Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 17663 del 28/03/2013


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 17663 Anno 2013
Presidente: PETTI CIRO
Relatore: RAGO GEPPINO

SENTENZA
su ricorso proposto da:
FORADORI CRISTINA nata il 23/01/1959, avverso la sentenza del
10/02/2012 della Corte di Appello di Trento;
Visti gli atti, la sentenza ed il ricorso;
udita la relazione fatta dal Consigliere dott. Geppino Rago;
udito il Procuratore Generale in persona del dott. Roberto Aniello che ha
concluso per il rigetto;
FATTO
1. Con sentenza del 10/02/2012, la Corte di Appello di Trento – in
parziale riforma della sentenza pronunciata in data 25/11/2010 dal

tribunale della medesima città ed impugnata dal P.M. – dichiarava
FORADORI Cristina colpevole del reato di truffa aggravata dalla qualità
di incaricata di pubblico servizio, ex art. 61 n° 9 cod. pen. e,
riconosciuta prevalente l’attenuante di cui all’art. 62 n° 4 cod. pen., la
condannava alla pena di mesi sei di reclusione ed C 300,00 di multa.

2.

Avverso la suddetta sentenza, l’imputata, in proprio, ha

proposto ricorso per cassazione deducendo i seguenti motivi:

Data Udienza: 28/03/2013

2.1.

ILLOGICITÀ DELLA MOTIVAZIONE:

sostiene la ricorrente che la Corte

territoriale nulla aveva argomentato «in merito alle risultanze istruttorie
che si rivelano contraddittorie consentendo di individuare un soggetto
responsabile diverso dalla odierna imputata limitandosi a motivare la

Corte, poi, non aveva considerato che essa ricorrente si «limitava ad
eseguire gli ordini impartiti dal capo ufficio e da un sistema di gestione
condiviso anche da un carabiniere presente nell’ufficio».

2.2.

INSUSSISTENZA DELL’AGGRAVANTE DI CUI ALL’ART.

61 N° 9

COD. PEN.:

ad avviso della ricorrente, pur rivestendo ella la qualifica di operatore
giudiziario B2, non poteva essere ritenuta incaricata di un pubblico
servizio in quanto si limitava a svolgere semplici mansioni di ordine
prestazioni meramente materiali.
In ogni caso, essa ricorrente non aveva mai avuto «la volontà di
appropriarsi della cosa altrui, essendosi limitata a non consegnare
all’utente il “resto” dell’importo delle marche da bollo, posizionando il
corrispettivo nel cassetto dell’ufficio dove, da sempre, si conservano
alcune marche da bollo a beneficio dell’utenza».

DIRITTO
1. In via preliminare, va osservato quanto segue.
L’imputata era stata tratta a giudizio per il reato di peculato
continuato relativo all’appropriazione in sette occasioni, della somma di
C 3,54 in marche da bollo o contanti, nonché dell’appropriazione, in
cinque altre occasioni, di appropriazione di somme variabili da C 8,53 ad
C 33,84, somme quest’ultime che l’imputata tratteneva traendo

in

inganno i cittadini che a lei si rivolgevano per richiedere certificati del
suo ufficio.
All’esito del giudizio di primo grado, il tribunale, assolveva
l’imputata dal reato di peculato relativamente alle somme di C 3,54,
riqualificava i cinque episodi relativi all’appropriazione delle ulteriori
somme (quelle cioè da C 8,53 ad C 33,84: cfr capo d’imputazione) come
truffa e, avendo escluso l’aggravante di cui all’art. 61 n° 9 cod. pen.,

