Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 17180 del 06/03/2018


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Penale Sent. Sez. 1 Num. 17180 Anno 2018
Presidente: DI TOMASSI MARIASTEFANIA
Relatore: BIANCHI MICHELE

SENTENZA
sui ricorsi proposti da:
DE VIZIO LUIGI nato il 13/05/1990 a BENEVENTO
DE CAPUA ALFREDO nato il 10/07/1984 a BENEVENTO
PANDELEA CONSTANTIN DANIEL nato il 05/07/1993

avverso la sentenza del 06/12/2016 della CORTE ASSISE APPELLO di NAPOLI
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere MICHELE BIANCHI
Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore ROBERTO
ANIELLO
che ha concluso per il rigetto dei ricorsi.
Uditi i difensori:
l’avvocato REGARDI VINCENZO del foro di BENEVENTO , in difesa di DE CAPUA
ALFREDO, che conclude riportandosi alle conclusioni indicate nel ricorso;
l’avvocato (D’UFFICIO) TESTA GLORIA del foro di ROMA, in difesa di DE VIZIO
LUIGI, che conclude chiedendo l’annullamento della sentenza impugnata.

Data Udienza: 06/03/2018

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza pronunciata in data 6.12.2016 la Corte di assise di appello
di Napoli, in parziale riforma della sentenza pronunciata in data 4.6.2015 dal
giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Benevento, che aveva ritenuto
De Vizio Luigi, Mottola Giuseppe, De Capua Alfredo e Pandelea Constantin Daniel
colpevoli dei reati ascritti, e di seguito specificati, ha riconosciuto a De Vizio
Luigi, Mottola Giuseppe, De Capua Alfredo la diminuente di cui all’art. 116 cod.

la pena inflitta.

1.1. L’imputazione riguarda i seguenti fatti:
– rapina aggravata in danno di Coppola Maria ( capo 1) e omicidio volontario
della medesima ( capo 2), fatti commessi 1’8.2.2014 e ascritti agli imputati De
Vizio Luigi, Mottola Giuseppe, De Capua Alfredo, Pandelea Constantin Daniel e
Isfan Constantin;
– furto aggravato dell’auto Ford fiesta tg. D3289ZX ( capo 3 .), fatto commesso
1’1.2.2014 e ascritto a De Vizio Luigi, Mottola Giuseppe;
– danneggiamento seguito da incendio della auto sopra indicata ( capo 4), fatto
commesso il 20.2.2014 e ascritto a Mottola Giuseppe.

1.2. La sentenza di primo grado aveva ritenuto la responsabilità:

per il reato di rapina aggravata nei confronti degli imputati De Vizio Luigi,
Mottola Giuseppe, De Capua Alfredo, Pandelea Constantin Daniel e Isfan
Constantin;

Per il reato di omicidio nei confronti degli imputati De Vizio Luigi, Mottola
Giuseppe, De Capua Alfredo, Pandelea Constantin Daniel;

Per il reato di furto dell’auto nei confronti degli imputati De Vizio Luigi,
Mottola Giuseppe;

Per il reato di cui all’art. 424 cod. pen. nei confronti dell’imputato Mottola
Giuseppe,

ed aveva inflitto le seguenti pene:
a De Vizio Luigi, anni 16 di reclusione;
a Mottola Giuseppe, anni 17 di reclusione;
a De Capua Alfredo, anni 14 e mesi 8 di reclusione;
a Pandelea Constantin Daniel, anni 20 di reclusione;
a Isfan Constantin, anni 4 di reclusione.

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pen. e al solo De Vizio Luigi le attenuanti generiche, riducendo quindi a ciascuno

1.3. A seguito di impugnazione proposta dagli imputati De Vizio Luigi,
Mottola Giuseppe, De Capua Alfredo e Pandelea Constantin Daniel, la Corte di
assise di appello di Napoli ha riconosciuto agli imputati De Vizio Luigi, Mottola
Giuseppe e De Capua Alfredo la diminuente di cui all’art. 116 cod. pen. in
relazione alla condanna per omicidio volontario, e al solo De Vizio Luigi le
attenuanti generiche, ed ha quindi rideterminato le pene come di seguito
indicato:
per De Vizio Luigi, ad anni 12 di reclusione;

per De Capua Alfredo, ad anni 13 di reclusione;
per Pandelea Constantin Daniel, ad anni 17 e mesi 4 di reclusione.

2. Nella giornata dell’8.2.2014 i Carabinieri, chiamati da vicini di casa,
rinvenivano la signora Coppola Maria stesa sul pavimento della propria camera
da letto, insanguinata e priva di conoscenza; l’abitazione presentava i segni di
una azione furtiva, la donna veniva immediatamente ricoverata in ospedale,
dove però decedeva dieci giorni dopo.
Le indagini traevano spunto da una ripresa del sistema di video
sorveglianza, che aveva ripreso il passaggio, nella notte fra il 7 e 8 febbraio, di
auto Ford Fiesta, di cui si accertava essere avvenuto il furto il precedente 4
febbraio e che risultava essere stata incendiata il successivo 20 febbraio.
Il proprietario della Ford Fiesta aveva indicato che l’auto era stata nella
disponibilità del suo collaboratore De Vizio Luigi; questi, convocato dai
Carabinieri, veniva raggiunto in caserma da Mottola Giuseppe e i due giovani,
intercettati, iniziavano a parlare del decesso della signora Coppola, vicina di casa
del Mottola.
A seguito di perquisizione domiciliare effettuata il successivo 10 marzo,
De Vizio Luigi, Mottola Giuseppe e De Capua Alfredo rendevano confessione dei
fatti.
La ricostruzione dei fatti veniva compiuta sulla base, innanzitutto, delle
dichiarazioni dell’imputato De Vizio Luigi, che aveva riferito come egli, assieme a
Mottola Giuseppe e De Capua Alfredo, avesse ideato il progetto di furto nella
abitazione della anziana, coinvolgendo nell’azione i rumeni Pandelea e Isfan,
ritenuti più esperti e conosciuti dal Mottola, e procurando l’auto Ford Fiesta,
sottratta ad un professionista con il quale collaborava.
La notte del fatto De Vizio e Pandelea erano entrati nella abitazione
dell’anziana, attraverso una finestra; Isfan era rimasto all’esterno dell’abitazione,
mentre Mottola e De Capua erano rimasti ad attendere nella vicina abitazione di
De Capua.

