Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 1766 del 10/12/2013


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Penale Sent. Sez. 4 Num. 1766 Anno 2014
Presidente: BRUSCO CARLO GIUSEPPE
Relatore: SERRAO EUGENIA

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
MAZZONE PASQUALE N. IL 13/10/1968
avverso l’ordinanza n. 104/2010 CORTE APPELLO di REGGIO
CALABRIA, del 13/01/2012
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. EUGENIA SERRAO;
lette/sErni le conclusioni del PG Dott. G” i V.A/YfYI b /A i-iG eLo
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Oditi difensor Avv.’

Data Udienza: 10/12/2013

RITENUTO IN FATTO
1. In data 13/01/2012 la Corte di Appello di Reggio Calabria ha rigettato
l’istanza di riparazione per ingiusta detenzione formulata nell’interesse di
Mazzone Pasquale; ingiusta detenzione subita dall’istante in regime di arresti
domiciliari dal 12/02/2000 al 28/02/2000 nell’ambito di un procedimento in cui
gli erano stati contestati i reati di cui agli artt.416, commi 1 e 5, cod. pen.
nonché 81, comma 2,110, 640, comma 2, cod. pen., definito con sentenza di
assoluzione con formula ‘perché il fatto non sussiste’ del Tribunale di Locri in
data 29/01/2007, confermata dalla Corte di Appello di Reggio Calabria con

sentenza del 30/04/2009, divenuta irrevocabile 1’8/11/2009.
2. La Corte di Appello adìta ha rigettato la domanda ravvisando nel
comportamento connivente dell’istante – alla luce di quanto acquisito agli atti gli elementi di una condotta sinergica alla produzione dell’evento restrittivo della
libertà personale; in particolare, la Corte territoriale ha ritenuto ravvisabile nella
condotta di Pasquale Mazzone gli estremi della colpa grave sulla scorta delle
seguenti specifiche circostanze fattuali che, ad avviso della Corte stessa,
avevano legittimato l’intervento dell’autorità con l’applicazione della misura
restrittiva: 1) nel corso della perquisizione del 18/05/1998 era stato sequestrato
dalla polizia giudiziaria un biglietto indirizzato al Mazzone dal coindagato D’Ettore
in cui quest’ultimo invitava il Mazzone a negare tutto, da cui era desumibile un
legame fiduciario strettissimo tra il Mazzone e il D’Ettore nonché la conoscenza
delle attività truffaldine poste in essere da quest’ultimo ai danni della ASL di
Locri; 2) in sede di interrogatorio di garanzia del 14/02/2000 l’istante si era
avvalso della facoltà di non rispondere, impedendo all’autorità giudiziaria
procedente di interpretare in maniera alternativa il contenuto del biglietto a lui
indirizzato ed escludere, di conseguenza, l’esistenza di un suo stretto
collegamento con il principale organizzatore della contestata truffa farmaceutica.
3. Avverso tale provvedimento Pasquale Mazzone ha proposto ricorso per
cassazione, con atto di impugnazione sottoscritto dal difensore, deducendo vizio
motivazionale in ordine alla ritenuta sussistenza della colpa grave in quanto la
Corte territoriale avrebbe contestato all’istante di non aver chiarito la questione
relativa al biglietto a lui indirizzato senza, tuttavia, specificare come tali
chiarimenti avrebbero potuto evitare l’adozione del provvedimento di arresti
domiciliari – che quei chiarimenti aveva, in ogni caso, preceduto – e lo stesso
:1

mantenimento della misura.
4.

Il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha depositato memoria

chiedendo che il ricorso sia dichiarato inammissibile o sia respinto.

2

5. Il Procuratore Generale, nella persona del dott. Giovanni D’Angelo, ha
chiesto il rigetto del ricorso e la condanna del ricorrente il pagamento delle spese
del procedimento.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1.

Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile per la manifesta

infondatezza delle censure dedotte.
2. Secondo i principi elaborati e affermati nell’ambito della giurisprudenza di
questa Suprema Corte, nei procedimenti per la riparazione per ingiusta

