Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 1737 del 09/12/2013


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Penale Sent. Sez. 1 Num. 1737 Anno 2014
Presidente: CHIEFFI SEVERO
Relatore: ROCCHI GIACOMO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
PROCURATORE DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE
DI CATANIA
nei confronti di:
D’ARRIGO ANTONIO N. IL 10/07/1976
avverso l’ordinanza n. 737/2013 TRIB. LIBERTA’ di CATANIA, del
06/05/2013
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. GIACOMO ROCCHI;
(e/sentite le conclusioni del PQ Dott. 1–ziorg.\c:.

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Data Udienza: 09/12/2013

RITENUTO IN FATTO

1. Con ordinanza dell’8/5/2013, il Tribunale di Catania, provvedendo sulla
richiesta di riesame proposta da D’Arrigo Antonio avverso l’ordinanza del G.I.P.
dello stesso Tribunale che applicava nei suoi confronti la misura della custodia
cautelare in carcere, annullava il provvedimento impugnato.
D’Arrigo è indagato del reato di cui all’art. 416 bis cod. pen. per aver fatto
parte del clan mafioso Santapaola, affiliato a Cosa Nostra ed, in particolare, del
gruppo di Picanello, uno di quelli che componeva l’associazione mafiosa.

per mancata trasmissione del verbale delle dichiarazioni del collaboratore di
giustizia Sciacca Salvatore, il Tribunale riteneva insussistenti i gravi indizi di
colpevolezza. In particolare, gli unici collaboratori di giustizia che avevano riferito
del D’Arrigo, Sciacca Salvatore e Riso Carmelo, concordavano esclusivamente
sull’affiliazione dello stesso al gruppo di Picanello, senza tuttavia l’attribuzione di
specifici fatti e/o comportamenti aventi valenza associativa tali da corroborare
l’indicazione dell’affiliazione.
Le indicazioni sui furti e sullo stipendio percepito riferiti da Sciacca erano in
parte errati, in parte non riscontrati e in parte provenienti da notizie de relato
senza specificazione della fonte di conoscenza (Sciacca non faceva parte del
gruppo di Picanello); Riso, da parte sua, si era limitato a confermare l’affiliazione
di D’Arrigo, aggiungendo di “ritenere che si occupasse di estorsioni e rapine”.
Si trattava, in definitiva, di indicazioni generiche e prive di dettaglio e quindi
non idonee a suffragare un giudizio di qualificata gravità indiziaria in ordine
all’appartenenza di D’Arrigo al gruppo.
Il quadro indiziario era, quindi, serio, ma non grave.

2. Ricorre per cassazione il Procuratore distrettuale della Repubblica presso
la Procura di Catania – DDA – deducendo violazione di legge e vizio di
motivazione.
Se il thema pro bandum è la stabile e volontaria compenetrazione del
D’Arrigo nel tessuto organizzativo, era sufficiente la semplice e permanente
offerta di contributo anche materiale, a prescindere dalla prova di specifici atti
esecutivi della condotta criminosa.
Il Tribunale non aveva apprezzato la perfetta convergenza dei collaboratori
di giustizia sull’appartenenza di D’Arrigo al clan Santapaola, nel gruppo di
Picanello, circostanza particolarmente significativa tenuto conto che i due
collaboratori non avevano avuto contatti tra loro. Il Tribunale aveva, altresì,
omesso di considerare le numerose frequentazioni dell’indagato con esponenti

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Respinta l’eccezione difensiva di perdita di efficacia della misura cautelare

dell’organizzazione.
Illogica era la motivazione in ordine alla mancanza di riscontri sui furti
commessi da Sciacca insieme a D’Arrigo, che non poteva influire sull’attendibilità
del collaboratore; illogica la valutazione della portata dell’affermazione di Sciacca
in ordine alla percezione di uno stipendio da parte di D’Arrigo, tenuto conto che i
due soggetti si conoscevano direttamente; giustificate dall’appartenenza ad un
diverso gruppo erano le indicazioni generiche di Riso Carmelo.

CONSIDERATO IN DIRITTO

Il ricorso è inammissibile.