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per Mottola Giuseppe, ad anni 14 di reclusione;

Nel corso dell’azione furtiva, De Vizio aveva visto il correo Pandelea
colpire la signora Coppola, nella di lei camera da letto, e si era quindi
allontanato, rifugiandosi a casa di De Capua; successivamente anche Pandelea
aveva raggiunto i complici ed avevano lasciato il luogo del fatto.
Gli accertamenti compiuti consentivano di rinvenire tracce del dna di
Pandelea su un cordino utilizzato per legare la vittima; veniva accertato che la
signora Coppola era stata ripetutamente colpita al capo ed era stata stretta al
collo.

Giuseppe, De Capua Alfredo e Pandelea Constantin Daniel in ordine all’omicidio a
titolo di dolo eventuale, osservando che Pandelea era stato esecutore materiale
dell’aggressione, mentre De Vizio, Mottola e De Capua, informati di quanto stava
accadendo, non erano intervenuti consentendo al correo di proseguire nella sua
azione.

3. La sentenza di appello ha escluso che la morte della signora Coppola
fosse stata causata da una caduta dal letto, successiva rispetto all’aggressione
subita da parte del Pandelea, ed ha invece ritenuto che fosse accertato il fatto
che la donna era stata oggetto di aggressione violenta, con ripetuti colpi al capo
e azione di strangolamento al collo, condotte che avevano determinato una
compromissione delle condizioni fisiche tale da portare a decesso l’anziana.
Ha escluso quindi che una infezione contratta in ambito ospedaliero
interrompesse il nesso di causalità tra la condotta lesiva e il decesso.
Veniva confermata la individuazione di Pandelea come autore materiale
del fatto omicidiario.
Il giudice di appello ha confermato l’attribuzione a tutti gli imputati della
responsabilità per la rapina a titolo di dolo, risultando tutti previamente
consapevoli della presenza della anziana in casa e quindi della possibile necessità
di usare nei suoi confronti violenza o minaccia.
Quanto all’omicidio, la Corte di assise di appello ha ritenuto non provato
che la previsione dei correi si fosse estesa anche alla ipotesi di uccisione della
anziana, valorizzando, in tale prospettiva, il fatto che De Vizio si fosse
allontanato non appena accortosi della azione violenta di Pandelea ed avesse,
immediatamente, criticato con i correi Mottola e De Capua la condotta del
rumeno.
La Corte ha comunque ritenuto che il grave sviluppo della azione
predatoria fosse una evenienza prevedibile, e quindi ha ritenuto la responsabilità
degli imputati De Vizio, Mottola e De Capua anche in ordine all’omicidio, seppur
ai sensi dell’art. 116 cod. pen. .
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Il primo giudice aveva ritenuto la responsabilità di De Vizio Luigi, Mottola

4. Contro tale provvedimento, hanno proposto ricOrso per cassazione gli
imputati De Vizio Luigi, De Capua Alfredo e Pandelea Constantin Daniel
deducendo i seguenti motivi.

4.1. Il ricorso nell’interesse dell’imputato De Vizio Luigi denuncia, con
unico motivo, violazione di legge in ordine alla affermazione di penale

La sentenza di appello non avrebbe considerato che l’imputato non aveva
dato alcun contributo, né morale né materiale, alla azione omicidiaria, ed anzi,
accortosi che il correo Pandelea aveva sferrato un pugno all’anziana, si era
subito allontanato dalla abitazione della vittima, così manifestando dissenso
rispetto alla iniziativa del complice; inoltre, il decesso della donna si era
verificato solo a distanza di giorni e per cause estranee all’aggressione, e quindi
non era nemmeno prevedibile da parte del ricorrente De Vizio.
Il ricorso evidenzia la analogia tra la posizione del ricorrente e quella del
“palo” Isfan, assolto dalla imputazione più grave.
Il ricorso, con prospettazione subordinata, valorizza le conclusioni di una
consulenza medico legale di parte, secondo la quale le lesioni al capo erano state
determinate da autonoma caduta dal letto, successiva alla aggressione, ed
inoltre la causa di morte doveva essere individuata in infezione contratta durante
il ricovero ospedaliero.
Il ricorrente evidenzia come la sentenza di appello avesse riconosciuto la
rilevanza, quanto alla qualificazione del fatto, dell’accertamento della causa di
morte ed avesse poi escluso che la infezione polmonare fosse stata la causa di
morte, pur riconoscendone il rilievo come causa sopravvenuta, ma senza
verificarne il carattere eccezionale, idoneo a interrompere il nesso causale con
altri fattori precedenti.
L’accertamento della causa di morte nella infezione polmonare contratta
in ospedale, fattore eccezionale sopravvenuto, avrebbe dovuto determinare la
qualificazione del reato di cui al capo 2 ai sensi dell’art. 584 cod. pen. con
riferimento al correo Pandelea, mentre nei confronti degli altri correi doveva
essere esclusa la responsabilità a qualsiasi titolo.

4.2. Il ricorso nell’interesse dell’imputato Pandelea Constantin Daniel
denuncia, con il primo motivo, violazione di norma processuale e difetto di
motivazione in relazione al rigetto, da parte del giudice di appello, della istanza

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responsabilità relativamente alla imputazione di omicidio.

di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale per l’acquisizione di un articolo di
stampa sui fatti del processo.
Il motivo sostiene che la decisione negativa sarebbe sanzionata da nullità
generale, in quanto incidente sul diritto dell’imputato a intervenire nella
ricostruzione dei fatti, ed era stata motivata in maniera solo apparente, senza
considerare che la richiesta istruttoria era finalizzata proprio a smentire
quell’accertamento – secondo il quale l’imputato Pandelea sarebbe stato a
conoscenza delle precarie condizioni di salute dell’anziana – che aveva costituito

Il secondo motivo deduce il difetto di motivazione in relazione al giudizio
di colpevolezza in ordine alla imputazione di omicidio volontario e violazione di
legge penale in ordine alla relativa qualificazione giuridica.
Il motivo evidenzia che il secondo giudice aveva accertato come l’unica
azione violenta addebitabile al Pandelea fosse il tentativo di strangolamento al
collo ed aveva quindi motivato l’accertamento della volontà omicidiaria sul rilievo
della piena consapevolezza in capo al Pandelea delle precarie condizioni di salute
della anziana.
In ordine alla prova di quest’ultima circostanza, la sentenza di appello, cui
il relativo accertamento era stato devoluto dai motivi di gravame, non avrebbe
dato adeguata motivazione.
Il motivo sostiene che in ordine alle conseguenze cliniche determinate
dall’azione di strangolamento la sentenza di appello – che aveva ritenuto che
quella condotta avesse aggravato la emorragia interna e impedito la intubazione
della paziente – avrebbe travisato sia la consulenza medica del dott. D’Oro secondo la quale non vi era stato alcun “strozzamento” né era stato leso alcun
organo vitale – che la consulenza medica della dott.ssa Fonzo – secondo la quale
uno dei fattori del decesso era stata la ventilazione assistita con intubazione oro
tracheale.
Quanto alla qualificazione giuridica del fatto, il motivo sostiene che in
assenza di prove circa il dolo omicidiario il fatto doveva essere qualificato ai
sensi dell’art. 584 cod. pen. .
Inoltre, anche in ordine all’accertamento del dolo eventuale la sentenza di
appello non avrebbe preso in considerazione le specifiche doglianze formulate
con l’atto di appello.

