Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 17518 del 29/03/2018


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Penale Sent. Sez. 6 Num. 17518 Anno 2018
Presidente: ROTUNDO VINCENZO
Relatore: COSTANTINI ANTONIO

SENTENZA
sui ricorsi proposti da:
HIDALGO URSULA nato il 03/09/1969 a LIMA (PERU’)
ROSSI PAOLA nato il 03/02/1958 a FIRENZE

avverso la sentenza del 02/03/2017 della Corte d’appello di Firenze
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Antonio Costantini

Udito il PG, in persona del Sostituto Procuratore generale Alfredo Pompeo Viola
che ha concluso per il rigetto del ricorso di Hidalgo Ursula;
annullamento con rinvio del ricorso di Rossi Paola.
Uditi:
l’avvocato Cartelli Fabio del foro di Firenze, difensore delle parti civile Greco
Gesualdo, Romolini Massimo e Landucci Giovanni e quale sostituto processuale
dell’avvocato Muscari Tomajoli Roberta del foro di Firenze difensore delle parti
civili Cardarello Pierluigi, Pini Alessandro e Sulas Maurizio, che dopo discussione
chiede che i ricorsi vengano rigettati, depositando conclusioni e note spesa;
l’avvocato Paoli Paolo del foro di Firenze, difensore di Hidalgo Ursula e Rossi
Paola, dopo discussione, per la posizione di Rossi Paola si associa alle richieste
del P.G., per la posizione di Hidalgo Ursula, insiste nell’accoglimento dei motivi di
ricorso.

Data Udienza: 29/03/2018

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 5 dicembre 2014, il Tribunale di Firenze aveva
condannato Hidalgo Ursula per il delitto di calunnia aggravata nei confronti di
militari della Guardia di Finanza in servizio presso la Sezione di Polizia Giudiziaria
della Procura della Repubblica di Firenze alla pena di anni due, mesi uno e giorni
dieci di reclusione, assolvendo Rossi Paola per lo stesso reato ai danni dello

2. La Corte d’appello di Firenze, in parziale riforma della predetta sentenza
ed in accoglimento dell’appello del P.M., ha dichiarato Rossi Paola responsabile
per il delitto di calunnia aggravata, condannandola alla pena di anni due, mesi
uno e giorni dieci di reclusione, confermando la sentenza di condanna nei
confronti della Hidalgo.
Hidalgo e Rossi ricorrono avverso tale decisione.

3. Hidalgo Ursula deduce i motivi di cui appresso.
3.1 Violazione degli artt. 125, 521, 546, comma 1, e 429 lett. c) cod. proc.
pen. e dell’art. 6, par. 3, lett. a) CEDU, con conseguente nullità della sentenza
per mancanza della concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto posti a
fondamento della decisione quanto all’eccepita nullità del decreto che ha disposto
il giudizio, nonché mancanza di correlazione con la contestazione, vizi della
motivazione emergenti dal provvedimento impugnato.
La sentenza impugnata ha omesso di fornire adeguata motivazione circa
l’eccezione di nullità del decreto che dispone il giudizio formulata nell’atto
d’appello, avendo ritenuto la ricorrente, in quanto querelante, a conoscenza della
relativa contestazione con conseguente non necessità di specificare gli elementi
del reato nell’imputazione.
3.2. Violazione degli artt. 125, 521, 546, comma 1, lett. e) cod. proc. pen.
in quanto la sentenza omette di motivare in ordine alla condotta scorretta ed
abusiva posta in essere dai militari e delle loro dichiarazioni rese a dibattimento,
condotta che, specie in ordine a quanto riferito in dibattimento dai militari,
doveva essere sottoposta ad attento vaglio non effettuato dalla Corte di merito.
3.3. Violazione degli artt. 125, 521, 522, 546, comma 1, lett. e) cod. proc.
pen. in quanto la sentenza non motiva sulle principali questioni di fatto e di
diritto circa la mancanza di specificità dei fatti contestati e la omessa
estromissione delle parti civili con conseguente nullità prevista dall’art. 185 cod.
proc. pen.

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stesso personale, in Firenze con denuncia del 1 ottobre 2010.

