Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 1736 del 09/12/2013


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Penale Sent. Sez. 1 Num. 1736 Anno 2014
Presidente: CHIEFFI SEVERO
Relatore: ROCCHI GIACOMO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
PROCURATORE DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE
DI CATANIA
nei confronti di:
BATTAGLIA MARCO N. IL 01/03/1969
avverso l’ordinanza n. 780/2013 TRIB. LIBERTA ‘ di CATANIA, del
06/05/2013
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. GIACOMO ROCCHI;
15ge/sentite le conclusioni del PG Dott.

prep,

Ys›< \s-)4~,41‘ t orN, Udit ildifenso&Avvg~ Data Udienza: 09/12/2013 . RITENUTO IN FATTO 1. Con ordinanza del 9/5/2013, il Tribunale del riesame di Catania annullava l'ordinanza emessa dal G.I.P. dello stesso Tribunale che aveva applicato a Marco Battaglia la misura della custodia cautelare in carcere in relazione al reato di cui all'art. 416 bis cod. pen.. Secondo la contestazione, Battaglia faceva parte del "gruppo di Picanello", uno di quelli che componevano il clan mafioso Santapaola. conseguenza della mancata trasmissione del verbale delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Sciacca Salvatore, nel merito il Tribunale riteneva insussistenti i gravi indizi di colpevolezza. In effetti le convergenze dei collaboratori di giustizia (ben sette, alcuni facenti parte del clan Santapaola, altri di clan vicini o avversari) riguardavano soltanto il ruolo di Battaglia di capo di un'organizzazione dedita al traffico di sostanze stupefacenti, ruolo per il quale altro procedimento penale è in corso; al contrario la convergenza svaniva quanto al fatto che tale attività fosse svolta per conto del gruppo di Picanello del clan Santapaola. Deboli erano le dichiarazioni del collaboratore Scorciapino che, nel 2006, pur descrivendo l'attività di commercio di stupefacenti svolta dal Battaglia, non aveva fatto cenno ad una sua affiliazione al clan Santapaola, di cui aveva parlato solo nel 2011; altrettanto deboli le dichiarazioni di Eugenio Sturiale, le cui conoscenze si fermavano al 2002 e che aveva riferito notizie apprese de relato senza specificare la fonte di conoscenza; generiche le dichiarazioni di Sciacca Salvatore e D'Aquino Gaetano, che avevano, sì, riferito dell'affiliazione di Battaglia al clan Santapaola, ma Sciacca senza specificare il sottogruppo di appartenenza e D'Aquino indicando un sottogruppo diverso da quello di Picanello. Da parte sua Ignazio Barbagallo, soggetto di vertice del clan Santapaola, aveva negato l'affiliazione di Battaglia, così come Viola Salvatore, che lo aveva indicato come "vicino" al clan, ma non affiliato e operante nel settore degli stupefacenti in modo autonomo. Infine Nazareno Anselmi, affiliato al clan Laudani, aveva negato l'affiliazione di Battaglia al clan Santapaola, pur avendo sentito dire che era "vicino" al gruppo di Picanello. In definitiva, non sussistevano i gravi indizi di colpevolezza per il reato contestato. 2. Ricorre per cassazione il Procuratore Distrettuale della Repubblica presso il Tribunale di Catania - DDA - deducendo violazione di legge e vizio della 2 Respinta l'eccezione difensiva della perdita di efficacia della misura in motivazione. La valutazione del compendio indiziario non era conforme al dettato degli artt. 192 e 273 cod. proc. pen.. Il Tribunale non aveva tenuto conto che tutti i collaboratori di giustizia avevano riconosciuto in fotografia il Battaglia. Il ricorrente contesta, poi, specificamente la valutazione di inattendibilità espressa dal Tribunale rispetto a Scorciapino Ettore (al quale, nel 2006, non era stato chiesto di riferire su Battaglia), di Sturiale, che aveva conoscenze dirette, di D'Aquino e Sciacca, per i quali la valutazione di inattendibilità non era motivata; inoltre sostiene essere Nazareno Anselmi e Ignazio Barbagallo. In definitiva, secondo il ricorrente, il Giudice non aveva attribuito adeguato rilievo alla capacità dimostrativa, ai fini del thema probandum, della convergenza delle dichiarazioni rese da cinque collaboratori di giustizia. Il ricorrente conclude per l'annullamento dell'ordinanza impugnata. 