4.3. Il ricorso nell’interesse dell’imputato De Capua Alfredo denuncia, con
il primo motivo, difetto di motivazione in ordine al giudizio di penale
responsabilità per l’imputazione di omicidio.

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il presupposto di fatto della affermazione di penale responsabilità.

Quanto all’accertamento della causa della morte, la sentenza di appello
non avrebbe preso posizione in ordine alla alternativa se essa dovesse essere
individuata nella infezione polmonare ovvero nel politraumatismo causato dalla
aggressione violenta, e quindi l’accertamento in ordine alla qualificazione del
fatto come omicidio volontario ovvero preterintenzionale risulterebbe non
adeguatamente motivato.
Il motivo aggiunge che la sentenza di primo grado aveva individuato il
politraumatismo come causa della morte, senza però esaminare l’ipotesi

Alla qualificazione del fatto ai sensi dell’art. 584 cod. pen. conseguirebbe
l’esclusione di responsabilità in capo al De Capua, nemmeno ai sensi dell’art. 116
cod. pen. .
Il motivo rileva difetto di motivazione anche in ordine alla ricostruzione
dei fatti relativi alla aggressione subita dalla signora Coppola.
Il ricorrente evidenzia come la difesa aveva, sulla base dello stato dei
luoghi documentato con fotografie, ipotizzato che la vittima dopo l’aggressione
avesse perso i sensi, cadendo a terra e così procurandosi il trauma al cranio, cui
era seguito ematoma extracerebrale.
A fronte di tale ricostruzione – ritenuta idonea a fondare la qualificazione
del fatto ai sensi dell’art. 584 cod. pen. – la Corte di assise di appello avrebbe
travisato la documentazione fotografica in atti, dalla quale risultava, invece, che
al momento dell’arrivo dei primi soccorritori, il letto della donna era rifatto e la
vittima era a terra “seminuda”.
Inoltre, il giudice di appello, quanto alla eziologia delle lesioni cerebrali (
ematoma extracerebrale, piccolo focolaio lacero-contusivo, frattura dell’osso
occipitale), non avrebbe considerato i rilievi del consulente medico dott. D’Oro,
secondo il quale potevano essere state determinate da un colpo solo, e quindi
erano compatibili con la caduta dal letto.
Era, infine, documentata in atti l’avvenuta intubazione della paziente, in
ospedale.
Il secondo motivo denuncia violazione della legge penale e difetto di
motivazione in ordine al diniego delle attenuanti generiche.
In particolare, il motivo evidenzia che il secondo giudice aveva
riconosciuto le attenuanti generiche al solo De Vizio sul rilievo dell’atteggiamento
collaborativo reso unicamente dal medesimo, ma nel corso della motivazione
aveva in più passi dato atto delle dichiarazioni ammissive rese anche
dall’imputato De Capua.

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alternativa costituita dalla infezione polmonare.

Il punto relativo alla collaborazione offerta da De Capua era stato
devoluto con l’atto di appello e la sentenza di appello ha riconosciuto il contributo
dichiarativo offerto dal ricorrente.
L’atto di appello aveva anche evidenziato il contributo marginale dato
dall’imputato alla azione criminosa, ma il giudice di appello, pur riconoscendola,
non l’aveva valorizzata ai fini del riconoscimento delle attenuanti generiche.

I ricorsi proposti risultano fondati unicamente in relazione alla
qualificazione giuridica della imputazione di omicidio ( capo 2), mentre, nel
resto, vanno respinti.
I motivi di impugnazione riguardano la motivazione relativa
all’accertamento del fatto, sia sotto il profilo della ricostruzione della dinamica
dell’aggressione subita dalla signora Coppola Maria che in relazione
all’accertamento della causa di morte, all’elemento soggettivo del delitto di
omicidio e alla conseguente qualificazione giuridica, ed, infine, al trattamento
sanzionatorio.

1. Quanto alla dinamica dell’aggressione subita dalla signora Coppola
Maria, le sentenze di merito hanno accertato che autore della stessa era stato
l’imputato Pandelea, il quale aveva realizzato una azione di compressione al collo
della donna e le aveva quindi causato plurime lesioni al cranio, lasciando la
vittima, in stato di incoscienza, sul pavimento della camera da letto, dove poi era
stata rinvenuta dai primi soccorritori; il decesso era poi avvenuto, dieci giorni
dopo il fatto, presso il locale ospedale dove la donna era stata ricoverata.

1.1. In ordine alla prova specifica, la identificazione dell’autore
dell’aggressione nel Pandelea era stata fondata sulle indicazioni provenienti dal
correo De Vizio, confermate da Mottola e De Capua e riscontrate dal rilievo della
presenza del dna del Pandelea sulla fettuccia trovata legata alla testiera del letto
della vittima.
Sul punto, l’atto di appello presentato dal difensore di Pandelea – il quale
aveva accusato De Vizio della aggressione alla donna – aveva contestato la
fondatezza del giudizio dato dal primo giudice, ma a fronte della, confermativa,
decisione del giudice di appello il ricorso non propone alcuna specifica doglianza.