3.4. Violazione degli artt. 125, 521, 522, 546, comma 1, lett. e) cod. proc.
pen. ribadendo come la conferma della condanna a carico della ricorrente non
abbia adeguatamente valutato l’inconsistenza della contestazione, della assenza
di rilievo penale delle dichiarazioni contenute nella denuncia, omette di valutare i
fatti di minaccia ed abuso d’ufficio a carico dei militari, dispone il risarcimento
delle parti civili senza enunciare per ogni militare quale fosse il percorso logico
giuridico seguito.
Non è stato valutato il contenuto del procedimento archiviato a carico dei

facendo, per contro discendere da tale archiviazione la falsità delle dichiarazioni
della denunciante.
La Corte non ha poi argomentato sul perché, mentre con riferimento alla
Rossi i fatti enunciati in denuncia sono stati ritenuti idonei ad ingenerare dubbi
circa la legittimità dell’operato da parte dei militari con conseguente venir meno
dell’elemento soggettivo del reato in tal senso facendo specifico riferimento a
quanto contenuto nell’imputazione, tale valutazione non è stata effettuata anche
per la Hidalgo, il cui capo di imputazione non conteneva quanto gli veniva
contestato e su cui si è in precedenza dedotto in ordine alla incompletezza.
Da tanto è emerso che, per addivenire alla condanna, i giudici di merito
hanno dovuto fare riferimento a fatti meramente supposti mai contestati.
3.5. Omessa motivazione in ordine al computo della pena base, che alla luce
del comportamento dei militari, doveva essere applicata sul minimo, al giudizio
di comparazione e sulla prevalenza delle attenuanti generiche sulla aggravante di
cui all’art. 61, n. 10 cod. pen., sulla cui applicazione è carente il percorso logico
giuridico seguito dai giudici di merito, alla applicazione della continuazione, da
effettuarsi con un unico aumento sulla pena base.
3.6. Omessa motivazione in ordine alla liquidazione del danno in favore delle
parti civili che, in quanto incolpati del reato di minacce e di abuso d’ufficio, non
sono parti offese ma danneggiati, non potendosi far automaticamente discendere
dalla loro costituzione ed il conseguente diritto al contraddittorio, l’accoglimento
della domanda senza l’allegazione di un pregiudizio in concreto subito.

4. Paola Rossi deduce i motivi di seguito indicati.
4.1. Violazione dell’art. 6, par. 3, lett. a) CEDU.
La sentenza d’appello ha riformato quella di primo grado senza provvedere
alla rinnovazione dibattimentale con riferimento all’esame dei dichiaranti, senza
motivare sul perché si sia discostata dall’indirizzo di questa Corte (Sez. U, n.
27620 del 28/04/2016, Dasgupta, Rv. 267486).

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militari dal quale invece emergeva che quanto descritto in querela era vero,

In tal senso si evidenzia come la sentenza abbia reinterpretato le prove
senza assumerle direttamente.
4.2. Violazione degli artt. 112, 125, 521, 546, comma 1, lett. e) cod. proc.
pen. in quanto la Corte territoriale ricorre a motivazioni illogiche ed apodittiche
per giustificare l’operato dei militari ed accogliere il ricorso del P.M., in
particolare considerando riduttivo quanto riportato nella sentenza di primo grado
circa la sola accusa di falso ed abuso d’ufficio, ritenendo che le accuse mosse in
denuncia ai militari della Guardia di Finanza da parte della Rossi fossero molto