3. Il difensore di Battaglia ha depositato memoria con cui chiede dichiararsi inammissibile o rigettarsi il ricorso. CONSIDERATO IN DIRITTO Il ricorso è inammissibile. 1. Si deve, innanzitutto, escludere che il Tribunale sia incorso nella violazione di legge denunciata. Secondo il P.M., la motivazione dell'ordinanza impugnata non sarebbe "conforme al dettato degli artt. 273 e 192 cod. proc. pen., così come puntualizzato dalla ormai consolidata giurisprudenza di legittimità". La censura è sviluppata nel prosieguo del ricorso, quando si denuncia la violazione dell'art. 192 cod. proc. pen. perché il Tribunale non avrebbe attribuito adeguato rilievo alla capacità dimostrativa della convergenza delle dichiarazioni rese da cinque collaboratori di giustizia, reciprocamente riscontrantisi, circa l'appartenenza dell'indagato all'associazione Santapaola - Ercolano. Il ricorso è frutto, in questi passaggi, di un errore di impostazione. La previsione dell'art. 192, comma 3, cod. proc. pen. - secondo cui le dichiarazioni rese dal coimputato del medesimo reato o da persona imputata in un provvedimento connesso a norma dell'art. 12 sono valutate unitamente agli altri elementi di prova che ne confermano l'attendibilità - è una norma di tutela dell'indagato o dell'imputato rispetto a dichiarazioni di collaboratori di giustizia 3 illogica e immotivata la sopravvalutazione del contenuto delle dichiarazioni di che lo accusano che non permette affatto un'applicazione contro i soggetti che vuole tutelare. Il ricorso, cioè, implicitamente sostiene che la giurisprudenza di questa Corte formatasi su questo tema abbia introdotto una sorta di "meccanismo automatico" per cui, se le dichiarazioni dei collaboratori sono convergenti o comunque riscontrate, gli indizi devono considerarsi "gravi" ai sensi dell'art. 273 cod. proc. pen.. limite minimo, al di sotto del quale le dichiarazioni del collaboratore sono, per volontà del legislatore, considerate insufficienti; quando questo limite è raggiunto, il giudice non ha alcun obbligo, se non quello di dare conto nella motivazione, dei risultati acquisiti e dei criteri adottati. In definitiva: la violazione di legge può essere ritenuta sussistente se le dichiarazioni dei collaboratori vengono valutate pur in assenza di altri elementi che ne confermano l'attendibilità, ma non se, pur in presenza di tali elementi, il Giudice del merito ritiene che gli indizi non siano gravi. 2. Se, quindi, l'unica censura ipotizzabile concerne la motivazione dell'ordinanza impugnata, le considerazioni svolte nel ricorso dimostrano la sua inammissibilità. Occorre ribadire che il sindacato del giudice di legittimità sulla motivazione del provvedimento impugnato deve essere volto a verificare che quest'ultima: a) sia "effettiva", ovvero realmente idonea a rappresentare le ragioni che il giudicante ha posto a base della decisione adottata; b) non sia "manifestamente illogica", perché sorretta, nei suoi punti essenziali, da argomentazioni non viziate da evidenti errori nell'applicazione delle regole della logica; c) non sia internamente "contraddittoria", ovvero esente da insormontabili incongruenze tra le sue diverse parti o da inconciliabilità logiche tra le affermazioni in essa contenute; d) non risulti logicamente "incompatibile" con "altri atti del processo" (indicati in termini specifici ed esaustivi dal ricorrente nei motivi posti a sostegno del ricorso) in misura tale da risultarne vanificata o radicalmente inficiata sotto il profilo logico. Non è, dunque, sufficiente che gli atti del processo invocati dal ricorrente siano semplicemente "contrastanti" con particolari accertamenti e valutazioni del giudicante o con la sua ricostruzione