Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 1739 del 09/12/2013


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Penale Sent. Sez. 1 Num. 1739 Anno 2014
Presidente: CHIEFFI SEVERO
Relatore: ROCCHI GIACOMO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
PROCURATORE DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE
DI CATANIA
nei confronti di:
TOSTO GIOVANNI ANTONINO N. IL 15/03/1978
avverso l’ordinanza n. 689/2013 TRIB. LIBERTA’ di CATANIA, del
02/05/2013
senti a la relazione fatta dal Consigliere Dott. GIACOMO ROCCHI;
le e/sentite le conclusioni del PG Dott.

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Data Udienza: 09/12/2013

RITENUTO IN FATTO

1. Il Tribunale del riesame di Catania, con ordinanza del 3/5/2013,
provvedendo sulla richiesta di riesame proposta da Tosto Giovanni Antonino
avverso l’ordinanza del G.I.P. dello stesso Tribunale che aveva applicato nei suoi
confronti la misura della custodia cautelare in carcere, annullava l’ordinanza
impugnata.
Tosto è accusato di essere stato affiliato al clan mafioso Santapaola, facente

componevano l’associazione mafiosa.
Il Tribunale ricordava le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Sturiale
Eugenio, Riso Carmelo, Barbagallo Ignazio, Anselmi Nazareno e Laudani
Giuseppe, nonché i controlli nei quali Tosto era stato identificato insieme ad altri
affiliati e ancora le condanne definitive per estorsione e reati associativi.
Premettendo che la convergenza di plurime dichiarazioni di collaboratori che
si limitino ad affermare la generica conoscenza dell’appartenenza di un soggetto
ad un sodalizio criminoso non costituiscono un compendio indiziario
sufficientemente grave per l’adozione di una misura cautelare personale per
reato associativo, il Tribunale rilevava che Laudani ed Anselmi si limitavano ad
affermare l’appartenenza di Tosto al consesso mafioso, Anselmi aggiungendo
generici riferimenti ad incontri con il cognato Fosco Antonino per non meglio
specificate “questioni associative”; che il ricordo di Riso Carmelo era
assolutamente generico; che Barbagallo si era limitato a definire Tosto una
persona conosciuta in ambito associativo, vicina a Tudisco Santo, senza
attribuirgli un ruolo effettivo nel sodalizio, osservando che l’episodio del furto
delle autovetture narrato da Barbagallo non dimostrava l’appartenenza di Tosto
al gruppo mafioso; che le dichiarazioni di Sturiale Eugenio non si ancoravano a
riferimenti concreti a fatti e a condotte, tenuto conto del lungo periodo di
detenzione cui Tosto era stato sottoposto.
In definitiva, non sussisteva la condizione di gravità indiziaria richiesta per
l’applicazione di una misura cautelare.

2. Ricorre per cassazione il Procuratore Distrettuale presso il Tribunale di
Catania – DDA – deducendo violazione di legge e vizio di motivazione.
Essendo il thema probandum la stabile e volontaria compenetrazione di
Tosto nel tessuto organizzativo del sodalizio, non era necessaria la prova di
specifici atti esecutivi della condotta criminosa.
Il quadro era grave e il Tribunale aveva omesso di motivare sulla irrilevanza
della perfetta convergenza dei cinque collaboratori di giustizia in ordine

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parte di Cosa Nostra, ed in particolare al gruppo di Picanello, uno di quelli che

all’affiliazione del Tosto, presente nonostante alcuni collaboratori facessero parte
di altri clan, nonché sulle frequentazioni dell’indagato.
In particolare, secondo il ricorrente, la motivazione era illogica quando
riteneva che fossero necessarie ulteriori specificazioni in ordine a condotte
concrete poste in essere dall’indagato: motivazione che, sul piano logico, si pone
in contrasto con la stessa ratio della norma incriminatrice, che parte dal dato di
comune esperienza per cui la condizione di assoggettamento e omertà effetto
della presenza di un’associazione mafiosa discende dallo stesso vincolo

Il Tribunale non aveva tenuto conto che ciascun componente di un gruppo
mafioso ha la necessità di conoscere quali siano gli altri associati e i soggetti
facenti parte di altri clan né del riconoscimento fotografico dell’indagato e
dell’esatta indicazione del nome, cosicché nessun errore di individuazione era
possibile; dell’inesistenza del pericolo di calunnia; della diretta conoscenza delle
circostanze riferite per la maggior parte dei collaboratori di giustizia.
La motivazione partiva, poi, dal presupposto indimostrato che il clan
Santapaola fosse organizzato secondo una rigida gerarchia, con ripartizione
interna di ruoli e competenze, dato che le indagini e le sentenze avevano escluso
per i meri partecipi.
Il Tribunale, infine, non aveva adeguatamente valutato la rilevanza del
periodo di detenzione.
Il ricorrente conclude per l’annullamento dell’ordinanza impugnata.

CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è inammissibile.

1. Si deve, innanzitutto, escludere che il Tribunale sia incorso nella
violazione di legge denunciata.
Secondo il P.M., la motivazione dell’ordinanza impugnata non sarebbe
“conforme al dettato degli artt. 273 e 192 cod. proc. pen., così come
puntualizzato dalla ormai consolidata giurisprudenza di legittimità”. La censura è
sviluppata nel prosieguo del ricorso, quando si denuncia la violazione dell’art.
192 cod. proc. pen. perché il Tribunale, nel valutare il compendio indiziario, non
lo avrebbe considerato grave perché non avrebbe “apprezzato la perfetta
convergenza dei collaboranti (due dei quali appartenenti all’alleato clan Laudani)
sull’appartenenza del Tosto alla famiglia Santapaola e al gruppo di Picanello”.

Il ricorso è frutto, in questi passaggi, di un errore di impostazione.

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associativo e dalla sua ostentazione in un determinato centro.

La previsione dell’art. 192, comma 3, cod. proc. pen. – secondo cui le
dichiarazioni rese dal coimputato del medesimo reato o da persona imputata in
un provvedimento connesso a norma dell’art. 12 sono valutate unitamente agli
altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità – è una norma di tutela
dell’indagato o dell’imputato rispetto a dichiarazioni di collaboratori di giustizia
che lo accusano che non permette affatto un’applicazione contro i soggetti che
vuole tutelare.
Il ricorso, cioè, implicitamente sostiene che la giurisprudenza di questa

automatico” per cui, se le dichiarazioni dei collaboratori sono convergenti o
comunque riscontrate, gli indizi devono considerarsi “gravi” ai sensi dell’art. 273
cod. proc. pen..
Per di più, il giudice sarebbe obbligato a considerarli gravi, anche se le
dichiarazioni dei collaboratori o l’elemento di riscontro individualizzante non
riguardano singole attività attribuite all’accusato, giacché il “fatto” da dimostrare
non è il singolo comportamento dell’associato bensì la sua appartenenza al
sodalizio (questo di qui il richiamo alle sentenze di questa Corte Sez. 2, n. 23687
del 03/05/2012 – dep. 14/06/2012, D’Ambrogio e altri, e Sez. 1, n. 29770 del
24/03/2009 – dep. 17/07/2009, Vernengo e altri).

Ma la norma in questione non introduce alcuna “simmetria”: essa pone un
limite minimo, al di sotto del quale le dichiarazioni del collaboratore sono, per
volontà del legislatore,

considerate insufficienti; quando questo limite è

raggiunto, il giudice non ha alcun obbligo, se non quello di dare conto nella
motivazione, dei risultati acquisiti e dei criteri adottati.
In definitiva: la violazione di legge può essere ritenuta sussistente se le
dichiarazioni dei collaboratori vengono valutate pur in assenza di altri elementi
che ne confermano l’attendibilità, ma non se, pur in presenza di tali elementi, il
Giudice del merito ritiene che gli indizi non siano gravi.

2. Se, quindi, l’unica censura ipotizzabile concerne la motivazione
dell’ordinanza impugnata, le considerazioni svolte nel ricorso dimostrano la sua
inammissibilità.

Occorre ribadire che il sindacato del giudice di legittimità sulla motivazione
del provvedimento impugnato deve essere volto a verificare che quest’ultima: a)
sia “effettiva”, ovvero realmente idonea a rappresentare le ragioni che il
giudicante ha posto a base della decisione adottata; b) non sia “manifestamente
illogica”, perché sorretta, nei suoi punti essenziali, da argomentazioni non viziate

