Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 17453 del 30/01/2018


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Penale Sent. Sez. 1 Num. 17453 Anno 2018
Presidente: SARNO GIULIO
Relatore: CENTOFANTI FRANCESCO

SENTENZA
sui ricorsi proposti da:
SIMEOLI BENEDETTO nato il 06/01/1975 a NAPOLI
SIMEOLI LUIGI nato il 06/05/1973 a NAPOLI

avverso l’ordinanza del 12/06/2017 del TRIBUNALE di NAPOLI
sentita la relazione svolta dal Consigliere FRANCESCO CENTOFANTI;
udite le conclusioni del Pubblico ministero, in persona del Sostituto Procuratore
generale FRANCESCO MAURO IACOVIELLO, che ha chiesto dichiararsi
inammissibili i ricorsi;
Udito il difensore, che ha concluso chiedendo l’accoglimento dei ricorsi.

Data Udienza: 30/01/2018

RITENUTO IN FATTO

1. Il Tribunale di Napoli, in sede di appello ai sensi dell’art. 310 cod. proc.
pen., con l’ordinanza in epigrafe confermava la decisione del medesimo Ufficio,
adottata il 22 marzo 2017, con cui era stata respinta l’istanza di revoca della
misura della custodia cautelare in carcere, in atto nei confronti di Benedetto
Simeoli e Luigi Simeoli.
Costoro, nell’ottobre 2016, erano stati condannati in primo grado in

detentiva di sedici anni di reclusione il primo imputato (cui era stato anche
riconosciuto il ruolo di organizzatore), a quella di tredici anni il secondo.

2. Il Tribunale riteneva, con il primo giudice, che non fossero emersi fatti
nuovi, tali da modificare il quadro delle esigenze cautelari.
Non era infatti emersa alcuna prova di avvenuta rescissione del vincolo
associativo, in positivo accertato sino al momento dell’esecuzione dell’originaria
ordinanza restrittiva (ottobre 2013).
Era vero che, già prima, si era determinato un contrasto di natura
economica, non più risolto, tra il clan capeggiato da Giuseppe Polverino ed i
Simeoli (gli attuali imputati, Benedetto e Luigi, ed il padre Antonio), ma
quest’ultimo si inseriva nelle normali dinamiche di potere, interne al pactum
societatis reciprocamente stretto, e da ciò non si poteva inferire alcun diminuito
loro coinvolgimento nelle dinamiche medesime (rese anzi semmai ancora più
attuali), che – secondo quanto in giudizio dichiarato dai collaboratori Perrone, Di
Lanno e Pirozzi – sin dalla fine degli anni ’80 avevano visto il perverso intreccio
tra le loro attività imprenditoriali e gli interessi economici camorristici.
Le diverse società, messe in piedi da Antonio Simeoli, e poi gestite anche dai
figli, erano largamente finanziate con capitali elargiti da Polverino, il cui clan
beneficiava di quota parte rilevante degli ingenti conseguenti guadagni.
Benedetto e Luigi Simeoli avevano perciò assunto importanza in seno alla
consorteria, acquisendo sempre maggiore potere decisionale.
Tale ruolo non era scalfito dalla sopravvenuta carcerazione. Le spregiudicate
modalità del loro pregresso, ma recente, agire, nonché la professionalità delle
condotte poste a base della condanna, protratte da lungo tempo e sin da
giovanissima età, radicavano nell’attualità e nella concretezza il giudizio di
pericolosità sociale, in nessun caso comunque consentendo di superare la duplice
presunzione di cui all’art. 275, comma 3, cod. proc. pen., in punto di sussistenza
delle esigenze di cautela, e di adeguatezza della sola misura carceraria
(quest’ultima avente carattere assoluto).

2

relazione al delitto di associazione per delinquere di stampo mafioso; alla pena

3. Ricorrono per cassazione entrambi gli imputati, tramite i rispettivi
difensori di fiducia, con atti distinti ma dal contenuto pressoché identico.
I ricorrenti, con unico articolato motivo, denunciano la violazione degli artt.
274, comma 1, lett. c), e 275, comma 3, cod. proc. pen., nonché la mancanza e
manifesta illogicità della motivazione, in ordine alla ritenuta sussistenza delle
esigenze cautelari ed alla relativa presunzione.
Assumono che, nell’appello, non era stato chiesto l’esame di elementi nuovi,

