Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 17734 del 14/03/2018


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 17734 Anno 2018
Presidente: SARNO GIULIO
Relatore: SEMERARO LUCA

Data Udienza: 14/03/2018

SENTENZA

sul ricorso proposto da
BERDINI MAURIZIO, nato a Roma il 31.05.1964

avverso la sentenza del 7 aprile 2016della Corte di appello di L’Aquila

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere LUCA SEMERARO;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Piero
Molino, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso;

udito il difensore, avv. Alessandro Ippoliti, che ha concluso insistendo nei motivi
di ricorso.

DEPOSITATA,I CAC;if:ELLP.-7
1 9 .h:.?9, 2018

-Jur

RITENUTO IN FATTO

1. Il difensore di Maurizio Berdini ha proposto ricorso avverso la sentenza
della Corte di appello di L’Aquila del 7 aprile 2016 che ha confermato quella emessa
dal Tribunale di Avezzano con la quale l’imputato é stato condannato per il delitto
di cui al comma 5 dell’art. 73 d.p.r. 309/1990 per la coltivazione di 3 piante di
marijuana.
Con il primo motivo la difesa ha dedotto i vizi di violazione di legge e della

In estrema sintesi, afferma la difesa che la Corte di appello di L’Aquila ha
pronunciato la condanna sulla offensività presunta della condotta. La difesa ha
invece richiamato le sentenze della Corte Costituzionale del 1995 e delle Sezioni
Unite della Corte di Cassazione del 2008 sulla necessità di verificare l’offensività
in concreto della condotta nonché altre sentenze della Corte di Cassazione (25674
del 2001, sez. 4) sulla non punibilità della coltivazione domestica quando per
quantità e qualità e per la destinazione all’uso personale manca l’offensività in
concreto.
Dopo la premessa in diritto, afferma la difesa che la motivazione della Corte
di appello di L’Aquila fa discendere in maniera indiscriminata e diretta dalla mera
coltivazione di tre piantine di marijuana un presunto aumento del quantitativo di
stupefacente immesso sul mercato, senza tener conto della indubbia circostanza
che la scelta del Berdini di coltivare marijuana per soddisfare le proprie necessità
personali potesse invece determinare una condotta destinata ad esaurirsi
naturalmente nella propria sfera privatistica.
Rileva la difesa che la coltivazione posta in essere da Berdini Maurizio ha
caratteri assolutamente compatibili con la finalità del consumo personale (numero
di piante limitato, assenza di contatti con ambienti criminosi, difficile accessibilità
a terzi del luogo di ricovero delle piante in quanto site all’interno di una abitazione
privata, etc.), e tali da renderla indubbiamente inquadrabile nell’alveo di una
coltivazione cd. domestica, tutt’al più sanzionabile ai sensi dell’art. 75 D.P.R.
309/90) e non ex art. 73 D.P.R. 309/90.
Rileva altresì la difesa al punto 2 che non è condivisibile la motivazione
laddove si è limitata a ritenere il mero dato ponderale quale assoluto elemento
ostativo alla valutazione della concreta inoffensività della condotta incriminata
perché collide con le risultanze processuali. Per la difesa, è emersa l’assoluta
inconsistenza della coltivazione: si tratta di sole tre piantine di marjuana coltivate
in vaso all’interno dell’abitazione del Berdini, con un quantitativo di principio attivo
minimo, seppur superiore ai valori soglia.

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motivazione, quanto alla ritenuta sussistenza del reato.

La difesa ha richiamato una sentenza della Corte di Cassazione che in un caso
analogo ha escluso la sussistenza del reato di coltivazione quando il giudice accerti
l’inoffensività in concreto della condotta, per essere questa di tale minima entità
da rendere sostanzialmente irrilevante l’aumento di disponibilità di droga e non
prospettabile alcun pericolo di ulteriore diffusione di essa (Cass. sez. 6 del
09.02.2016 n. 5254). Per la difesa, l’ambito della inoffensività si ha quando vi è il
conclamato uso esclusivamente personale e la minima entità della coltivazione tale
da escludere la possibile diffusione della sostanza producibile mediante

