul punto può indurre la modifica introdotta
dall’art. 5 della legge 6 febbraio 2006, n. 46, mediante la sostituzione del
comma 1 dell’art. 533 del codice di procedura penale con la disposizione secondo

reato al di là di ogni ragionevole dubbio».
Secondo l’opinione prevalente in giurisprudenza, infatti, tale novella non ha
avuto sul punto un reale contenuto innovativo, non avendo introdotto un diverso
e più restrittivo criterio di valutazione della prova, essendosi invece limitata a
codificare un principio già desumibile dal sistema, in forza del quale il giudice
può pronunciare sentenza di condanna solo quando non ha ragionevoli dubbi
sulla responsabilità dell’imputato.
La novella, dunque, non ha inciso sulla funzione di controllo del giudice di
legittimità che rimane limitata alla struttura del discorso giustificativo del
provvedimento, con l’impossibilità di procedere alla rilettura degli elementi di
fatto posti a fondamento della sentenza e dunque di adottare autonomamente
nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (v., in tal senso,
tra le ultime pronunce, Sez. 5, n. 10411 del 28/01/2013, Viola, Rv. 254579, la
quale ha precisato che tale regola di giudizio impone al giudice di giungere alla
condanna solo se è possibile escludere ipotesi alternative dotate di razionalità e
plausibilità; cfr. anche in tal senso Sez. 1, n. 41110 del 24/10/2011, Javad, Rv.
251507).

7. Il ricorso va pertanto rigettato, con la condanna del ricorrente al
pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali.
Così deciso il 7/3/2014

cui «il giudice pronuncia sentenza di condanna se l’imputato risulta colpevole del

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