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Corte formatasi su questo tema abbia introdotto una sorta di “meccanismo

da evidenti errori nell’applicazione delle regole della logica; c) non sia
internamente “contraddittoria”, ovvero esente da insormontabili incongruenze
tra le sue diverse parti o da inconciliabilità logiche tra le affermazioni in essa
contenute; d) non risulti logicamente “incompatibile” con “altri atti del processo”
(indicati in termini specifici ed esaustivi dal ricorrente nei motivi posti a sostegno
del ricorso) in misura tale da risultarne vanificata o radicalmente inficiata sotto il
profilo logico.
Non è, dunque, sufficiente che gli atti del processo invocati dal ricorrente

giudicante o con la sua ricostruzione complessiva e finale dei fatti e delle
responsabilità né che siano astrattamente idonei a fornire una ricostruzione più
persuasiva di quella fatta propria dal giudicante. Ogni giudizio, infatti, implica
l’analisi di un complesso di elementi di segno non univoco e l’individuazione, nel
loro ambito, di quei dati che – per essere obiettivamente più significativi, coerenti
tra loro e convergenti verso un’unica spiegazione – sono in grado di superare
obiezioni e dati di segno contrario, di fondare il convincimento del giudice e di
consentirne la rappresentazione, in termini chiari e comprensibili, ad un pubblico
composto da lettori razionali del provvedimento. È, invece, necessario che gli atti
del processo richiamati dal ricorrente per sostenere l’esistenza di un vizio della
motivazione siano autonomamente dotati di una forza esplicativa o dimostrativa
tale che la loro rappresentazione sia in grado di disarticolare l’intero
ragionamento svolto dal giudicante e determini al suo interno radicali
incompatibilità, così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua o
contraddittoria la motivazione.
Al giudice di legittimità resta, infatti, preclusa, in sede di controllo sulla
motivazione, la pura e semplice rilettura degli elementi di fatto posti a
fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di
ricostruzione e valutazione dei fatti, preferiti a quelli adottati dal giudice di
merito, perché ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità
esplicativa. Queste operazioni trasformerebbero, infatti, la Corte nell’ennesimo
giudice del fatto e le impedirebbero di svolgere la peculiare funzione assegnatale
dal legislatore di organo deputato a controllare che la motivazione dei
provvedimenti adottati dai giudici di merito rispetti sempre uno standard di
intrinseca razionalità e di capacità di rappresentare e spiegare l’iter logico
seguito dal giudice per giungere alla decisione (Sez. 1, n. 41738 del 19/10/2011
– dep. 15/11/2011, Pmt in proc. Longo, Rv. 251516).

Nel caso in esame, il P.M. ricorrente sostiene che il Tribunale avrebbe
omesso di motivare sulla irrilevanza della convergenza delle dichiarazioni dei

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siano semplicemente “contrastanti” con particolari accertamenti e valutazioni del

collaboratori quanto alla partecipazione di Tosto al clan Santapaola, nonché delle
numerose frequentazioni dello stesso con altri affiliati. In realtà, tale omissione
non sussiste: alla luce del principio posto dalla sentenza Sez. 6, n. 40520 del
25/10/2011 (dep. 08/11/2011, Falcone, Rv. 251063), il Tribunale prende atto
della predetta convergenza, ma la ritiene insufficiente alla luce della genericità
delle dichiarazioni, analizzando ciascuna di esse e valutandola, anche con
riferimento alle scarse specificazioni fornite dai collaboratori; quanto alle

Né la motivazione adottata dal Tribunale può ritenersi illogica.
Il P.M. vuole, in realtà, che si affermi il principio di diritto opposto: che cioè
sono sufficienti, ai fini della sussistenza di gravi indizi del delitto di cui all’art.
416 bis cod. pen., plurime chiamate in correità allorché si sostanziano nel
riconoscimento in foto e nell’affermazione di appartenenza di taluno al clan. Ma
anche successivamente alla sentenza richiamata dal Tribunale, questa Corte ha
ribadito che plurime, attendibili e convergenti dichiarazioni di collaboranti di
giustizia che si limitino ad affermare la generica appartenenza di un soggetto ad
un’associazione di stampo mafioso sono idonee a configurare i gravi indizi di
colpevolezza necessari per l’emissione di una misura cautelare solo quando
almeno una di esse indichi specifici atti o comportamenti che, se pure non
necessariamente forniti di autonoma rilevanza penale, comunque siano indicativi
del consapevole apporto dell’accusato al perseguimento degli interessi della
consorteria (Sez. 6, n. 38117 del 09/07/2013 – dep. 17/09/2013, Fusco, Rv.
256334).

Le ulteriori considerazioni del ricorrente non dimostrano affatto la manifesta
illogicità della motivazione dell’ordinanza impugnata.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso.

Così deciso il 9 dicembre 2013

Il Consigliere estensore

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Il Presidente

frequentazioni segnalate dal P.M., il ricorrente non ne spiega la valenza decisiva.

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