applicabile per il richiamo contenuto nell’art.315, comma 3 cod.proc.pen. – la
cognizione della Corte di Cassazione deve intendersi limitata alla sola legittimità
del provvedimento impugnato, ovviamente anche sotto l’aspetto della congruità
e logicità della motivazione, e non al merito. Per quel che concerne la verifica dei
presupposti e delle condizioni richieste perché sussista in concreto il diritto
all’equa riparazione – in particolare, l’assenza del dolo o della colpa grave
dell’interessato nella produzione dell’evento restrittivo della libertà personale – le
Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza n.43/95 (Sez. U,
n. 43 del 13/12/1995, Sarnataro, Rv.203636), hanno enunciato il principio di
diritto secondo cui la Corte territoriale deve procedere ad autonoma valutazione
delle risultanze processuali rispetto al giudice penale. In epoca ancora più
recente, le stesse Sezioni Unite (Sez. U, n. 34559 del 26/06/2002, Rv. 222263)
hanno ulteriormente precisato quanto segue: “in tema di riparazione per ingiusta
detenzione, il giudice di merito, per valutare se chi l’ha patita vi abbia dato o
concorso a darvi causa con dolo o colpa grave, deve apprezzare, in modo
autonomo e completo, tutti gli elementi probatori disponibili, con particolare
riferimento alla sussistenza di condotte che rivelino eclatante o macroscopica
negligenza, imprudenza o violazione di leggi o regolamenti, fornendo del
convincimento conseguito motivazione, che, se adeguata e congrua, è
incensurabile in sede di legittimità” (nell’occasione, la Corte ha affermato che il
giudice deve fondare la deliberazione conclusiva su fatti concreti e precisi e non
su mere supposizioni, esaminando la condotta tenuta dal richiedente sia prima,
sia dopo la perdita della libertà personale, indipendentemente dall’eventuale
conoscenza, che quest’ultimo abbia avuto, dell’inizio dell’attività di indagine, al
fine di stabilire, con valutazione ex ante, non se tale condotta integri estremi di
reato, ma solo se sia stata il presupposto che abbia ingenerato, ancorché in
presenza di errore dell’Autorità procedente, la falsa apparenza della sua
configurabilità come illecito penale, dando luogo alla detenzione con rapporto di
causa ad effetto).

3

detenzione, in forza della norma di cui all’art. 646 cod.proc.pen., da ritenersi

3. E’, quindi, determinante stabilire se la Corte di merito abbia motivato in
modo congruo e logico in ordine alla idoneità della condotta posta in essere
dall’istante ad ingenerare nel giudice che ha emesso il provvedimento restrittivo
della libertà il convincimento di un probabile coinvolgimento dell’odierno
ricorrente nei fatti oggetto dell’originaria imputazione.
3.1. Nella fattispecie in esame, la Corte di Appello di Reggio Calabria, per
quanto si evince dall’impugnata ordinanza, ha motivato il proprio convincimento
attraverso un adeguato percorso argomentativo ed ha spiegato perchè le

misura cautelare. In particolare, il giudice della riparazione ha valorizzato il
contenuto di alcuni fogli manoscritti, dei quali l’istante risultava destinatario,
sequestrati nella farmacia Marando, dai quali risultava che presso l’abitazione del
D’Ettore era ospitato un latitante (“avvisa il nostro amico ed evacualo”) e nei
quali veniva indicato al Mazzone il comportamento da seguire in caso di
applicazione di misure restrittive (“nega tutto”), desumendone, con motivazione
congrua ed adeguata, un comportamento extraprocessuale secondo il quale lo
stesso avesse tenuto un comportamento connivente. Tali circostanze, non
specificamente contestate dal ricorrente, sono state valutate dalla Corte di
Appello unitamente al comportamento endoprocessuale dell’istante, che in sede
di interrogatorio di garanzia non ha ritenuto di fornire indicazioni che
consentissero di escludere un suo stretto collegamento con il coindagato.
3.2. Risulta, pertanto, evidente che si tratti di un

iter motivazionale

assolutamente incensurabile in quanto caratterizzato da argomentazioni
pienamente rispondenti ai criteri di logicità ed adeguatezza, nonché in sintonia
con i principi enunciati da questa Corte in tema di dolo e colpa grave quali
condizioni ostative al diritto all’equa riparazione; si ha colpa grave allorquando il
soggetto sia venuto meno all’osservanza di un dovere obiettivo di diligenza, con
possibilità di prevedere che, non rispettando la regola precauzionale, venendo
meno all’osservanza dei doveri di diligenza, si sarebbe verificato l’evento
“detenzione”; la sinergia, sulla misura cautelare, del comportamento dell’istante
può riguardare “sia il momento genetico che quello del permanere della misura
restrittiva”. Giova evidenziare, ancora, che le Sezioni Unite di questa Corte, con
la sentenza n.43 del 1995 già sopra ricordata, hanno sottolineato che: a) “deve
intendersi dolosa.., non solo la condotta volta alla realizzazione di un evento
voluto e rappresentato nei suoi termini fattuali, sia esso confliggente o meno con
una prescrizione di legge, ma anche la condotta consapevole e volontaria i cui
esiti, valutati dal giudice del procedimento riparatorio con il parametro dell’id
quod plerumque accidit secondo le regole di esperienza comunemente accettate,