l’imputazione che non conteneva tale riferimento.
La sentenza non presta la minima attenzione all’operato dei militari
nell’esecuzione delle operazioni che hanno portato alla perquisizione
dell’abitazione della Rossi, rilievi che erano a conoscenza della Corte territoriale
poiché evidenziati nella sentenza di primo grado che aveva considerato la
presenza di inesattezze nei verbali e l’assenza di dolo.
Per il resto il motivo è sovrapponibile a quello della Hidalgo sub 3.3.
4.3. Violazione degli artt. 125, 521, 546, comma 1, lett. e) cod. proc. pen.
La sentenza impugnata ha fondato la decisione di condanna affermando che
l’errore dei militari nell’indicazione di orari, luoghi e soggetti presenti, era
comunque coerente con quanto avvenuto durante la perquisizione che, quindi,
non poteva dar luogo alla falsità denunciata. Tale argomento, chiaramente teso
ad escludere il dolo dei militari, è stato valutato negativamente a carico della
Rossi che, per contro, tali errori si era limitata ad indicare segnalando le
contraddizioni contenute nei verbali redatti dai militari.
Tanto ha costituito l’elemento fondante la condanna, la cui condotta si era
realizzata per mezzo di affermazioni vere, utilizzando la parte della denuncia,
non esplicitata nella contestazione, che fa riferimento alle minacce subite dalla
Rossi, così violando il principio statuito dalla sentenza Drassich contro Italia del
2007 che riconosce all’accusato il diritto di essere informato sui fatti, anche sotto
il profilo della qualificazione giuridica, che gli sono contestati affinché gli possa
essere garantito un equo processo e la possibilità di approntare ed esercitare
una efficace difesa.
4.4. Omessa motivazione circa la liquidazione del risarcimento in favore
delle parti civili.
La sentenza non considera che nel reato di calunnia la parte offesa è solo
l’amministrazione della giustizia, mentre i militari, in quanto incolpati del reato di
falso e abuso d’ufficio, devono qualificarsi quali danneggiati che, non avendo
interposto appello per ottenere in secondo grado l’accoglimento delle domande
escluse dall’esito del processo di primo grado, non avevano diritto al

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più articolate e comprendessero anche le minacce, estendendo oltremodo

risarcimento, tra l’altro assegnato indistintamente a tutti i militari che avevano
partecipato alle operazioni senza alcuna distinzione tra chi aveva effettuato la
perquisizione nell’immobile di Impruneta, per cui era stata proposta denuncia, e
chi nulla aveva a che fare con tale atto che si riteneva illegittimo.
4.5. Si contesta l’omessa concessione delle attenuanti generiche, la
equivalenza tra la circostanza attenuante citata e quella di cui all’art. 61 n. 10,
senza considerare le circostanze che avrebbero dovuto condurre alla loro
concessione anche per la certezza da parte della Rossi di essere proprietaria

Egualmente si contesta l’applicazione della continuazione di giorni dieci per
ogni persona offesa moltiplicato per quattro in tal modo ricomprendendo anche
soggetti che non potevano ritenersi danneggiati, tra l’altro errando il calcolo alla
luce della costituzione di otto parti civili.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. I fatti attengono a due distinte denunce presentate in data 1 ottobre 2010
dalle ricorrenti nelle quali, Hidalgo Ursula, collaboratrice domestica, denunciava i
militari della Guardia di Finanza che avevano proceduto alla perquisizione
conseguente alla esecuzione di misura cautelare nei confronti di Caramia, suo
datore di lavoro, accusandoli di minacce ed abusi, Paola Rossi, segretaria presso
lo studio del Notaio Caramia, presentava pedissequa denuncia nei confronti degli
stessi militari che avevano anche eseguito una perquisizione presso lo studio
notarne (estendendola poi presso un’abitazione di Impruneta in quanto ritenuta
nella disponibilità del Caramia), accusandoli di falso in ordine alle persone
asseritamente presenti nel verbale ed agli orari in esso riportati, ed abuso
d’ufficio in quanto avrebbero esteso la perquisizione in abitazione di sua
esclusiva pertinenza.

2. Il ricorso della Hidalgo è inammissibile sotto plurimi profili.
2.1. Quanto alla deduzione in cui si contesta la motivazione della Corte in
ordine alla eccepita genericità dell’imputazione, deve rilevarsi la sua completezza
e logicità, avendo sul punto indicato come il riferimento ai fatti di cui alla
denuncia presentata dalla ricorrente siano chiaramente evincibili dal riferimento
alla denuncia presentata in data 1 ottobre 2010, i cui tratti salienti della vicenda,
in quanto redatti personalmente dalla Hidalgo, erano ben noti in tutta la loro
ampiezza, comprendendosi chiaramente quali fossero le minacce riferite ai
militari ed i conseguenti reati loro attribuiti.

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dell’immobile perquisito non riconducibile al Caramia.