1.2.1. Quanto alle modalità della aggressione, le sentenze di merito
hanno accertato, sulla base della documentazione medica e della consulenza

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CONSIDERATO IN DIRITTO

medico legale disposta dal pubblico ministero, che la vittima era stata stretta al
collo e colpita al capo; in particolare, l’accertamento autoptico aveva riscontrato

politrauma cranio-facciale … grave ematoma subdurale occipitale, piccolo

focolaio lacero-contusivo parietale a destra …, infiltrazione emorragica dei
muscoli in regione laterale destra … in corrispondenza delle carotidi
bilateralmente … della ghiandola tiroide in corrispondenza di entrambi i lobi …”.
Nel giudizio di appello era stato devoluto il punto relativo alle concrete
modalità della aggressione e delle lesioni direttamente riconducibili alla azione

In particolare, la difesa di Pandelea aveva contestato che tutte le lesioni,
poi riscontrate dai medici, fossero state direttamente causate dalla azione
aggressiva del Pandelea, ed aveva valorizzato le osservazioni del consulente
medico legale di parte, dott. D’Oro, che aveva ritenuto che le lesioni al capo
causate da autonoma caduta al suolo della anziana.
La difesa di De Capua aveva pure sostenuto, seppur con precisazioni
diverse, che le lesioni al capo erano state determinate da una caduta a terra,
successiva all’aggressione.
La sentenza di appello ha preso in considerazione le doglianze proposte
con gli atti di appello, osservando, innanzitutto, che i rilievi del consulente
medico legale dott. D’Oro – secondo il quale l’anziana sarebbe caduta, una prima
volta, dal letto nel divincolarsi dal legaccio che la teneva bloccata alla testiera del
letto e, una seconda volta, nel tentativo di rialzarsi dal pavimento – non erano
tali da escludere, comunque, il nesso di causa tra le lesioni subite, la
conseguente condizione di stordimento e malessere e le due cadute.
Quanto alla alternativa ricostruzione, proposta dalla difesa dell’imputato
De Capua – secondo la quale l’anziana sarebbe caduta a terra, ad aggressione
terminata e dopo l’allontanamento di tutti gli imputati, dopo essersi liberata dal
legaccio, esser scesa dal letto, aver rifatto il letto ed aver iniziato a cambiarsi la
biancheria -, la Corte di assise di appello ha rilevato che non vi era prova che,
dopo l’aggressione, il letto fosse stato “rifatto”, e che era inverosimile che
l’anziana, in quel contesto, avesse preferito sistemare il letto e cambiarsi gli abiti
prima di chiamare i soccorsi; infine, la pluralità delle lesioni al cranio era
incompatibile con l’ipotesi di una, autonoma, caduta a terra.

1.2.2. Il primo motivo del ricorso della difesa di Pandelea denuncia la
violazione della legge processuale e il difetto di motivazione in relazione al
rigetto, pronunciato dal secondo giudice, della richiesta di rinnovazione
dell’istruttoria per l’acquisizione di una pagina di un mezzo di informazione
locale.
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violente del Pandelea.

La richiesta era infatti motivata dalla necessità di provare che, dopo il
fatto, fosse divenuta notizia di dominio pubblico la circostanza che l’anziana
vittima era stata rinvenuta sul pavimento della sua camera da letto.
Il motivo è manifestamente infondato.
Il motivo, da una parte, sostiene che il rigetto della istanza di
integrazione istruttoria avrebbe determinato violazione dell’art. 603 cod. proc.
pen., sanzionata a pena di nullità in quanto relativa al diritto di difesa, e,
dall’altra, che la decisione della Corte di assise di appello sarebbe rimasta

L’esame della censura richiede alcune osservazioni sul tema specifico
della integrazione probatoria nel giudizio di appello celebrato con rito abbreviato.
Innanzitutto, la struttura del giudizio abbreviato, come disegnata all’esito
della riforma di cui alla legge n. 479/1999 ( vedi Sez. Un. 27.10.2004, Wajib), lo
caratterizza come rito cd. premiale, cui la difesa accede su richiesta, che
comporta la rinuncia alla formazione della prova nel contraddittorio, salva la
facoltà di chiedere l’assunzione di prove necessarie ai fini della decisione ( cd.
rito abbreviato condizionato).
E’ stato precisato che i requisiti di ammissibilità dell’abbreviato
condizionato ( art. 438, comma 5, cod. proc. pen. : “…

se l’integrazione

probatoria richiesta risulta necessaria ai fini della decisione e compatibile con le
finalità di economia processuale proprie del procedimento, tenuto conto degli atti
già acquisiti ed utilizzabili.” ) si sostanziano nella valutazione circa il carattere
necessario della prova richiesta, risultando l’ulteriore profilo della “economia
processuale” da valutare rispetto l’ordinario giudizio dibattimentale ordinario
( vedi Corte Cost. sentenza n. 115/2001).
Va evidenziata la coerenza dell’ordinamento, che utilizza il parametro
della “necessità ai fini della decisione” per definire il diritto della parte al rito
abbreviato condizionato, e il dovere del giudice, anche nel rito abbreviato cd.
semplice, di integrare le prove, in primo grado, ai sensi ‘dell’art. 441, comma 5,
cod. proc. pen., e nel giudizio di appello, ai sensi dell’art. 603, comma 3, cod.
proc. pen., sia pure con una caratterizzazione di maggior rigore valutativo ( “…
assolutamente necessaria …”) .
Quanto alla nozione di “necessità ai fini della decisione”, le Sezioni Unite,
nella ricordata decisione, hanno chiarito che consiste “… nella oggettiva e sicura
utilità/idoneità del probabile risultato probatorio ad assicurare il completo
accertamento dei fatti rilevanti nel giudizio, nell’ambito del perimetro disegnato
per l’oggetto della prova dalla disposizione generale di cui all’art. 187 c.p.p. …” (
pag. 8) .

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immotivata.

In particolare, a fronte delle diverse ipotesi di rinnovazione dell’istruttoria
previste dall’art. 603 cod. proc. pen., è stato precisato che le ipotesi di cui ai
commi 3 e 3bis ( che riguardano, rispettivamente, i casi di potere e dovere del
giudice di procedere alla rinnovazione istruttoria) si applicano anche nel rito
abbreviato, mentre le ipotesi di cui ai commi 1 e 2 ( concernenti le istanze di
parte di integrazione probatoria) non si applicano al rito abbreviato, se non
nell’ambito del comma 3, e quindi come sollecitazione al Giudice dell’esercizio del
potere ufficioso e secondo il parametro della “assoluta necessità”.

