Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 1734 del 09/12/2013


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Penale Sent. Sez. 1 Num. 1734 Anno 2014
Presidente: CHIEFFI SEVERO
Relatore: ROCCHI GIACOMO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
PROCURATORE DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE
DI CATANIA
nei confronti di:
FIOCCO MAURIZIO N. IL 04/02/1970
avverso l’ordinanza n. 742/2013 TRIB. LIBERTA’ di CATANIA, del
08/05/2013
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. GIACOMO ROCCHI;
1 e/sentite le conclusioni del PG Dott.
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Data Udienza: 09/12/2013

RITENUTO IN FATTO

1.

Il Tribunale del riesame di Catania, con ordinanza dell’8/5/2013,

annullava quella del G.I.P. del Tribunale di Catania che aveva applicato a Fiocco
Maurizio la misura della custodia cautelare in carcere per il reato di cui all’art.
416 bis cod. pen., contestato per la partecipazione alla famiglia catanese di Cosa
Nostra promossa e diretta da Santapaola Benedetto, Ercolano Aldo e Santapaola
Vincenzo, fino all’aprile 2010.

Barbagallo Ignazio, Sciacca Salvatore e Riso Carmelo convergenti tra loro e
integranti la gravità indiziaria sull’appartenenza di Fiocco al “gruppo di Picanello”,
uno di quelli che componevano il clan.
Il Tribunale rinveniva, invece, una divergenza significativa nelle dichiarazioni
di Sciacca e Riso: solo il secondo affermava che le estorsioni compiute mediante
il sistema del furto d’auto e del “cavallo di ritorno” erano gestite nell’ambito
associativo; Sciacca, invece, aveva negato che Fiocco fosse affiliato al clan
Santapaola, riferendo che, al più, egli veniva utilizzato all’occorrenza dal clan per
compiere i furti d’auto. Il Tribunale riteneva maggiormente credibile Sciacca, in
quanto operante a stretto contatto con il gruppo di Picanello, mentre Riso aveva
militato in altro clan.
Da parte sua, Barbagallo Ignazio aveva sì, riconosciuto Fiocco e dichiarato
che esso apparteneva al clan Santapaola, ma non aveva saputo riferire alcunché
sulle sue mansioni; egli aveva affermato che forse Fiocco faceva parte del
gruppo di Picanello in quanto lo aveva incontrato in quel quartiere.
In definitiva, secondo il Tribunale solo Riso e Barbagallo attestavano
l’appartenenza di Fiocco al clan, ma si trattava di dichiarazioni generiche e prive
di dettaglio, non in grado, secondo il Tribunale di suffragare un giudizio di
gravità indiziaria dell’appartenenza al clan Santapaola. Il quadro indiziario
doveva ritenersi serio, ma non grave.

2. Ricorre per cassazione il Procuratore Distrettuale della Repubblica di
Catania – DDA – deducendo violazione di legge e vizio di motivazione.
Il thema probandum è la stabile e volontaria compenetrazione di Fiocco nel
tessuto organizzativo, anche a prescindere dalla prova di specifici atti esecutivi
della condotta criminosa. Questa Corte ha affermato che il fatto da riscontrare
non è il singolo comportamento del’associato, ma la sua appartenenza al
sodalizio, cosicché non rileva che le dichiarazioni dei collaboratori o l’elemento di
riscontro individualizzante non si riferiscano all’attività dell’accusato.
Il Tribunale aveva omesso di motivare sulla irrilevanza della perfetta

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Il G.I.P. aveva ritenuto le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia

convergenza delle dichiarazioni di Barbagallo e Riso, nonché sul dato di riscontro
delle numerose frequentazioni dell’indagato con esponenti dell’associazione.
La motivazione che aveva ritenuto maggiormente credibile Sciacca era
illogica, in quanto Barbagallo era partecipe dell’associazione e Riso vicino ad
essa.
Il ricorrente conclude per l’annullamento dell’ordinanza impugnata.