2

pronuncia di condanna con affermazioni generiche e contraddittorie». La

dichiarava non doversi procedere perché l’azione penale non avrebbe
potuto essere iniziata per mancanza di querela.
Avverso la suddetta sentenza, proponeva appello il solo P.M.
deducendo come unico ed esclusivo motivo di doglianza la circostanza

pen. che, se riconosciuta, avrebbe comportato la procedibilità d’ufficio e,
quindi, la condanna dell’imputata.
Di tanto ne dà atto la Corte territoriale che, quindi, ha
correttamente giudicato sul solo ed unico motivo di gravame sottoposto
alla sua attenzione, ossia sulla sussistenza dell’art. 61 n 0 9 cod. pen.
Il fatto che la Corte, abbia ripercorso l’intera vicenda processuale,
ribadendo la responsabilità dell’imputata per il reato di truffa, non incide
in alcun modo sulle conclusioni alle quali si è pervenuti.
Tanto premesso, e rilevato che la ricorrente non ritenne di
proporre, avverso la sentenza di primo grado, appello, devono ritenersi
definitivamente accertate le seguenti circostanze:
1. l’imputata si appropriò delle somme in questione;
2. il suddetto comportamento va qualificato come truffa ai
danni dei cittadini che a lei si rivolgevano per chiedere
certificati del suo ufficio.
Di conseguenza, il primo motivo di censura con il quale
l’imputata ha rimesso in discussione le due suddette circostanze (e cioè
sia l’addebitabilità della condotta criminosa, sia la sussistenza
dell’elemento materiale e dell’elemento psicologico del reato di truffa),
va ritenuto inammissibile.

2. INSUSSISTENZA DELL’AGGRAVANTE DI CUI ALL’ART. 61 N° 9 COD. PN.:
la censura è manifestamente infondata.
Infatti, premesso che, in punto di fatto, è pacifico che l’imputata
rivestiva la qualifica di operatore giudiziario B2 e che i fatti appropriativi,
si verificarono proprio in occasione ed in virtù delle funzioni pubbliche
che la ricorrente svolgeva, non si vede come non possa essere
riconosciuta la suddetta aggravante.

3

che il Tribunale aveva escluso l’aggravante di cui all’art. 61 n° 9 cod.

A nulla rileva la circostanza che la ricorrente – a suo dire: ma sul
punto, cfr pag. 6 della sentenza impugnata – si limitava a svolgere
funzioni materiali: in merito, è sufficiente ribadire il costante principio di
diritto secondo il quale «l’aggravante di aver commesso il fatto con

funzione o a un pubblico servizio (art. 61, n. 9, c.p.) non presuppone
necessariamente che il reato sia commesso in relazione al compimento
di atti rientranti nella sfera di competenza del pubblico ufficiale o
dell’incaricato di un pubblico servizio, ne’ l’attualità dell’esercizio della
funzione o del servizio, ma sussiste anche quando la qualità dell’agente,
in relazione alla tipicità della sua posizione, può facilitare la condotta del
reato»: Cass. 4062/1999 riv 214143; Cass. 20870/2009 Rv. 244738
che ha ribadito che «sussiste la circostanza aggravante comune della

commissione del fatto con abuso dei poteri o violazione dei doveri
inerenti a una pubblica funzione o a un pubblico servizio se la
commissione del fatto è stata anche soltanto agevolata dall’esercizio di
quei poteri o dalla violazione di quei doveri, non essendo necessaria
l’esistenza di un nesso funzionale. (Nella fattispecie, la Corte ha ritenuto
sussistente l’aggravante a carico dell’impiegato presso un ufficio del
Tribunale che ricettava valori bollati provenienti da atti giudiziari)».
In conclusione, l’impugnazione deve ritenersi inammissibile a
norma dell’art. 606/3 c.p.p, per manifesta infondatezza: alla relativa
declaratoria consegue, per il disposto dell’art. 616 c.p.p., la condanna
della ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché al
versamento in favore della Cassa delle Ammende di una somma che,
ritenuti e valutati i profili di colpa emergenti dal ricorso, si determina
equitativamente in C 1.000,00.

P.Q.M.
DICHIARA
Inammissibile il ricorso e
CONDANNA
la ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della
somma di C 1.000,00 alla Cassa delle Ammende.

abuso di poteri o con violazione dei doveri inerenti a una pubblica

Roma 28/03/2013
IL PRESIDENTE
ott. Ciro
IL CONSIGLIER EST.

9

(Dott. G. Ragb

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