Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 1735 del 09/12/2013


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Penale Sent. Sez. 1 Num. 1735 Anno 2014
Presidente: CHIEFFI SEVERO
Relatore: ROCCHI GIACOMO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
BONNICI ALFIO N. IL 25/02/1977
avverso l’ordinanza n. 693/2013 TRIB. LIBERTA’ di CATANIA, del
06/05/2013
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. GIACOMO ROCCHI;
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/sentite le conclusioni del PG Dott. hpfp.:\
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Data Udienza: 09/12/2013

RITENUTO IN FATTO

1. Il Tribunale del riesame di Catania, con ordinanza del 6/5/2013,
provvedendo sulla richiesta di riesame proposta da Bonnici Alfio avverso
l’ordinanza del G.I.P. dello stesso Tribunale che applicava nei suoi confronti la
misura della custodia cautelare in carcere, confermava l’ordinanza impugnata,
escludendo l’aggravante di cui all’art. 416 bis, comma 2, cod. pen..
Bonnici è accusato di far parte della famiglia catanese di Cosa Nostra

Santapaola, fino all’aprile del 2010, nonché del delitto di cui agli artt. 81 cpv.
cod. pen. e 73 d.P.R. 309 del 1990, fino all’ottobre del 2009. Bonnici avrebbe
fatto parte di due gruppi: quello della Civita e quello operante nel territorio di
San Paolo e Gravina di Catania.
Il Tribunale ricordava le numerose condanne subite dell’indagato, nonché le
dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Pappalardo Filippo Santo, Barbagallo
Ignazio, Scollo Antonino e La Causa Santo, nonché i controlli subiti nell’arco di
tempo dal 2002 al 2009 insieme ad altri affiliati della medesima organizzazione
criminale.
Le dichiarazioni dei collaboratori erano concordanti rispetto all’appartenenza
al clan Santapaola nei due gruppi sopra ricordati. I collaboratori di giustizia
erano ritenuti attendibili ed esistevano riscontri esterni. In particolare, La Causa
aveva spiegato che la costituzione del gruppo della Civita era recente; le
propalazioni di Barbagallo lo riscontravano circa l’operatività in quel territorio
come appartenente al clan Santapaola, così come in ordine ai rapporti con
Puglisi, tramite Magrì Orazio.
Le informazioni riferite da Pappalardo riguardavano fatti più risalenti nel
tempo, mentre Scollo forniva un riscontro in ordine al fatto essenziale della
narrazione, cioè l’appartenenza al clan.
Il Tribunale riteneva, al contrario, che non esistessero riscontri
all’indicazione di un ruolo direttivo di Bonnici nell’articolazione territoriale
operante a San Paolo, di cui aveva riferito solo il collaboratore di giustizia La
Causa. Le dichiarazioni erano, infine, convergenti quanto all’attività di commercio
di sostanze stupefacenti.
Il Tribunale riteneva che unica misura adeguata fosse quella della custodia
cautelare in carcere.

2. Ricorre per cassazione il difensore di Bonnici Alfio, deducendo vizio di
motivazione.
La motivazione non aveva preso in alcun modo in considerazione la memoria

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promossa e diretta da Benedetto Santapaola, Aldo Ercolano e Vincenzo

difensiva e le precise contestazioni mosse.
In particolare, i controlli nei quali Bonnici era stato identificato insieme ad
altri presunti associati risalivano al 2007 e al 2009: in quelle occasioni Bonnici si
trovava insieme a Orazio Magrì, suo cognato.
Il Tribunale non aveva spiegato con quali modalità Bonnici avesse agevolato
l’associazione mafiosa, né quali reati fine avesse posto in essere. Il ricorrente,
nell’interrogatorio di garanzia, aveva giustificato con il legame di parentela i
rapporti con Magrì e Puglisi.

sodalizio criminale, della sua messa a disposizione del gruppo. L’ordinanza
impugnata si limitava a recepire pedissequamente le dichiarazioni dei pentiti
senza motivare le ragioni della loro credibilità e senza rispondere alle doglianze
della difesa. Il ricorrente sottolinea che il G.I.P. aveva emesso l’ordinanza
custodiale solo per i fatti successivi al 2007, proprio quelli per i quali il Tribunale
del riesame non aveva ritenuto riscontrate le dichiarazioni di La Causa.

In un secondo motivo il ricorrente deduce violazione di legge e vizio di
motivazione.
Il Tribunale del riesame non aveva tenuto conto delle due precedenti
assoluzioni di Bonnici dall’imputazione associativa; non aveva, poi, tenuto conto
che La Causa inizialmente non aveva indicato Bonnici come facente parte del
gruppo della Civita, ma aveva indicato Barbagallo Ignazio; quest’ultimo non
aveva, invece, riferito che Bonnici facesse parte del gruppo. D’altro canto, le
dichiarazioni di Scollo e Pappalardo si riferivano al periodo anteriore, quello per il
quale il G.I.P. non aveva emesso ordinanza cautelare.
Il ricorrente conclude per l’annullamento dell’ordinanza impugnata.

CONSIDERATO IN DIRITTO

Il ricorso è inammissibile.

Si deve dare atto che, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, il
Tribunale ha ampiamente valutato le censure mosse avverso l’ordinanza
applicativa della misura cautelare, come si evince chiaramente dall’ampia
esposizione dei motivi della richiesta di riesame.