Quanto affermato è conforme ai principi di questa Corte secondo cui non vi è
incertezza sui fatti descritti nell’imputazione quando questa contenga, con
adeguata specificità, i tratti essenziali del fatto di reato contestato, in modo da
consentire all’imputato di difendersi (Sez. 5, n. 6335 del 18/10/2013, dep. 2014,
Morante, Rv. 258948), tra l’altro fornendo coerente e completa risposto ad
identica deduzione in quella sede di gravame prospettata (e già enunciata in
primo grado), che in questa sede si reitera semplicemente attraverso una critica
alla motivazione meramente apparente senza che si indichino in concreto quale

Sammarco, Rv. 255568).
Tanto conduce, riportandosi al costante orientamento di questa Corte, alla
inammissibilità del ricorso essendo i motivi tesi a lamentare genericamente
l’omessa valutazione di una tesi alternativa a quella accolta dalla sentenza di
condanna impugnata, senza l’indicazione di precise carenze od omissioni
argomentative ovvero illogicità, idonee ad incidere negativamente sulla capacità
dimostrativa di quanto posto a fondamento della decisione di merito (Sez. 2, n.
30918 del 07/05/2015, Falbo e altro, Rv. 264441).
2.2. Anche con riferimento al motivo con cui si deduce l’omessa valutazione
della condotta posta in essere dai verbalizzanti in uno al vaglio di attendibilità
delle dichiarazioni rese a dibattimento dai testi, deve rilevarsi, a prescindere da
una chiara perplessità e ontologica genericità del motivo, come attraverso tale
deduzione in realtà si introducano censure chiaramente inerenti alla ricostruzioni
dei fatti per come effettuata dai giudici di merito che hanno pedissequamente
ricostruito la vicenda anche attraverso l’esame degli atti del procedimento
archiviato a carico delle parti offese.
Questo ha accertato come l’attività degli stessi fosse regolare e conforme a
legge, mentre il comportamento della Hidalgo fosse irriguardoso, canzonatorio e
ostruzionistico nei confronti dei militari che, nonostante la possibilità di eseguire
coattivamente la perquisizione tramite la rimozione degli ostacoli fissi, ebbero ad
attendere che la Hidalgo aprisse loro l’immobile.
Deve, inoltre, rilevarsi che nei motivi d’appello non si contesta l’attendibilità
di quanto dai testi dichiarato, facendosi esclusivo riferimento alle asserite
illegalità poste in essere dagli stessi durante la perquisizione senza che si
indichino, neppure genericamente, le dichiarazioni o versioni che si palesavano
inattendibili.
In tal senso, deve rinviarsi al costante indirizzo che impone la declaratoria di
inammissibilità del ricorso per cassazione quanto il motivo dedotto abbia ad
oggetto questioni sulle quali il giudice di appello non si sia pronunciato in quanto

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parte delle argomentazioni non si condividono (Sez. 5, n. 28011 del 15/02/2013,

non devolute alla sua cognizione (Sez. 2, n. 13826 del 17/02/2017, Bolognese,
Rv. 269745).
2.3. Quanto ai motivi sub 3.3, 3.4. e 3.5. del «ritenuto in fatto», la
inammissibilità delle censure emerge dalla sola lettura, effettuandosi una critica
ad ampio spettro coinvolgente indifferentemente, la omessa motivazione in fatto
ed in diritto, la omessa estromissione delle parti civili, la inconsistenza della
imputazione, la presunta assenza di rilievo penale di quanto contenuto in
denuncia, per poi reiterare le censure rivolte all’omessa valutazione della