Il ricorso è inammissibile.

1. Si deve, innanzitutto, escludere che il Tribunale sia incorso nella
violazione di legge denunciata.
Secondo il P.M., la motivazione dell’ordinanza impugnata non sarebbe
“conforme al dettato degli artt. 273 e 192 cod. proc. pen., così come
puntualizzato dalla ormai consolidata giurisprudenza di legittimità”. La censura è
sviluppata nel prosieguo del ricorso, quando si denuncia la violazione dell’art.
192 cod. proc. pen. perché il Tribunale, nel valutare il compendio indiziario, non
lo avrebbe considerato grave perché non avrebbe “apprezzato la perfetta
convergenza dei collaboranti Barbagallo e Riso sull’appartenenza del Fiocco alla
famiglia Santapaola”.

Il ricorso è frutto, in questi passaggi, di un errore di impostazione.
La previsione dell’art. 192, comma 3, cod. proc. pen. – secondo cui le
dichiarazioni rese dal coimputato del medesimo reato o da persona imputata in
un provvedimento connesso a norma dell’art. 12 sono valutate unitamente agli
altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità – è una norma di tutela
dell’indagato o dell’imputato rispetto a dichiarazioni di collaboratori di giustizia
che lo accusano che non permette affatto un’applicazione contro i soggetti che
vuole tutelare.
Il ricorso, cioè, implicitamente sostiene che la giurisprudenza di questa
Corte formatasi su questo tema abbia introdotto una sorta di “meccanismo
automatico” per cui, se le dichiarazioni dei collaboratori sono convergenti o
comunque riscontrate, gli indizi devono considerarsi “gravi” ai sensi dell’art. 273
cod. proc. pen..
Per di più, il giudice sarebbe obbligato a considerarli gravi, anche se le
dichiarazioni dei collaboratori o l’elemento di riscontro individualizzante non
riguardano singole attività attribuite all’accusato, giacché il “fatto” da dimostrare
non è il singolo comportamento dell’associato bensì la sua appartenenza al

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CONSIDERATO IN DIRITTO

sodalizio (questo di qui il richiamo alle sentenze di questa Corte Sez. 2, n. 23687
del 03/05/2012 – dep. 14/06/2012, D’Ambrogio e altri, e Sez. 1, n. 29770 del
24/03/2009 – dep. 17/07/2009, Vernengo e altri).

Ma la norma in questione non introduce alcuna “simmetria”: essa pone un
limite minimo, al di sotto del quale le dichiarazioni del collaboratore sono, per
volontà del legislatore,

considerate insufficienti; quando questo limite è

raggiunto, il giudice non ha alcun obbligo, se non quello di dare conto nella

In definitiva: la violazione di legge può essere ritenuta sussistente se le
dichiarazioni dei collaboratori vengono valutate pur in assenza di altri elementi
che ne confermano l’attendibilità, ma non se, pur in presenza di tali elementi, il
Giudice del merito ritiene che gli indizi non siano gravi.

2. Se, quindi, l’unica censura ipotizzabile concerne la motivazione
dell’ordinanza impugnata, le considerazioni svolte nel ricorso dimostrano la sua
inammissibilità.