1. Si deve, innanzitutto, escludere che il Tribunale sia incorso nella
violazione di legge denunciata.
Secondo il P.M., la motivazione dell’ordinanza impugnata non sarebbe
“conforme al dettato degli artt. 273 e 192 cod. proc. pen., così come
puntualizzato dalla ormai consolidata giurisprudenza di legittimità”. La censura è
sviluppata nel prosieguo del ricorso, quando si denuncia la violazione dell’art.
192 cod. proc. pen. perché il Tribunale, nel valutare il compendio indiziario, non
lo avrebbe considerato grave perché non avrebbe “apprezzato la perfetta
convergenza dei collaboranti sull’appartenenza del D’Arrigo alla famiglia
Santapaola, al gruppo di Picanello”.

Il ricorso è frutto, in questi passaggi, di un errore di impostazione.
La previsione dell’art. 192, comma 3, cod. proc. pen. – secondo cui le
dichiarazioni rese dal coimputato del medesimo reato o da persona imputata in
un provvedimento connesso a norma dell’art. 12 sono valutate unitamente agli
altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità – è una norma di tutela
dell’indagato o dell’imputato rispetto a dichiarazioni di collaboratori di giustizia
che lo accusano che non permette affatto un’applicazione contro i soggetti che
vuole tutelare.
Il ricorso, cioè, implicitamente sostiene che la giurisprudenza di questa
Corte formatasi su questo tema abbia introdotto una sorta di “meccanismo
automatico” per cui, se le dichiarazioni dei collaboratori sono convergenti o
comunque riscontrate, gli indizi devono considerarsi “gravi” ai sensi dell’art. 273
cod. proc. pen..
Per di più, il giudice sarebbe obbligato a considerarli gravi, anche se le
dichiarazioni dei collaboratori o l’elemento di riscontro individualizzante non

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Il ricorrente conclude per l’annullamento dell’ordinanza impugnata.

riguardano singole attività attribuite all’accusato, giacché il “fatto” da dimostrare
non è il singolo comportamento dell’associato bensì la sua appartenenza al
sodalizio (questo di qui il richiamo alle sentenze di questa Corte Sez. 2, n. 23687
del 03/05/2012 – dep. 14/06/2012, D’Ambrogio e altri, e Sez. 1, n. 29770 del
24/03/2009 – dep. 17/07/2009, Vernengo e altri).

Ma la norma in questione non introduce alcuna “simmetria”: essa pone un
limite minimo, al di sotto del quale le dichiarazioni del collaboratore sono, per
considerate insufficienti; quando questo limite è

raggiunto, il giudice non ha alcun obbligo, se non quello di dare conto nella
motivazione, dei risultati acquisiti e dei criteri adottati.
In definitiva: la violazione di legge può essere ritenuta sussistente se le
dichiarazioni dei collaboratori vengono valutate pur in assenza di altri elementi
che ne confermano l’attendibilità, ma non se, pur in presenza di tali elementi, il
Giudice del merito ritiene che gli indizi non siano gravi.

2. Se, quindi, l’unica censura ipotizzabile concerne la motivazione
dell’ordinanza impugnata, le considerazioni svolte nel ricorso dimostrano la sua
inammissibilità.

Occorre ribadire che il sindacato del giudice di legittimità sulla motivazione
del provvedimento impugnato deve essere volto a verificare che quest’ultima: a)
sia “effettiva”, ovvero realmente idonea a rappresentare le ragioni che il
giudicante ha posto a base della decisione adottata; b) non sia “manifestamente
illogica”, perché sorretta, nei suoi punti essenziali, da argomentazioni non viziate
da evidenti errori nell’applicazione delle regole della logica; c) non sia
internamente “contraddittoria”, ovvero esente da insormontabili incongruenze
tra le sue diverse parti o da inconciliabilità logiche tra le affermazioni in essa
contenute; d) non risulti logicamente “incompatibile” con “altri atti del processo”
(indicati in termini specifici ed esaustivi dal ricorrente nei motivi posti a sostegno
del ricorso) in misura tale da risultarne vanificata o radicalmente inficiata sotto il
profilo logico.
Non è, dunque, sufficiente che gli atti del processo invocati dal ricorrente
siano semplicemente “contrastanti” con particolari accertamenti e valutazioni del
giudicante o con la sua ricostruzione complessiva e finale dei fatti e delle
responsabilità né che siano astrattamente idonei a fornire una ricostruzione più
persuasiva di quella fatta propria dal giudicante. Ogni giudizio, infatti, implica
l’analisi di un complesso di elementi di segno non univoco e l’individuazione, nel
loro ambito, di quei dati che – per essere obiettivamente più significativi, coerenti