ulteriore critica alla parte di sentenza che ha omesso di argomentare circa le
modalità di risarcimento in favore delle parti civili. Critiche tutte sfornite di un
minimo confronto su quanto, con motivazione ineccepibile, logica e completa,
hanno argomentato i giudici di merito.
Si censura, poi, la parte della motivazione della sentenza di secondo grado
che si è riportata alla decisione del primo giudice in cui, mentre per la Rossi si è
fatto specifico riferimento all’imputazione, escludendo che altre evenienze
emergenti dalla denuncia consentisse di implementare il contenuto della
imputazione, non altrettanto è stato effettuato in favore della Hidalgo che ha
visto i giudici andare oltre la imputazione, non valutando che proprio l’integrale
analisi in tali termini operato dalla Rossi ha consentito ai giudici di riformare la
sentenza a carico dell’altra ricorrente, tra l’altro richiedendo motivazioni
assolutamente eccentriche rispetto al necessario vaglio motivazionale che
compete al decidente.
Anche con riferimento alla sanzione, si critica la omessa concessione delle
attenuanti, in realtà concesse seppure ritenute equivalenti, la ritenuta
equivalenza con la contestata aggravante ritenendo carente il percorso logico
giuridico senza enunciarne i motivi, egualmente si censura il calcolo della pena
base che è stata fissata sul minimo edittale, anche contestando il calcolo della
continuazione asseritamente applicabile con un unico aumento, pena che, questa
sì, si presenta inferiore al calcolo fatto in motivazione in ordine all’aumento di
dieci giorni per ogni parte offesa, conteggio che avrebbe condotto, qualora
rettamente effettuato, ad una pena superiore di un mese rispetto a quella in
concreto prevista in sentenza.
2.4. Manifestamente infondato è quanto affermato in ordine alla liquidazione
del danno in favore delle parti civili costituite che, certamente parti offese, attesa
la natura plurioffensiva del reato di calunnia (in tal senso: Sez. 6, n. 49740 del
25/07/2017, Gaggioli, Rv. 271506; Sez. 6, n. 10535 del 21/02/2007, p.o. in
proc. Caprio, Rv. 235929), non solo partecipano al processo ma, in quanto
danneggiati, compete loro il risarcimento quantomeno del danno morale

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condotta di abuso e minaccia asseritamente posta in essere dai militari, con una

conseguente all’accertamento del fatto di reato, inteso quale sofferenza arrecata
alla persona offesa per effetto della violazione penale.
Nel caso di specie, certamente immune da vizi poiché coerente e completo
risulta quanto affermato dalla Corte territoriale circa la condotta lesiva indirizzata
ai danni di militari il cui dovere istituzionale presuppone proprio quei doveri di
imparzialità e correttezza duramente pregiudicati dalla falsa accusa e che ha
portato giudici di merito a riconoscere loro il risarcimento quantificato in via

3. Egualmente inammissibile è il ricorso della Rossi, connotandosi i relativi
motivi da aspecificità, genericità e manifesta infondatezza.
3.1. Quanto alla dedotta violazione della regola che impone la rinnovazione
del dibattimento in caso di sovvertimento in senso peggiorativo della decisione di
primo grado, deve rilevarsi che il principio secondo cui è affetta da vizio di
motivazione ex art. 606, comma primo, lett. e), cod. proc. pen., per mancato
rispetto del canone di giudizio “al di là di ogni ragionevole dubbio”, di cui all’art.
533, comma primo, cod. proc. pen., la sentenza di appello che, su impugnazione
del pubblico ministero, affermi la responsabilità dell’imputato, in riforma di una
sentenza assolutoria, opera nel caso in cui la decisione sia stata assunta su una
diversa valutazione di prove dichiarative ritenute decisive, delle quali non sia
stata disposta la rinnovazione (Sez. U, n. 27620 del 28/04/2016, Dasgupta, Rv.
267492).
Nel caso oggetto del presente giudizio è stata ritenuta la responsabilità della
Rossi per la diversa valutazione in ordine all’elemento soggettivo che l’avrebbe
spinta ad effettuare la denuncia, assumendo l’abuso da parte dei militari che si
sarebbero resi responsabili di falsità in ordine anche agli orari ed alla
attestazione delle persone presenti oltre ad evidenziarsi condotte minacciose
anche restrittive della libertà personale.
Sotto questo profilo, infatti, seppure la Corte ha preso in considerazione
quanto dichiarato dai militari ritenendo il loro operato conforme alle regole, non
ha effettuato una valutazione difforme rispetto a quella del primo giudice che su
tanto ha egualmente ribadito identica conclusione di liceità, non ritenendo
realizzati i fatti che adombravano un loro illegittimo operato.
La conclusione, quindi, che ha condotto i giudici distrettuali a ritenere
integrato il dolo del reato, ha avuto come sostrato il solo contenuto della
denuncia presentata che, proprio perché accusava i militari di aver falsificato gli
atti, ha evidenziato come quelli rappresentati in ordine all’orario ed alla presenza
sul posto della perquisizione della Rossi, non fossero altro che semplici refusi,
chiaramente evincibili da chiunque e chiaramente strumentalizzati, nella

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equitativa.