siano tali da creare una situazione di allarme sociale e di doveroso intervent
4

condotte ascritte fossero idonee a determinare l’applicazione e la conferma della

dell’autorità giudiziaria a tutela della comunità, ragionevolmente ritenuta in
pericolo; b) “poiché inoltre, anche ai fini che qui interessano, la nozione di colpa
data dall’art.43 cod.pen., deve ritenersi ostativa al riconoscimento del diritto alla
riparazione.., quella condotta che, pur tesa ad altri risultati, ponga in essere, per
evidente, macroscopica negligenza, imprudenza, trascuratezza, inosservanza di
leggi, regolamenti o norme disciplinari, una situazione tale da costituire una non
voluta, ma prevedibile, ragione di intervento dell’autorità giudiziaria che si
sostanzi nell’adozione di un provvedimento restrittivo della libertà personale o

della connivenza, in relazione al diritto all’equa riparazione, questa Corte ha già
avuto modo di affrontare la problematica della valenza della connivenza stessa
quale condotta ostativa al riconoscimento della riparazione. In particolare si è
riconosciuta tale valenza in tre casi: a) nell’ipotesi in cui l’atteggiamento di
connivenza sia indice del venir meno di elementari doveri di solidarietà sociale
per impedire il verificarsi di gravi danni alle persone o alle cose
(Sez. 4, n. 8993 del 15/01/2003, Lushay, Rv. 223688); b) nel caso in cui la
connivenza si concreti non già in un mero comportamento passivo dell’agente
con riguardo alla consumazione di un reato, ma nel tollerare che tale reato sia
consumato, sempre che l’agente sia in grado di impedire la consumazione o la
prosecuzione dell’attività criminosa in ragione della sua posizione di garanzia
(Sez. 4, n. 16369 del 18/03/2003, Cardillo, Rv. 224773); c) nell’ipotesi in cui la
connivenza passiva risulti aver oggettivamente rafforzato la volontà criminosa
dell’agente, sebbene il connivente non intendesse perseguire questo effetto
(Sez. 4, n. 42039 del 08/11/2006, Cambareri, Rv. 235397;
Sez. 4, n. 2659 del 03/12/2008, Vottari, Rv. 242538); in tal caso è necessaria
la prova positiva che il connivente fosse a conoscenza dell’attività criminosa
dell’agente medesimo (Sez. 4, n. 42039 del 08/11/2006, Cambareri,
Rv. 235397). È noto che la mera presenza passiva non integra il concorso nel
reato, a meno che non valga a rafforzare il proposito dell’agente di commettere il
reato. Ma questo rafforzamento del proposito non è sufficiente per ritenere il
concorso dello “spettatore passivo”, essendo necessario che questi abbia la
coscienza e volontà di rafforzare il proposito criminoso. Nei casi in cui l’elemento
soggettivo in questione non sia provato ben può essere astrattamente
configurata gravemente colposa, perché caratterizzata da grave negligenza, la
condotta passiva del connivente per non aver valutato gli effetti della sua
condotta sul comportamento dell’agente, la cui volontà criminosa può essere
oggettivamente rafforzata anche se il connivente non intenda perseguire questo
effetto; tale condotta può ritenersi, infatti, idonea a creare un’apparenza di
partecipazione alle attività criminose di altri. Ma per poter pervenire a questa
5

nella mancata revoca di uno già emesso”. Con specifico riferimento all’ipotesi

conclusione è necessario che sia provata la conoscenza delle attività criminose
compiute (o almeno che con grave negligenza il connivente non se ne sia reso
conto).
4.

Nella concreta fattispecie, avuto riguardo alle circostanze fattuali

evidenziate dalla Corte distrettuale, come sopra ricordato, non a caso con
riferimento al comportamento extraprocessuale del ricorrente, la motivazione
risulta logica laddove ha ritenuto che Pasquale Mazzone fosse a conoscenza
dell’illecita attività in cui appariva coinvolto ed avesse mantenuto una condotta