cautelare. Il racconto dei collaboratori di giustizia mostrerebbe come vi fosse
stata un’evoluzione nel rapporto tra i fratelli Simeoli ed il padre Antonio, e di
conseguenza con il clan Polverino, e come ogni legame fosse interrotto ancor
prima che venisse emessa l’ordinanza applicativa della misura cautelare
nell’anno 2013. Antonio Simeoli doveva soldi a Polverino e nel 2010 erano già in
corso azioni dirette al loro recupero; sicché Antonio, non per vincolo societario di
natura criminale, ma perché vittima di intimidazione ambientale, firmò cambiali
per 750.000 euro, che onorò mensilmente, estinguendo totalmente il debito
entro l’anno successivo.
Errato ed illogico sarebbe dunque dedurre l’attualità dei rapporti con il clan
dalle esistenti pendenze economiche. E viziata allo stesso modo sarebbe la
motivazione, nella parte fondante la permanenza del pericolo di reiterazione sulla
circostanza per cui Benedetto affiancava il padre nella gestione dell’impresa di
famiglia; circostanza non autonomamente sufficiente a dimostrare un legame tra
questi e Polverino (ed ancor meno a dimostrare il coinvolgimento ulteriore di
Luigi, allontanatosi già anni prima).
Vero sarebbe che Antonio Simeoli aveva affidato la titolarità solo formale
dell’impresa ai figli, senza mai perdere il controllo di fatto sulla stessa e
l’esclusivo potere decisionale, tant’è che fu lui a prendere ed attuare la decisione
di firmare le cambiali (Benedetto si era rifiutato ed il rapporto era entrato in crisi,
mentre Luigi non venne neppure consultato). Il legame con Polverino era solo
del padre, e in ogni caso esso era interrotto dal 2010. L’ordinanza impugnata
violerebbe il principio dell’imprescindibile personalizzazione dell’esame cautelare,
volgendo in malam partem verso i figli valutazioni che dovrebbero, se del caso,
riguardare il padre.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. il ricorso deve giudicarsi manifestamente infondato, e come tale (art.
606, comma 3, cod. proc. pen.) dichiararsi inammissibile.

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ma la valutazione di elementi preesistenti, reputati idonei a modificare il quadro

2. Costituisce ius receptum che, in sede di appello avverso l’ordinanza di
rigetto della richiesta di revoca di misura cautelare personale, il Tribunale non è
tenuto a riesaminare la sussistenza delle condizioni legittimanti il provvedimento
restrittivo, dovendosi limitare al controllo che l’ordinanza gravata sia
giuridicamente corretta e adeguatamente motivata in ordine ad eventuali allegati
nuovi fatti, preesistenti o sopravvenuti, idonei a modificare apprezzabilmente il
quadro probatorio o a escludere la sussistenza di esigenze cautelari; ciò in

provvedimento impugnato (da ultimo, Sez. 2, n. 18130 del 13/04/2016,
Antignano, Rv. 266676; Sez. 3, n. 43112 del 07/04/2015, C., Rv. 265569).
Occorre poi considerare non solo che la sopravvenienza di una sentenza di
condanna (per gli stessi fatti per i quali è stata applicata una misura cautelare
personale) preclude al giudice dell’appello incidentale de libertate la rivalutazione
della gravità indiziaria (in assenza di una diversa contestazione del fatto
addebitato e di nuovi elementi di fatto: Sez. 2, n. 5988 del 23/01/2014, Paolone,
Rv. 258209); ma gli preclude altresì la rivalutazione delle prove su cui la
condanna medesima è fondata, in senso contrastante con l’accertamento ivi
contenuto (questioni di questo tipo vanno proposte al giudice di appello nel
giudizio di merito: Sez. F, n. 41667 del 14/08/2013, Minasi, Rv. 257355).

3. E’ questa la ragione per cui nell’odierno giudizio cautelare non può essere
revocata in dubbio – neppure agli effetti riflessi della recisione dei legami, o
dell’allontanamento dal sodalizio di stampo mafioso – l’esistenza del vincolo
associativo, rispetto ad entrambi i fratelli (e non solo al padre), fino alla data
(2013) di esecuzione dell’ordinanza coercitiva genetica; come ritenuto in sede di
cognizione sul reato.
Che è invece ciò che gli odierni ricorsi – tramite una diversa interpretazione
del dato probatorio alla base della sentenza di condanna, che passa da una
rilettura largamente in fatto delle sottostanti risultanze – inammissibilmente
propongono.
L’estraneità dei figli alle scelte del padre (vero gestore delle aziende di
famiglia), da cui si prende distanza, e l’interruzione dei legami con il clan
Polverino almeno dal 2010/11 – se non, addirittura, il fatto che lo stesso padre
sarebbe vittima, piuttosto che co-protagonista, delle dinamiche di stampo
mafioso – sono circostanze dalle quali si vorrebbe inferire l’inattualità del vincolo
associativo, e quindi della pericolosità sociale; ma sono circostanze che
direttamente contrastano con l’accertamento di responsabilità contenuto nella

4

ragione dell’effetto devolutivo dell’impugnazione e della natura autonoma del

condanna, correttamente valorizzato nell’ordinanza impugnata al fine di ritenere
non superate le presunzioni ex art. 275, comma 3, cod. proc. pen.

4. Alla declaratoria di inammissibilità consegue, ai sensi dell’art. 616 cod.
proc. pen., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e per i profili di colpa correlati all’irritualità dell’impugnazione (Corte cost.,
sentenza n. 186 del 2000) – di una somma in favore della cassa delle ammende
nella misura che, in ragione delle questioni dedotte, si stima equo determinare,

La cancelleria curerà l’adempimento di cui all’art. 94, comma

1-ter, disp.

att. cod. proc. pen.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle
spese processuali e ciascuno al versamento della somma di euro duemila in
favore della cassa delle ammende. Dispone trasmettersi, a cura della cancelleria,

co
E
o

cc

copia del provvedimento al direttore dell’istituto penitenziario ai sensi dell’art.
94, comma 1-ter, disp. att. c.p.p.
Così deciso il 30/01/2018

per ciascuno dei ricorrenti, in duemila euro.

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