abbreviato, con il quale la parte, che lo richiede, rinuncia alla formazione della
prova nel contraddittorio e ad ampliare il compendio probatorio, rinuncia totale
nel caso di rito abbreviato semplice, rinuncia limitata nel caso di rito abbreviato
condizionato.
La giurisprudenza ha quindi affermato, con costanza, che nel caso di rito
abbreviato, dove la difesa non ha un diritto all’integrazione probatoria, l’omessa
assunzione di una prova decisiva non può, autonomamente, dar luogo al vizio di
cui all’art. 606, comma 1 lett. d, cod. proc. pen. ( Sez. 5, 7.12.2005, Capezzuto,
Rv. 233845; Sez. 6, 8.3.2011, Della Ventura, Rv. 249910; Sez. 5, 5.2.2013,
Rossi, Rv. 255566; Sez. 6, 22.10.2014, n. 1400/15; Sez. 2, 24.3.2017, Atu), ma
è censurabile solo in quanto determini una manifesta illogicità o altro vizio della
motivazione.
Nel caso in esame, la richiesta istruttoria intendeva provare che le
modalità del ritrovamento della vittima da parte dei primi soccorritori fossero
note pubblicamente, almeno in ambito locale, siccome diffuse dai mezzi di
comunicazione.
Si tratta di circostanza, di per sé, del tutto irrilevante ai fini della
decisione, in quanto relativa solo alla conoscenza da parte del pubblico dei primi
accertamenti sul fatto.
La difesa aveva evidenziato che la circostanza dedotta, ove provata,
avrebbe reso irrilevante l’ulteriore circostanza, valorizzata dal primo giudice
( pag. 15), secondo la quale il coimputato Mottola avrebbe confidato all’amico
Ranaudo le particolari modalità del fatto ( ”

la legarono pure, la lasciarono a

terra …”) perché apprese dagli autori del medesimo.
Anche da questo punto di vista, la prova richiesta è irrilevante, perché
concerne solo un ulteriore argomento logico proposto dal primo giudice ( ” … i
giornali non ne avevano fatto cenno …”). nella valutazione di un elemento
probatorio non decisivo, ma avente solo valore di riscontro .

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Tale ricostruzione del sistema è coerente con le caratteristiche del rito

Il rigetto della richiesta di rinnovazione istruttoria risulta quindi
legittimamente adottato, alla luce della complessiva motivazione che sorregge la
decisione.

1.2.3. Il secondo motivo del ricorso Pandelea si limita a evidenziare che il
giudice di appello avrebbe ritenuto provato solo il fatto che l’aggressore avrebbe
direttamente cagionato solo le lesioni al collo ( pagg. 11 e 13), la cui efficacia
causale sarebbe stata travisata, dato che la consulenza medico legale del dott.

rilievo causale degli atti di “stringimento” al collo rispetto al successivo decesso
( pag. 15).
Il motivo si fonda su una lettura parziale della sentenza di appello.
Questa, infatti, ha inteso concentrare i propri rilievi sulla azione violenta
al collo, condotta la cui sussistenza non era stata posta in discussione, ma non
ha escluso che l’aggressore avesse anche cagionato le lesioni al cranio,
circostanza che, anzi, veniva espressamente affermata, concordemente a quanto
ritenuto dal primo giudice.
Il

motivo proposto, quanto alla ricostruzione della dinamica

dell’aggressione, risulta quindi genericamente formulato.
Il ricorso del difensore di De Capua ha censurato la motivazione della
sentenza di appello, siccome frutto di travisamento di prova e, comunque,
meramente apparente.
Il motivo esprime una diretta contestazione, sotto il profilo della
adeguatezza della motivazione, dell’accertamento in ordine alla dinamica
dell’aggressione, ma, in realtà, non evidenzia una effettiva illogicità nelle
argomentazioni della Corte di assise di appello.
Gran parte dei rilievi della difesa, svolti sia nell’atto di appello che nel
ricorso, riguardano l’accertamento dello stato dei luoghi all’arrivo dei primi
soccorritori; in particolare, la difesa aveva sostenuto che il letto della persona
offesa si fosse presentato, ai primi soccorritori, completamente ” rifatto”,
circostanza valorizzata per sostenere che fosse stata la vittima, dopo
l’allontanamento degli aggressori, a sistemare le lenzuola.
Sul punto, la sentenza di appello ha rilevato che sia dalle prime foto,
scattate dalla pattuglia dei carabinieri di san Giorgio del Sannio, che da quelle
successive, fatte dal reparto operativo del comando provinciale carabinieri di
Benevento, era documentata la situazione di disordine della camera dove era
stata rinvenuta la vittima.

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D’Oro aveva escluso vi fosse stata azione di “strozzamento” e, comunque, un

Il ricorso, cui sono allegate le informative dei carabinieri con la relativa
documentazione fotografica, sostiene che le prime foto docurrienterebbero un
letto” rifatto”, mentre quelle successive un letto completamente” disfatto”.
Il collegio osserva che le prime foto, in particolare le foto nn. 9 e 11,
inquadrano il letto della persona offesa non direttamente e da diverse
prospettive.
Il ricorso non contesta la correttezza della valutazione del secondo
giudice, che ha ritenuto provato il fatto che la camera fosse in disordine, ma, con

ritenute più attendibili, rappresentavano il letto in ordine, a differenza di quanto
appare dalle foto successive.
In realtà, la valutazione del secondo giudice risulta confermata dall’esame
diretto delle foto allegate dal ricorrente, mentre non risulta documentato che il
letto si fosse presentato ai primi soccorritori in ordine, bensì in condizioni diverse
da quelle documentate dalle foto scattate successivamente.
Si deve aggiungere che, comunque, anche l’accertamento che il letto
fosse con le lenzuola e coperte ” tirate su” non avrebbe alcun rilievo, dato che a
ciò avrebbe potuto provvedere chiunque .
La deduzione difensiva – il letto era rifatto – non ha rilevanza probatoria,
in quanto dalla menzionata circostanza non si può dedurre che a rifare il letto
avrebbe provveduto la persona offesa, atteso che le sentenze di merito hanno
già evidenziato plausibilmente la inverosimiglianza della ipotesi secondo la quale
la vittima avrebbe messo in ordine il letto e avrebbe voluto cambiarsi la
biancheria prima dell’arrivo dei soccorritori, non ancora chiamati.
In ,ordine a tale ulteriore argomento della Corte di assise di appello,
fondato sulla massima di esperienza secondo la quale una persona vittima di una
così traumatica aggressione per prima cosa chiama i soccorsi, il ricorso non ha
addotto la fallacia della massima di esperienza, ma ha osservato che sarebbe
inverosimile che la colluttazione tra l’aggressore e la vittima si fosse svolta sul
lato opposto rispetto a quello dove la donna dormiva.
Si tratta di rilievo che riconosce la logicità della motivazione specifica
fornita dal giudice di appello, e si limita a valorizzare una circostanza di fatto – la
donna è stata trovata sul lato opposto rispetto a quello dove dormiva -,
comunque, non incompatibile con l’assunto secondo il quale la donna sarebbe
stata spinta a terra durante l’aggressione.
Il ricorso, infine, denuncia come “… apparente e comunque illogica o
contraddittoria …” la motivazione nella parte in cui ha ritenuto la pluralità delle
lesioni al capo come incompatibili con l’ipotesi di una caduta a terra.