consapevolezza di accusare sulla base di tanto, i verbalizzanti che, secondo la
ricostruzione operata dalla Rossi in denuncia, avrebbero attestato situazioni
chiaramente in contrasto, di fatto autoaccusandosi del falso commesso.
Anche la parte del verbale che aveva dato atto della presenza della Rossi era
egualmente in contrasto con altra parte dello stesso verbale dalla quale
emergeva che la donna si era allontanata al momento della redazione del verbale
poiché dai verbalizzanti veniva dato atto che venivano chiamati dai carabinieri
dove la donna si trovava, in tal senso rendendo palese e confermando che quella

finalità calunniose, ben consapevole di accusare degli innocenti.
In tal senso anche la valutazione in ordine all’accusa di abuso per aver
esteso la perquisizione presso la villa di Impruneta intestata alla Rossi,
segretaria del Notaio Caramia ma che da quanto rinvenuto nel corso della stessa
perquisizione era risultata nella disponibilità del Caramia anche sulla base
dell’intervenuto pagamento e garanzia per l’acquisto da parte di questi di un
bene immobile esorbitante le possibilità economiche della donna. Anche la
denuncia in ordine ai presunti abusi per tale estensione, già ritenuti insussistenti
dai carabinieri dove si erano recati, dal Tribunale del riesame ove era stato
impugnato il provvedimento poi ricorso in questa sede e dichiarato
inammissibile, aveva fondato la convinzione da parte della Corte di merito circa
la sussistenza del necessario elemento soggettivo ai fini della dichiarazione di
responsabilità.
Da quanto sopra emerge con chiarezza che a base della decisione della Corte
territoriale non vi è stato un distinto apprezzamento delle dichiarazioni rese da
parte dei militari o di altri testi, ma un diverso apprezzamento degli elementi
oggettivi (esame del contenuto della querela) già acquisiti e ritenuti tali dal
primo giudice.
3.2. In ordine alla ritenuta estensione di responsabilità sulla base di condotte
asseritamente non contestate, si rinvia al pacifico e consolidato orientamento di
questa Corte secondo cui non sussiste alcuna incertezza sull’imputazione,
quando questa contenga con adeguata specificità i tratti essenziali del fatto di
reato contestato in modo da consentire un completo contraddittorio ed il pieno
esercizio del diritto di difesa; la contestazione, inoltre, non va riferita soltanto al
capo di imputazione in senso stretto, ma anche a tutti quegli atti che, inseriti nel
fascicolo processuale, pongono l’imputato in condizione di conoscere in modo
ampio l’addebito. (Sez. 2, n. 2741 del 11/12/2015, dep. 2016, Ferrante, Rv.
265825), sicché è anche legittimo il ricorso al rinvio ad atti del fascicolo
processuale, purché si tratti di atti intellegibili, non equivoci e conoscibili
dall’imputato (Sez. 5, n. 10033 del 19/01/2017, Ioghà e altro, Rv. 269455).

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effettuata dalla Rossi per mezzo della denuncia nei confronti dei militari aveva

Rinviandosi quanto a conoscenza degli atti cui l’imputazione fa rinvio a
quanto sub 2.1. del «considerato in diritto» affermato, deve evidenziarsi che
anche per l’imputazione posta a carico della Rossi si fa espresso riferimento alle
accuse di falsità ed abuso d’ufficio contenute nella denuncia, mentre con
riferimenti meramente esemplificativi si descrivono talune condotte false o
abusive (con esclusivo riferimento alle date, ai soggetti presenti ed alla
estensione della perquisizione) certamente non esaustive ai fini del complessivo
compendio accusatorio su cui è stata poi fondata la responsabilità; circostanze