Per la difesa, tutti gli elementi probatori acquisiti nel dibattimento – l’assoluta
inconsistenza della coltivazione, l’indubbia destinazione ad un mero uso personale
dello stupefacente eventualmente ottenuto, l’irrisorio quantitativo di principio
drogante rilevato, la qualità di assuntore abituale dell’imputato – dimostrano
Vinoffensività in concreto della condotta, tale da escludere che il bene
tutelato dalla norma sia stato effettivamente leso, anche considerando del tutto
insussistente nel caso de quo il pericolo della circolazione o della collocazione sul
mercato illecito del prodotto stupefacente eventualmente ottenuto dalla
coltivazione.
Rileva la difesa che la Corte d’Appello ha erroneamente applicato il principio
di diritto al caso in esame, limitandosi a considerare esclusivamente la sussistenza
della condotta di coltivazione ed il mero dato ponderale relativo alla capacità
drogante, quali elementi assoluti tali da escludere ogni eventuale considerazione
circa l’inoffensività concreta del fatto accertato, omettendo la doverosa
valutazione degli elementi oggettivi che determinano l’inoffensività in concreto
della condotta contestata, poiché sostanzialmente irrilevante l’aumento di
disponibilità della droga e non prospettabile alcun pericolo di ulteriore diffusione
di essa.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il primo motivo, con cui si deduce il vizio di violazione di legge, è
manifestamente infondato.
1.1. La Corte di appello di L’Aquila ha applicato correttamente la norma,
perché ha affermato chiaramente che la condotta di coltivazione di piante dalle
quali siano estraibili sostanze stupefacenti è un reato di pericolo; che la rilevanza
penale è esclusa solo dalla accertata e comprovata inoffensività in concreto del
fatto. Inoltre correttamente la Corte di appello di L’Aquila ha fatto riferimento alla
coltivazione di una pianta conforme al tipo botanico ed al raggiungimento della

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i

l’ampliamento della coltivazione.

soglia di capacità drogante minima, poiché ha rilevato l’esistenza del principio
attivo.
1.2. Va ricordato che le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la
sentenza n. 28605 del 24/04/2008, hanno affermato che costituisce condotta
penalmente rilevante qualsiasi attività non autorizzata di coltivazione di piante
dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, anche quando sia realizzata per
la destinazione del prodotto ad uso personale (nello stesso senso Cass. Sez. Unite,
sentenza del 24 aprile 2008, Valletta, non massimata).

potenziale aumento delle sostanze stupefacenti in circolazione, che l’attività di
coltivazione è idonea a produrre (Cass. Sez. 3, n. 23082 del 09/05/2013).
Tale interpretazione va ribadita in quanto dalla lettura sistematica degli artt.
17, 26, 28, 73 e 75 emerge un divieto generale di coltivazione, riferibile sia a
quella tecnica o economica che a quella domestica.
1.3. La tesi difensiva è poi errata in diritto, laddove invoca l’applicazione
dell’art. 75 d.p.r. 309/1990, perché tale norma non comprende la coltivazione tra
le condotte punibili con la sanzione amministrativa.

2. Corretta è anche la motivazione della sentenza, sia in punto di diritto che
per l’assenza di contraddizioni o di illogicità, quanto alla valutazione della
offensività in concreto.
2.1. Va ricordato che la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 360 del 1995,
che ha richiamato la necessità di accertare l’offensività in concreto della condotta
ed ha affermato che «… ove questa sia assolutamente inidonea a porre a
repentaglio il bene giuridico tutelato (come nel caso – prospettato dal giudice
rimettente – della coltivazione in atto, e senza previsione di ulteriori sviluppi, di
un’unica pianta da cui possa estrarsi il principio attivo della sostanza stupefacente
in misura talmente esigua da essere insufficiente, ove assunto, a determinare un
apprezzabile stato stupefacente), viene meno la riconducibilità della fattispecie
concreta a quella astratta, proprio perché la indispensabile connotazione di
offensività in generale di quest’ultima implica di riflesso la necessità che anche in
concreto la offensività sia ravvisabile almeno in grado minimo, nella singola
condotta dell’agente, in difetto di ciò venendo la fattispecie a rifluire nella figura
del reato impossibile (art. 49 cod. pen.)».
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 28605 del
24/04/2008, hanno affermato che «… La condotta è inoffensiva soltanto se il bene
tutelato non è stato leso o messo in pericolo anche in grado minimo (irrilevante,
infatti, è a tal fine il grado dell’offesa), sicché con riferimento allo specifico caso in

n

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)

Ciò in quanto la norma che punisce la coltivazione intende impedire il

esame, la offensività non ricorre se la sostanza ricavabile dalla coltivazione non è
idonea a produrre un effetto stupefacente in concreto rilevabile …».
Se l’interesse tutelato dalla norma è rappresentato da esigenze di protezione
della salute collettiva e dal fine di impedire il potenziale aumento delle sostanze
stupefacenti in circolazione, che l’attività di coltivazione è idonea a produrre, ai fini
della valutazione della offensività in concreto devono essere tenuti in
considerazione anche elementi quali la quantità di principio attivo ricavabile dalle
singole piante, il grado di sviluppo delle stesse piante, l’estensione della
piantagione, l’esistenza di una struttura organizzata per la coltivazione (cfr. Cass.