Occorre ribadire che il sindacato del giudice di legittimità sulla motivazione
del provvedimento impugnato deve essere volto a verificare che quest’ultima: a)
sia “effettiva”, ovvero realmente idonea a rappresentare le ragioni che il
giudicante ha posto a base della decisione adottata; b) non sia “manifestamente
illogica”, perché sorretta, nei suoi punti essenziali, da argomentazioni non viziate
da evidenti errori nell’applicazione delle regole della logica; c) non sia
internamente “contraddittoria”, ovvero esente da insormontabili incongruenze
tra le sue diverse parti o da inconciliabilità logiche tra le affermazioni in essa
contenute; d) non risulti logicamente “incompatibile” con “altri atti del processo”
(indicati in termini specifici ed esaustivi dal ricorrente nei motivi posti a sostegno
del ricorso) in misura tale da risultarne vanificata o radicalmente inficiata sotto il
profilo logico.
Non è, dunque, sufficiente che gli atti del processo invocati dal ricorrente
siano semplicemente “contrastanti” con particolari accertamenti e valutazioni del
giudicante o con la sua ricostruzione complessiva e finale dei fatti e delle
responsabilità né che siano astrattamente idonei a fornire una ricostruzione più
persuasiva di quella fatta propria dal giudicante. Ogni giudizio, infatti, implica
l’analisi di un complesso di elementi di segno non univoco e l’individuazione, nel
loro ambito, di quei dati che – per essere obiettivamente più significativi, coerenti
tra loro e convergenti verso un’unica spiegazione – sono in grado di superare
obiezioni e dati di segno contrario, di fondare il convincimento del giudice e di

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motivazione, dei risultati acquisiti e dei criteri adottati.

consentirne la rappresentazione, in termini chiari e comprensibili, ad un pubblico
composto da lettori razionali del provvedimento. È, invece, necessario che gli atti
del processo richiamati dal ricorrente per sostenere l’esistenza di un vizio della
motivazione siano autonomamente dotati di una forza esplicativa o dimostrativa
tale che la loro rappresentazione sia in grado di disarticolare l’intero
ragionamento svolto dal giudicante e determini al suo interno radicali
incompatibilità, così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua o
contraddittoria la motivazione.

motivazione, la pura e semplice rilettura degli elementi di fatto posti a
fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di
ricostruzione e valutazione dei fatti, preferiti a quelli adottati dal giudice di
merito, perché ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità
esplicativa. Queste operazioni trasformerebbero, infatti, la Corte nell’ennesimo
giudice del fatto e le impedirebbero di svolgere la peculiare funzione assegnatale
dal legislatore di organo deputato a controllare che la motivazione dei
provvedimenti adottati dai giudici di merito rispetti sempre uno standard di
intrinseca razionalità e di capacità di rappresentare e spiegare l’iter logico
seguito dal giudice per giungere alla decisione (Sez. 1, n. 41738 del 19/10/2011
– dep. 15/11/2011, Pmt in proc. Longo, Rv. 251516).

Nel caso di specie, il Tribunale ha valutato gli elementi probatori a
disposizione, giungendo a ritenere maggiormente attendibile un collaboratore
(Sciacca) rispetto ad un altro (Riso); alla luce della genericità delle dichiarazioni
di Riso e Barbagallo, ha concluso per la non gravità degli indizi, ben avendo
presente, peraltro, che l’alternativa non era tra Fiocco estraneo o intraneo alla
cosca, ma tra Fiocco, dedito ai furti delle autovetture nel quartiere di Picanello,
come partecipe alla cosca o saltuariamente utilizzato da essa.
Il P.M. ricorrente sostiene, invece, l’illogicità della maggiore attendibilità
attribuita alle dichiarazioni di Sciacca rispetto a quelle di Riso, senza fornire
alcun argomento a tale giudizio (salvo ritenere che l’argomento fosse quello che
Barbagallo e Riso, che affermano la partecipazione di Fiocco al clan sono due,
mentre Sciacca è solo uno …) e sostiene che il Tribunale avrebbe omesso di
valutare la convergenza tra le dichiarazioni di Barbagallo e Riso, ritenuta
“perfetta”: omissione inesistente, perché il Tribunale ha, invece, analizzato le
dichiarazioni, evidenziato che la convergenza tra Barbagallo e Riso non è affatto
“perfetta” e dato conto dei criteri adottati per ritenere gli indizi “seri”, ma non
“gravi”.

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Al giudice di legittimità resta, infatti, preclusa, in sede di controllo sulla

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso.

Così deciso il 9 dicembre 2013

Il Presidente

Il Consigliere estensore

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