stata personalmente redatta.
Anche il riferimento alle presunte minacce a cui il ricorrente accenna, non
colgono nel segno poiché nella qualificazione degli abusi d’ufficio (testualmente
indicati in imputazione) soccorrono certamente proprio i fatti concernenti la
asserita limitazione della libertà del soggetto perquisito, in tal senso rilevando il
riferimento alla “minaccia” e non certo quale fattispecie di reato distinta rispetto
a quelle contenute in imputazione.
Contrariamente a quanto sostenuto, la Corte territoriale ben motiva circa la
sua difforme condotta successiva al rinvenimento della documentazione afferente
alla riconducibilità al Caramia della villa dell’Impruneta ed al conseguente cambio
di atteggiamento della Rossi, portato avanti con comportamenti autolesionistici,
ed il successivo allontanamento dal posto per recarsi presso la caserma dei
carabinieri con il vano tentativo di impedire l’attività doverosa dei verbalizzanti.
Tali fatti mal si conciliavano con la denunciata sopraffazione e limitazione
della libertà di movimento subita in occasione della perquisizione, circostanza
che rendeva di palmare evidenza come quanto già indicato dal primo giudice in
termini di legittimità dell’operato, continuando la ricorrente a sovrapporre la
propria versione alternativa a quella già emersa e conclamata anche in altro
procedimento definito con l’archiviazione e che rende il motivo, per come
formulato, generico (Sez. 2, n. 30918 del 07/05/2015, Falbo e altro, Rv.
264441).
3.3. Quanto al motivo indicato sub 4.3. del «ritenuto in fatto» si rinvia a
quanto già esposto in ordine alla corrispondenza tra condanna ed imputazione,
essendo chiaramente insussistenti i profili connessi alla asserita differente
imputazione che ha formato oggetto della decisione della nota sentenza Drassich
c/ Italia e che non ricorre nel caso di specie in cui, non rilevando problemi di
sufficiente determinazione tra quanto contenuto nell’imputazione e quanto
contestato, egualmente inconferente risulta una prospettata violazione del
principio di cui si deduce la violazione.

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che erano cognite alla ricorrente in quanto, come sopra enunciato, la querela era

Si è sopra chiarito che l’improprio riferimento alle «minacce» da parte del
ricorrente implica la descrizione di parte del reato di abuso d’ufficio che si
contesta esplicitamente nell’imputazione, quale fattispecie a carico dei militari
che, abusando del proprio ufficio durante l’esecuzione dell’atto delegato
avessero, in ipotesi, coartato andando al di là di quanto funzionale alla
realizzazione dell’atto ed al di fuori dei poteri consentiti, con violazione di norme
processuali ovvero di disciplina di settore della condotta degli operanti, così
intenzionalmente procurando un ingiusto danno.

risarcimento del danno, quanto a manifesta infondatezza si rinvia sub 2.4. del
«considerato in diritto», essendo la motivazione sovrapponibile.
3.5. Anche con riferimento alle censure in tema di pena

sub 4.5. del

«ritenuto in fatto» ci si riporta a quanto sub 2.3. del «considerato in diritto»
riferito, evidenziandosi l’ininfluenza ai fini del richiesto favorevole bilanciamento
della attenuanti generiche sulla contestata aggravante, della convinzione di
essere titolare della Villa, circostanza che, proprio perché esclusa, ha condotto
alla condanna della Rossi.
Anche in tal caso il calcolo ai fini del computo della continuazione risulta
effettuato in difetto rispetto a quanto riferito in motivazione in ordine
all’aumento di dieci giorni per ogni parte offesa, conteggio che avrebbe condotto,
qualora rettamente effettuato, ad una pena superiore di un mese rispetto a
quella in concreto prevista in sentenza.

4. Alla inammissibilità dei ricorsi consegue la condanna dei ricorrenti alla
rifusione delle spese di rappresentanza e difesa in favore delle parti civili a
mente dell’art. 592, comma 1, cod. proc. pen., nonché al pagamento delle
spese processuali e della somma, che si stima adeguata, di euro duemila
ciascuno in favore della cassa delle ammende, secondo quanto previsto dall’art.
616, comma 1, cod. proc. pen.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle
spese processuali e ciascuno al versamento della somma di euro duemila in
favore della cassa delle ammende.
Condanna, inoltre, gli imputati alla rifusione delle spese di rappresentanza e
difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti civili costituite Cardarello
Pierluigi, Pini Alessandro e Sulas Maurizio che liquida complessivamente in euro
3.500, oltre a spese generali in misura del 15% IVA e CPA, nonché alla rifusione

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3.4. In ordine alle censure in tema di parte offesa e liquidazione del

delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti
civili costituite Greco Gesualdo, Romolini Massimo e Landucci Giovanni, che
liquida complessivamente in euro 5.100, oltre a spese generali in misura del
15%, IVA e CPA.

Il Consigliere estensore

Il Presidente

Antonio Costanthat-

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Così deciso il 29/03/2018.

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