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volontà del legislatore,

tra loro e convergenti verso un’unica spiegazione – sono in grado di superare
obiezioni e dati di segno contrario, di fondare il convincimento del giudice e di
consentirne la rappresentazione, in termini chiari e comprensibili, ad un pubblico
composto da lettori razionali del provvedimento. È, invece, necessario che gli atti
del processo richiamati dal ricorrente per sostenere l’esistenza di un vizio della
motivazione siano autonomamente dotati di una forza esplicativa o dimostrativa
tale che la loro rappresentazione sia in grado di disarticolare l’intero
ragionamento svolto dal giudicante e determini al suo interno radicali
incompatibilità, così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua o

Al giudice di legittimità resta, infatti, preclusa, in sede di controllo sulla
motivazione, la pura e semplice rilettura degli elementi di fatto posti a
fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di
ricostruzione e valutazione dei fatti, preferiti a quelli adottati dal giudice di
merito, perché ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità
esplicativa. Queste operazioni trasformerebbero, infatti, la Corte nell’ennesimo
giudice del fatto e le impedirebbero di svolgere la peculiare funzione assegnatale
dal legislatore di organo deputato a controllare che la motivazione dei
provvedimenti adottati dai giudici di merito rispetti sempre uno standard di
intrinseca razionalità e di capacità di rappresentare e spiegare l’iter logico
seguito dal giudice per giungere alla decisione (Sez. 1, n. 41738 del 19/10/2011
– dep. 15/11/2011, Pmt in proc. Longo, Rv. 251516).

Nel caso di specie, il P.M. ricorrente: a) sostiene che il Tribunale avrebbe
omesso di valorizzare la “perfetta” convergenza tra i due collaboratori di
giustizia: in realtà il Tribunale ha preso atto delle dichiarazioni dei due
collaboratori e le ha valutate, come era doveroso fare, senza fermarsi al dato significativo, ma non certo l’unico da prendere in considerazione – della
convergenza (in realtà, difficilmente qualificabile come “perfetta”) tra le stesse;
b) sostiene che il Tribunale avrebbe omesso di motivare sul dato delle
frequentazioni di D’Arrigo: in niente dimostrando che le stesse costituiscano un
dato decisivo; c) contesta la valutazione di inattendibilità di Sciacca basata sul
mancato riscontro all’affermazione di avere compiuto furti con D’Arrigo: ma il
dato non è negato dal ricorrente, che non dimostra perché la valutazione del
Tribunale sarebbe illogica; per di più – sempre con riferimento alla valutazione di
inattendibilità di Sciacca – il ricorrente tace sulla valorizzazione da parte del
Tribunale di un dato riferito dal collaboratore, quello dell’arresto congiunto di
D’Arrigo e Salemi Carmelo, dato risultato errato; d) sostiene che il Tribunale
avrebbe illogicamente ritenuto che le informazioni di Sciacca sullo stipendio

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contraddittoria la motivazione.

percepito da D’Arrigo dall’associazione fossero

de relato, osservando che “la

diretta conoscenza tra Sciacca e D’Arrigo … implica

ragionevolmente che la

conoscenza derivi direttamente dall’indagato: quindi, in questo caso, la illogicità
della valutazione del Tribunale deriverebbe da un dato che lo stesso ricorrente
ritiene probabile!

Risulta evidente, in definitiva, che il ricorrente introduce considerazioni in
fatto, sollecitando una diversa valutazione del materiale probatorio da parte di

convincenti.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso.

Così deciso il 9 dicembre 2013

Il Consigliere estensore

Il Presidente

questa Corte, avanzando, per di più, considerazioni parziali e niente affatto

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