L’inoffensività della coltivazione è stata collegata, ‘ai —conclamato uso
esclusivamente personale ed alla minima entità della coltivazione tale da escludere
la possibile diffusione della sostanza producibile e/o l’ampliamento della
coltivazione; è stata ritenuta penalmente irrilevante la coltivazione di due piantine
di marijuana contenenti un principio attivo inferiore al quantitativo massimo
detenibile (Cfr. Cass. Sez. 6, n. 33835 del 08/04/2014, Piredda, Rv. 260170).
2.2. Orbene, nel caso in esame la Corte di appello di L’Aquila ha escluso
l’offensività in concreto della condotta per il grado di sviluppo della coltivazione,
tale da arrivare a produrre un quantitativo di principio attivo decisamente
superiore ai valori soglia e dal quale avrebbero potuto essere ricavare circa 290
dosi medie singole.
La Corte di appello di L’Aquila ha quindi ritenuto che un simile quantitativo
abbia leso l’interesse protetto dalla norma perché idoneo ad aumentare le sostanze
stupefacenti in circolazione, essendo irrilevante a tal fine la destinazione all’uso
personale indicata dalla difesa.
Tale valutazione, per altro, si fonda su un giudizio di fatto non valutabile in
sede di legittimità.

3. È inammissibile la richiesta formulata solo in sede di conclusioni dal
difensore di applicazione dell’art. 131 bis cod. pen.

Sez. 3 n. 23082 del 09/05/2013).

L’art. 131 bis cod. pen. è entrato in vigore il 2 aprile 2015, quindi prima
dell’udienza per l’appello che si è celebrata il 7 aprile 2016. La sentenza di appello
è stata emessa dopo l’entrata in vigore dell’art. 131 bis cod. pen.
Pertanto, la difesa avrebbe potuto e dovuto chiedere l’applicazione dell’istituto
in appello e non per la prima volta in sede di discussione; con il ricorso per
cassazione infatti non è stata chiesta l’applicazione dell’art. 131 bis cod. pen.
3.1. Secondo quanto affermato dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione,
con la sentenza n. 13681 del 25/02/2016, Rv. 266593, Tushaj, l’applicazione di
ufficio dell’art. 131 bis cod. pen. è possibile solo quando la sentenza impugnata

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J4 v

sia anteriore alla modifica legislativa: così le Sezioni Unite della Corte di
Cassazione in motivazione: «… quando la sentenza impugnata sia anteriore alla
novella, l’applicazione dell’istituto nel giudizio di legittimità va ritenuta o esclusa
senza che si debba rinviare il processo nella sede di merito. Ove esistano le
condizioni di legge, l’epilogo decisorio è costituito, alla luce di quanto si è prima
esposto ed alla stregua degli artt. 620, comma 1, lett. /), e 129 cod. proc. pen.,
da pronunzia di annullamento senza rinvio perché l’imputato non è punibile a causa
della particolare tenuità del fatto».
Ne consegue che la questione poteva essere dedotta in appello con richiesta

3.2. In ogni caso, come precisato da Cass. Sez. 1, n. 27752 del 09/05/2017,
Rv. 270271, Menegotti, la causa di esclusione della punibilità per particolare
tenuità del fatto prevista dall’art. 131-bis cod. pen., nel giudizio di legittimità, può
essere ritenuta, senza rinvio del processo nella sede di merito, solo in presenza di
un ricorso ammissibile, anche se esclusa nel giudizio di appello, ed a condizione
che i presupposti per la sua applicazione siano immediatamente rilevabili dagli atti
e non siano necessari ulteriori accertamenti fattuali a tal fine.
Nel caso in esame, non solo il ricorso è inammissibile, ma per l’applicazione
occorrerebbero verifiche in fatto, ad esempio sulla condizione di
tossicodipendenza, sul quantitativo netto prodotto dalla coltivazione, a prescindere
dal principio attivo, preclusi in questa sede.

4. Pertanto, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile. Ai sensi dell’art.
616 cod. proc. pen. si condanna il ricorrente al pagamento delle spese del
procedimento. Tenuto conto della sentenza della Corte costituzionale del 13 giugno
2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato
presentato senza versare in colpa nella determinazione della causa di
inammissibilità, si condanna altresì il ricorrente al pagamento della somma di euro
2.000,00, determinata in via equitativa, in favore della Cassa delle Ammende.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di € 2.000 in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso il 14/03/2018.

di sentenza ex art. 129 cod. proc. pen.

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