13

specifico riferimento al letto, ha osservato che le prime foto, evidentemente

Il collegio osserva che anche la sentenza di primo grado ( pag. 4) aveva
ritenuto che la vittima avesse subito una pluralità di traumi al capo e lesioni al
collo; l’atto di appello ( pag. 23) aveva sostenuto che la lesione di sinistra fosse
stata determinata dal contraccolpo per i traumi che avevano interessato la parte
destra e che quindi le lesioni al cranio fossero compatibili anche con gli esiti di
una ( singola) caduta a terra.
La sentenza di appello ( pag. 7) ha esaminato le doglianze difensive,
osservando come la vittima avesse subito plurime lesioni interessanti il cranio, il

rispetto a quelle che avevano interessato il cranio; ha aggiunto che il consulente
medico legale nominato dal pubblico ministero aveva ritenuto che le lesioni al
cranio fossero state causate da ripetuti urti contro una superficie piana.
Le sentenze di merito hanno, dunque, correttamente considerato la
pluralità degli elementi caratterizzanti il fatto – il contesto di aggressione, la
disparità fisica tra i contendenti, l’entità delle lesioni – e sono giunti alla
conclusione, certamente plausibile, che anche le lesioni al cranio fossero state
determinate dall’azione aggressiva portata dal Pandelea, e non da una,
meramente ipotetica e inverosimile, autonoma caduta della vittima,
successivamente alla conclusione dell’aggressione.
In particolare, il dato tecnico che il ricorrente assume non essere stato
considerato dai giudici di merito – la pluralità delle lesioni al cranio non è di per
sè incompatibile con un trauma da caduta al suolo – non è in realtà decisivo, in
quanto l’argomento difensivo risiede nella autonomia della caduta rispetto
all’aggressione, circostanza non provata e ritenuta, con argomentazione più che
congrua, inverosimile.
Il collegio quindi ritiene che anche le censure proposte dal ricorso del
difensore di De Capua non siano fondate, in quanto non fanno emergere alcuna
manifesta illogicità della motivazione data in ordine alla ricostruzione della
dinamica dell’aggressione in danno della persona offesa .
2. I ricorsi pongono, sotto il profilo della adeguatezza della relativa
motivazione, anche il tema dell’accertamento della causa di morte.
Si deve rilevare che sia la difesa di De Vizio ( pag. 6) che quella di De
Capua ( pagg. 11, 12, 13) valorizzano la rilevanza della sopravvenuta infezione
polmonare ai fini della qualificazione del fatto come omicidio preterintenzionale,
più che ai fini della interruzione del nesso di causalità tra la condotta di Pandelea
e la morte della persona offesa .
Il ricorso del difensore di Pandelea evidenzia che non vi sarebbe prova di
rilevanza causale, nel determinismo del decesso, della azione di pressione sul
collo della vittima ( pagg. 15, 17).
14

volto e il collo, e che, pacificamente, le lesioni al volto e al collo erano ulteriori

Il tema relativo all’accertamento della causa di morte e quindi della
eventuale interruzione del nesso causale tra la condotta di Pandelea e la morte,
in ragione della sopravvenuta infezione polmonare, era stato esaminato sin dalla
sentenza di primo grado.

2.1. Il giudice dell’udienza preliminare ( pag. 6) aveva rilevato che il
consulente medico legale nominato dal pubblico ministero aveva accertato che il
decesso era stato determinato da insufficienza respiratoria da edema polmonare

che aveva avuto come causa iniziale il politrauma cerebrale e facciale dovuto alla
aggressione subita.
La infezione delle vie respiratorie si era sovrapposta al descritto quadro
patologico, senza avere alcuna rilevanza causale autonoma .
A fronte di tale motivazione, la difesa di Pandelea aveva sostenuto che il
decesso della vittima era stato determinato anche “…

da una serie di fattori

indipendenti e non ascrivibili alla volontà dell’aggressore …” (

vedi atto di

appello, pag. 29); l’atto di appello del difensore di De Vizio ( pag. 7, 8) aveva
lamentato che il primo giudice non avesse considerato che la cartella clinica della
persona offesa aveva indicato la causa della morte in infezione polmonare; anche
l’atto di appello De Capua ( pag. 42) aveva rilevato che il decesso era stato
determinato da una sopravvenuta infezione polmonare.
Il dato costituito dal sopravvenire della infezione polmonare non è stato,
in realtà, obliterato nelle considerazioni medico legali valorizzate dal primo
giudice, bensì letto nel complessivo quadro patologico che si era
progressivamente instaurato a seguito della aggressione.

2.2. Tuttavia, la sentenza di appello ( pag. 6) ha inteso aggiungere sul
punto una considerazione, che, per il suo carattere assoluto, non è condivisibile.
Si tratta del rilievo secondo cui la sopravvenuta infezione ospedaliera non
potrebbe incidere sulla configurazione del fatto a titolo di omicidio volontario
perché, come ” … tutte le conseguenze di ordine sanitario …” conseguenti alla
aggressione

de qua,

sarebbero comunque riconducibili alla condotta degli

imputati ” … in quanto avvinte da un nesso di causalità diretto ed inscindibile”.
Tale affermazione non considera che l’ordinamento riconosce interruzione
del nesso causale nel caso di cause sopravvenute da sole sufficienti a cagionare
l’evento.
Non è corretto quindi negare a priori rilevanza, in termini di possibile
interruzione del nesso causale, a qualsiasi evento verificatosi nel corso del
ricovero ospedaliero.
15

acuto, indotto da progressivo squilibrio metabolico e funzionale pluridistrettuale,

Piuttosto, si sarebbe dovuto verificare – ed eventualmente ribadire – se,
come aveva osservato il primo giudice, valeva la considerazione che si era
trattato di infezione polmonare che non aveva avuto efficacia causale autonoma
nella produzione dell’evento morte, agendo solo come fattore patologico ulteriore
rispetto al quadro già direttamente determinato dalle lesioni cagionate dalla
aggressione violenta.

3. Non basta: così ( apoditticamente) risolto il tema della efficacia causale

curata di verificare la qualificazione giuridica del fatto in relazione ad un possibile
decorso causale non solo e non tanto autonomo, ma anche soltanto anomalo,
per via della – non esclusa – sopravvenienza della infezione ospedaliera.