soggetti dediti a pieno titolo in un’attività illecita; per tale motivo, correttamente
la Corte d’Appello ha inquadrato il comportamento di Pasquale Mazzone – tra le
ipotesi sopra ricordate alle quali la giurisprudenza di questa Corte ha ritenuto
riconducibile la condotta connivente ostativa al riconoscimento della riparazione quantomeno nell’ipotesi sub c).
4.1. Ad integrazione ed ulteriore specificazione delle ipotesi appena
elencate, il Collegio ritiene che debba essere sottolineato, comunque, che, in
tema di equa riparazione, il vaglio delle circostanze di fatto idonee ad integrare il
dolo o la colpa grave deve essere operato con giudizio ex ante e sulla base
dell’idoneità della condotta dell’indagato a “tranne in inganno” l’autorità
giudiziaria e a porsi come situazione sinergica alla causazione dell’evento
“detenzione”; se è vero dunque che la connivenza non è, certamente, concorso
nel reato, è altresì innegabile che la stessa, in presenza di determinati dati di
fatto, come quelli sottolineati dalla Corte di Appello nel caso in esame, possa
essere interpretata, almeno nella fase investigativa, appunto come concorso, con
possibili, negative conseguenze in tema di libertà: conseguenze dovute,
perlomeno, anche alla vistosa trascuratezza e superficialità di chi, pur solo
connivente, non tiene nel dovuto conto dei dati di fatto che potrebbero
oggettivamente coinvolgerlo.
5. Quanto all’unica censura in concreto mossa dal ricorrente per l’omessa
motivazione circa il rilievo attribuito in senso ostativo al silenzio serbato
dall’indagato in sede d’interrogatorio di garanzia, i giudici della riparazione hanno
invero espresso le ragioni per le quali hanno ritenuto che l’atteggiamento
processuale del richiedente avesse assunto, nel caso concreto, incidenza causale
sul mantenimento della misura (pag.6). Se è vero, infatti, che l’imputato o la
persona sottoposta ad indagine ha il diritto al silenzio, alla reticenza ed anche
alla menzogna, è tuttavia altrettanto vero che tale comportamento, di per sè
certamente legittimo, può, in sede di giudizio riparatorio, ritorcersi contro
l’interessato per l’omessa tempestiva allegazione di spiegazioni e chiarimenti
idonei ad eliminare il valore indiziante di elementi acquisiti in sede di indagini.
6

certamente idonea a rafforzare oggettivamente la volontà dei conniventi,

Nella sede riparatoria rilevano, dunque, secondo quanto già affermato da questa
Corte, non il silenzio, la reticenza o la menzogna in quanto tali, ma “il mancato
esercizio di una facoltà difensiva, quanto meno sul piano dell’allegazione di fatti
favorevoli che, se non può essere da solo posto a fondamento dell’esistenza della
colpa grave, vale però a far ritenere l’esistenza di un comportamento omissivo
causalmente efficiente nel permanere della misura cautelare, del quale può
tenersi conto nella valutazione globale della condotta in presenza di altri
elementi di colpa” (Sez. 4, n. 16370 del 18/03/2003, Giugliano, Rv. 224774).

comma 1, cod. proc. pen., condotta valorizzata dalla Corte, ha fatto seguito un
comportamento caratterizzato dal sostanziale rifiuto di chiarire i termini della
vicenda e di indicare elementi a discolpa; condotta che, con logica deduzione, il
giudice della riparazione ha ritenuto avere contribuito al convincimento degli
inquirenti di un suo coinvolgimento nella vicenda delittuosa oggetto d’indagine.
Anche in ragione di ciò, l’ordinanza in esame non merita di essere censurata,
essendo la decisione impugnata del tutto coerente rispetto alle circostanze
emerse nella sede processuale, correttamente valutate dalla Corte territoriale e
perfettamente in linea con i principi di diritto affermati da questa Corte in tema
di riparazione (Sez. 4, n.7296 del 17/11/2011 (dep. 23/02/2012 ),Berdicchia,
Rv. 251928).
6. Tenuto conto della sentenza Corte Cost. n.186 del 13/06/2000 e rilevato
che non sussistono elementi per ritenere che la parte abbia proposto ricorso
senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, alla
declaratoria di inammissibilità segue, a norma dell’art.616 cod.proc.pen., l’onere
delle spese del procedimento e del versamento di una somma, in favore della
Cassa delle Ammende, determinata nella misura di euro 1.000,00 nonché la
condanna al pagamento delle spese del presente giudizio in favore del Ministero
dell’Economia e Finanze, liquidate in complessivi euro 750,00.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di euro 1.000,00 in favore della Cassa delle
Ammende, oltre alla rifusione delle spese in favore del Ministero resistente, che
liquida in complessivi E.750,00.
Così deciso il 10 dicembre 2013

Il Con

e est.

Il Presid te

Orbene, nel caso di specie, all’iniziale e rilevante – nel senso inteso dall’art. 314,

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