complessiva e finale dei fatti e delle responsabilità né che siano astrattamente idonei a fornire una ricostruzione più persuasiva di quella fatta propria dal giudicante. Ogni giudizio, infatti, implica 4 Ma la norma in questione non introduce alcuna "simmetria": essa pone un l'analisi di un complesso di elementi di segno non univoco e l'individuazione, nel loro ambito, di quei dati che - per essere obiettivamente più significativi, coerenti tra loro e convergenti verso un'unica spiegazione - sono in grado di superare obiezioni e dati di segno contrario, di fondare il convincimento del giudice e di consentirne la rappresentazione, in termini chiari e comprensibili, ad un pubblico composto da lettori razionali del provvedimento. È, invece, necessario che gli atti del processo richiamati dal ricorrente per sostenere l'esistenza di un vizio della motivazione siano autonomamente dotati di una forza esplicativa o dimostrativa ragionamento svolto dal giudicante e determini al suo interno radicali incompatibilità, così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua o contraddittoria la motivazione. Al giudice di legittimità resta, infatti, preclusa, in sede di controllo sulla motivazione, la pura e semplice rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, preferiti a quelli adottati dal giudice di merito, perché ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa. Queste operazioni trasformerebbero, infatti, la Corte nell'ennesimo giudice del fatto e le impedirebbero di svolgere la peculiare funzione assegnatale dal legislatore di organo deputato a controllare che la motivazione dei provvedimenti adottati dai giudici di merito rispetti sempre uno standard di intrinseca razionalità e di capacità di rappresentare e spiegare l'iter logico seguito dal giudice per giungere alla decisione (Sez. 1, n. 41738 del 19/10/2011 - dep. 15/11/2011, Pmt in proc. Longo, Rv. 251516). Il P.M. evidenzia il difetto di motivazione in vari passaggi dell'ordinanza impugnata ma, in realtà, si limita a sostenere l'erroneità della decisione del Tribunale di Catania e la maggiore plausibilità della tesi accusatoria. In particolare: a) la circostanza che tutti i collaboratori abbiano riconosciuto Battaglia non pare avere alcuna rilevanza particolare, tenuto conto che lo stesso è conosciuto per la sua attività di spaccio di stupefacenti; b) la valutazione delle dichiarazioni di Scorciapino è ritenuta mancante, ma il ricorrente ammette l'esattezza della circostanza valorizzata dal Tribunale (che cioè il collaboratore, nel 2006, non aveva affatto indicato Battaglia come partecipe all'associazione); c) legittima - alla luce del testo dell'interrogatorio riportato dal ricorrente appare la lettura da parte del Tribunale delle dichiarazioni di Sturiale come portatore di notizie apprese de relato, anche con riferimento alla sua affiliazione; d) la valutazione di inattendibilità - quanto all'affiliazione al clan - dei collaboratori Sciacca e D'Aquino è adeguatamente motivata; il ricorrente, per di 5 tale che la loro rappresentazione sia in grado di disarticolare l'intero più, ammette che D'Aquino aveva indicato che Battaglia faceva parte di un gruppo diverso da quello di Picanello, ma sostiene che ciò era giustificato dal fatto che egli faceva parte del clan Cappello: giustificazione legittima, ma che non dimostra affatto la manifesta illogicità della opposta valutazione da parte del Tribunale; e) analogamente deve dirsi quanto alle censure in ordine alla "sopravvalutazione" che il Tribunale avrebbe fatto delle dichiarazioni di Anselmi e Barbagallo: le argomentazioni del ricorrente confermano la discrasia riscontrata dal Tribunale e suggeriscono una diversa valutazione delle dichiarazioni dei due P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso. Così deciso il 9 dicembre 2013 Il Consigliere estensore Il Presidente collaboratori.

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