3.1. L’elemento soggettivo, nel delitto di omicidio, costituisce elemento
differenziale rispetto a diverse fattispecie ( omicidio volontario, colposo,
preterintenzionale).
In particolare, mentre nell’omicidio volontario è richiesta ( in positivo) la
volontà di cagionare la morte, negli omicidi colposo e preterintenzionale è
richiesta ( in negativo) la assenza della volontà di cagionare la morte.
Le fattispecie di omicidio colposo e preterintenzionale si differenziano tra
loro per il fatto che, nel primo, l’evento morte è causato dalla violazione di
norme cautelari che il soggetto era tenuto ad osservare, mentre, nel secondo, la
morte è causata dalla condotta ( voluta) di percosse e lesioni.
Nell’omicidio volontario l’elemento soggettivo si configura nella relazione
( positiva) tra il soggetto e l’evento morte, nell’omicidio colposo l’elemento
soggettivo ha un contenuto psicologico negativo ( non volontà dell’evento) e
normativo ( la violazione del dovere cautelare imposto), nell’omicidio
preterintenzionale l’elemento soggettivo ha un contenuto positivo ( volontà di
percuotere o ledere) ed uno negativo ( non volontà di uccidere).
Si è poi precisato che anche nelle fattispecie di omicidio colposo e
preterintenzionale è richiesto un ulteriore profilo soggettivo che esprima la
relazione tra il soggetto e l’evento morte: nell’omicidio colposo si richiede la cd.
misura soggettiva della colpa, e quindi la prevedibilità in concreto dell’evento
morte, e la sua evitabilità mediante la condotta doverosa, non tenuta, condotta
che sia stata, in concreto, esigibile dal soggetto; nell’omicidio preterintenzionale,
si richiede che l’evento morte fosse in concreto prevedibile, come sviluppo
dell’azione voluta.

16

della aggressione in relazione all’evento morte, la Corte di appello non si è

I rilievi appena delineati fanno parte ormai del costante orientamento
della giurisprudenza ( Sez. Un. 24.4.2014, Espenhahn, pag. 130; Sez. Un.
22.1.2009, Ronci, Rv. 243381).
Si deve precisare che i principi affermati dalla sentenza Ronci, con
specifico riferimento alla fattispecie di cui all’art. 586 cod. pen., vanno applicati
anche nella interpretazione della fattispecie di cui all’art. 584 c.p., in quanto in
entrambe le fattispecie è richiesta la non volontà dell’evento morte, conseguenza
di un delitto doloso.

condotta di percosse o lesioni volontarie – giustifica il diverso, e più grave,
trattamento sanzionatorio rispetto a quello previsto dall’art. 586 cod. pen., ma
non una distinta definizione dell’elemento soggettivo con riferimento all’evento
morte.
In particolare, l’orientamento secondo cui la fattispecie di cui all’art. 584
cod. pen. richiederebbe unicamente il dolo di lesioni o percosse, senza altra
considerazione in ordine all’evento morte, perché già ritenuto dalla legge sempre
prevedibile come conseguenza della condotta di lesioni o percosse ( Cass.
18.10.2012, Palazzolo; Cass. 17.5.2012, PG in proc. Perini; Sez. 5, 8.3.2006,
Haile, Rv. 234552), finisce per addebitare la responsabilità per l’evento non
voluto a prescindere dall’accertamento in concreto di relazione soggettiva con il
soggetto agente, invece elemento necessario nella definizione del giudizio di
colpevolezza conforme al dettato costituzionale.
Dunque, mentre l’omicidio volontario si differenzia dalle altre fattispecie di
omicidio ( 589 e 584-586 cod. pen.) per la sussistenza della volontà – anche solo
alternativa o “eventuale” – di uccidere, le fattispecie colposa e preterintenzionale
si differenziano tra loro perché nella seconda vi è una specifica condotta
volontaria di autonomo rilievo penale ( lesioni volontarie, percosse ovvero altro
delitto doloso), mentre nella prima vi è una condotta in violazione di doveri
cautelari, anche a prescindere dalla autonoma rilevanza penale della condotta
medesima.

3.2. Nel caso in esame, i ricorsi deducono che nei fatti doveva essere
riscontrata la fattispecie di omicidio preterintenzionale, in quanto l’aggressore
avrebbe agito esclusivamente con la volontà di cagionare lesioni, e non con la
volontà di uccidere.
La sentenza di primo grado ( pagg. 44, 47, 48) aveva ravvisato per tutti
gli imputati, fatta eccezione per Isfan, la sussistenza del dolo di omicidio, nella
forma del cd. dolo eventuale, sul rilievo che tutti erano consapevoli della
presenza in casa della anziana e delle sue precarie condizioni di salute.

17

L’elemento speciale presente nell’art. 584 cod. pen. – la specifica

La sentenza di appello ( pag. 8) ha ritenuto sussistente in capo al
Pandelea il dolo di omicidio nella forma del dolo eventuale, evidenziando, in
particolare, che la condotta aggressiva e violenta era stata posta in essere con la
consapevolezza circa le precarie condizioni di salute della anziana; nei confronti
dei correi De Vizio e De Capua ( e del non ricorrente Mottola), il giudice di
appello ha escluso il dolo di omicidio ed ha ravvisato la responsabilità ai sensi
dell’art. 116 cod. pen., ritenendo l’omicidio della anziana evento, pur non voluto,
ma comunque prevedibile come conseguenza della realizzazione del progettato

Dunque, il tema relativo alla volontà di uccidere si pone esclusivamente
con riferimento all’imputato Pandelea, essendo stata esclusa per gli altri correi.
Il concorde giudizio delle sentenze di merito – che hanno ravvisato in
capo a Pandelea il dolo eventuale di omicidio – impone di soffermarsi,
brevemente, sulla nozione di dolo eventuale.

3.3. E’ noto che la giurisprudenza è giunta a un importante chiarimento in
tema di elemento soggettivo doloso.
Dapprima ( Sez. Un. 26.11.2009, Nocera), è stato chiarito che alla
volontà del fatto antigiuridico è equiparabile, nel caso in cui la componente
rappresentativa sia in termini di dubbio ( non certezza), la accettazione del
verificarsi del fatto, cosicchè ricorre dolo eventuale ” … quando chi agisce si
rappresenta come seriamente possibile (non come certa) l’esistenza di
presupposti della condotta ovvero il verificarsi dell’evento come conseguenza
dell’azione e, pur di non rinunciare all’azione e ai vantaggi che se ne ripromette,
accetta che il fatto possa verificarsi: il soggetto decide di agire “costi quel che
costi”, mettendo cioè in conto la realizzazione del fatto”.
Seguendo la medesima linea interpretativa, è stato poi affermato (Sez.
Un. 24.4.2014, Espenhahn) che l’elemento caratteristico del dolo – concetto
normativo che, nel definire la relazione soggettiva tra autore e fatto, richiede la
compresenza di consapevolezza e volontà – va individuato nella volontà del
fatto, che consiste nella I personale ed effettiva adesione del soggetto al
verificarsi dell’evento.
Di particolare chiarezza è la precisazione secondo la quale, nei casi in cui
il soggetto abbia agito per un fine diverso dalla realizzazione dell’evento, in
realtà verificatosi ed elemento costitutivo della fattispecie dolosa, per aversi dolo
non è sufficiente la previsione dell’evento, che si esaurisca nell’accettazione della
situazione di rischio, bensì è necessario che il soggetto abbia agito “accettando
l’evento stesso”, e dunque dandovi adesione.