Il ricorrente, in realtà, sollecita una nuova valutazione del merito da parte di
questa Corte, introducendo considerazioni in fatto che dimostrerebbero
l’erroneità della decisione assunta da parte del Tribunale: ma il sindacato del

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Nessuna prova era stata raggiunta della partecipazione di Bonnici al

giudice di legittimità sulla motivazione del provvedimento impugnato deve
essere volto a verificare che quest’ultima: a) sia “effettiva”, ovvero realmente
idonea a rappresentare le ragioni che il giudicante ha posto a base della
decisione adottata; b) non sia “manifestamente illogica”, perché sorretta, nei
suoi punti essenziali, da argomentazioni non viziate da evidenti errori
nell’applicazione delle regole della logica; c) non sia internamente
“contraddittoria”, ovvero esente da insormontabili incongruenze tra le sue
diverse parti o da inconciliabilità logiche tra le affermazioni in essa contenute; d)

termini specifici ed esaustivi dal ricorrente nei motivi posti a sostegno del
ricorso) in misura tale da risultarne vanificata o radicalmente inficiata sotto il
profilo logico.
Non è, dunque, sufficiente che gli atti del processo invocati dal ricorrente
siano semplicemente “contrastanti” con particolari accertamenti e valutazioni del
giudicante o con la sua ricostruzione complessiva e finale dei fatti e delle
responsabilità né che siano astrattamente idonei a fornire una ricostruzione più
persuasiva di quella fatta propria dal giudicante. Ogni giudizio, infatti, implica
l’analisi di un complesso di elementi di segno non univoco e l’individuazione, nel
loro ambito, di quei dati che – per essere obiettivamente più significativi, coerenti
tra loro e convergenti verso un’unica spiegazione – sono in grado di superare
obiezioni e dati di segno contrario, di fondare il convincimento del giudice e di
consentirne la rappresentazione, in termini chiari e comprensibili, ad un pubblico
composto da lettori razionali del provvedimento. È, invece, necessario che gli atti
del processo richiamati dal ricorrente per sostenere l’esistenza di un vizio della
motivazione siano autonomamente dotati di una forza esplicativa o dimostrativa
tale che la loro rappresentazione sia in grado di disarticolare l’intero
ragionamento svolto dal giudicante e determini al suo interno radicali
incompatibilità, così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua o
contraddittoria la motivazione.
Al giudice di legittimità resta, infatti, preclusa, in sede di controllo sulla
motivazione, la pura e semplice rilettura degli elementi di fatto posti a
fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di
ricostruzione e valutazione dei fatti, preferiti a quelli adottati dal giudice di
merito, perché ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità
esplicativa. Queste operazioni trasformerebbero, infatti, la Corte nell’ennesimo
giudice del fatto e le impedirebbero di svolgere la peculiare funzione assegnatale
dal legislatore di organo deputato a controllare che la motivazione dei
provvedimenti adottati dai giudici di merito rispetti sempre uno standard di
intrinseca razionalità e di capacità di rappresentare e spiegare l’iter logico

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non risulti logicamente “incompatibile” con “altri atti del processo” (indicati in

seguito dal giudice per giungere alla decisione (Sez. 1, n. 41738 del 19/10/2011
– dep. 15/11/2011, Pmt in proc. Longo, Rv. 251516).

In particolare, il ricorrente evidenzia che: a) Orazio Magri è suo cognato,
circostanza nota e considerata dal Tribunale, in realtà irrilevante (nel senso che il
rapporto di parentela non costituisce né un elemento indiziario a favore, né
contro l’indagato): ciò che rileva, nella motivazione dell’ordinanza impugnata, è il
ruolo che anche Magrì e Puglisi avevano all’interno dell’associazione criminosa;

l’associazione criminosa, affermazione smentita dalla lettura delle dichiarazioni
dei collaboratori, riportate nell’ordinanza impugnata, che al contrario descrivono
svariate attività illecite poste in essere dal ricorrente; non a caso, subito dopo il
ricorrente è costretto a fare riferimento all’attività di favoreggiamento della
latitanza di un affiliato, sostenendo che essa non costituirebbe un indizio della
partecipazione all’associazione, considerazione – questa sì – apodittica; c) che
Scollo era inverosimile quando sosteneva che Bonnici, benché affiliato, non
percepiva uno stipendio: trattasi di considerazione in fatto che, comunque,
riguarda le dichiarazioni di un solo collaboratore; d) che le dichiarazioni dei
collaboratori sono contraddittorie tra loro, mentre il Tribunale ha espresso la
convinzione opposta con motivazione niente affatto manifestamente illogica; e)
che la motivazione dell’ordinanza sarebbe illogica nel valutare le dichiarazioni di
La Causa che, in una prima dichiarazione, non aveva menzionato Bonnici tra gli
appartenenti al gruppo della Civita: in realtà l’ordinanza valuta tale dichiarazione
e la ritiene frutto di una dimenticanza, valutazione niente affatto illogica perché
giustificata dal complesso delle dichiarazioni di quel collaboratore, che dimostra
di ben conoscere Bonnici; f) che Barbagallo non avrebbe confermato le
dichiarazioni di La Causa: ma il Tribunale prende in considerazioni le
dichiarazioni di Barbagallo, evidenziando la sua vicinanza a Magrì e a Puglisi.

Alla declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione consegue ex lege, in
forza del disposto dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al
pagamento delle spese del procedimento ed al versamento della somma, tale
ritenuta congrua, di euro 1.000 (mille) in favore delle Cassa delle Ammende, non
esulando profili di colpa nel ricorso (v. sentenza Corte Cost. n. 186 del 2000).

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e al versamento della somma di euro 1.000 alla Cassa delle

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b) che non sarebbe spiegato con quali modalità Bonnici abbia agevolato

ammende.
Dispone trasmettersi, a cura della cancelleria, copia del provvedimento al
direttore dell’Istituto penitenziario, ai sensi dell’art. 94, comma 1-ter, disp. att.
cod. proc. pen.

Così deciso il 9 dicembre 2013

Il Presidente

Il Consigliere estensore

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