18

piano criminoso.

Dunque, ogni qual volta che il giudice deve confrontarsi con una
fattispecie dolosa di condotta ed evento non può esaurire l’accertamento della
volontà solo con riferimento alla condotta posta in essere e al nesso di causalità
tra la stessa e l’evento ( morte, nel caso in esame), ma deve verificare non solo
se l’evento fosse – teoricamente – prevedibile, ma anche se sia stato, in
concreto, previsto e, quindi, effettivamente accettato e, perciò, voluto.
La categoria del dolo eventuale, 9itift4i-7ida una parte, si riferisce ad una
rappresentazione, vuoi dei presupposti vuoi delle conseguenze della condotta, in

rappresentativo è in termini di certezza, e dall’altra, esprime una direzione della
volontà diretta ad un diverso fine primario, e, da questo punto di vista, si
distingue dal dolo intenzionale.
Elemento essenziale del dolo, g~:Kil comune nelle categorie del dolo
intenzionale, diretto ed eventuale, è la previsione e la adesione del soggetto al
verificarsi dell’evento, componente soggettiva che fonda la distinzione con
l’elemento soggettivo della colpaXche sta a base della preterintenzione.
L’accertamento del dolo, infine, va compiuto esaminando le circostanze
del fatto, in particolare la condotta e il livello di probabilità, ex ante, di causare
l’evento, la condotta successiva al reato, la personalità dell’agente e il fine
dell’azione.

3.4. Avuto riguardo a quanto affermato dalla sentenza di appello in
risposta alle censure difensive sulla interferenza della infezione polmonare nel
decorso causale, appare evidente che la motivazione della sentenza impugnata
non è adeguata.
L’atto di appello nell’interesse del Pandelea aveva impugnato il punto
della decisione relativo alla qualificazione giuridica del fatto ascritto al capo 2,
CQ”‘

sostenendo che doveva essere escluso il dolo di omicidio, aeFía-mene- nella forma
del dolo eventuale; in particolare, l’appellante aveva sostenuto il motivo
valorizzando gli elementi oggettivi, la personalità dell’imputato e i suoi rapporti
con i correi, la mancanza di interesse rispetto alla morte della vittima, le
condizioni di salute della donna al momento dell’arrivo dei primi soccorritori, la
condotta successiva dell’imputato, che, lasciando la casa della donna, non
l’aveva uccisa; l’intervento di fattori causali anomali,- elementi tutti ritenuti,
dall’appellante, significativi di una volontà di percuotere_ o ledere, ma non di
provocare l’evento morte, realizzatosi grazie a impre

d
. eterminismi.

La ( coerente) richiesta conclusiva era dunque nel senso di qualificare il
fatto come omicidio preterintenzionale.

19

termini di dubbio e si distingue dal dolo diretto, dove invece il momento

La sentenza di appello ha ritenuto sussistente il dolo eventuale, senza
però esporre gli elementi di fatto dai quali desumere, non tanto la teorica
prevedibilità dell’evento collegato all’indotta situazione di rischio per la vita della
persona offesa, bensì la adesione dell’imputato alla prospettiva di determinare la
morte dell’anziana.
La Corte di assise di appello ha valorizzato in maniera particolare la
consapevolezza circa le precarie condizioni dell’anziana, il che prova la coscienza
del rischio, senza esaminare altri elementi nella prospettiva di verificare la

Per altro, anche con riguardo alla condotta effettivamente realizzata, la
motivazione della sentenza impugnata risulta perplessa, in quanto non esclude
che Pandelea abbia sbattuto più volte il cranio della persona offesa contro il
pavimento, ipotesi definita” … verosimile e … verificabile in base a deduzioni …”,
ma poi argomenta, in relazione all’elemento soggettivo, sul presupposto che
l’imputato si fosse limitato a stringere al collo la vittima.
Si tratta, evidentemente, di un punto rilevante al fine di comprendere
l’atteggiarsi del Pandelea nei confronti della prospettiva di determinare la morte
della donna.
Il giudice di appello non si è poi soffermato sugli effetti, nell’immediato,
della aggressione – se l’anziana fosse rimasta o meno in stato di corna -,
elementi significativi del grado di violenza esercitato nei confronti della persona
offesa .
Di rilievo è però – soprattutto – il decorso della malattia, in quanto
l’eventuale concorso di ulteriori fattori patologici nella determinazione del
decesso, pur non tali da interrompere il nesso causale tra l’aggressione e la
morte, implicava che la valutazione in ordine alla previsione e accettazione
dell’evento si misurasse con essi e loro grado di incidenza rispetto all’evento
prevedibile dagli imputati.
La sentenza impugnata non ha dunque dato adeguata risposta alle
specifiche doglianze formulate sul punto dall’atto di appello.
Va dunque pronunciato annullamento della sentenza impugnata
limitatamente al giudizio in ordine alla qualificazione giuridica del reato di
omicidio nei confronti di Pandelea Constantin Daniel.

4. Ai ricorrenti De Vizio e De Capua, concorrenti nella rapina, è stata
attribuita la responsabilità per il reato di omicidio volontario ai sensi dell’art. 116
cod. pen. .
Il disposto annullamento in relazione alla pozione Pandelea riguarda
anche le dipendenti posizioni dei correi De Vizio e De Capua.

20

sussistenza in capo al Pandelea della adesione-accettazione dell’evento morte.

Si deve peraltro esaminare lo specifico del motivo proposto da questi
imputati, i quali hanno sostenuto che dalla qualificazione del capo 2 come
omicidio preterintenzionale dovrebbe derivare pronuncia assolutoria, essendovi
incompatibilità tra la responsabilità per omicidio preterintenzionale e
responsabilità ai sensi dell’art. 116 cod. pen. ( vedi ricorso de Capua, pag. 26;
ricorso de Vizio, pag. 8).
Il rilievo è manifestamente infondato.
La giurisprudenza ( Sez. 5, 2.2.1996, Vanzan, Rv. 204297; Sez. 1,

infatti costante nell’affermare la configurabilità del concorso di persone rispetto
all’omicidio preterintenzionale, con la precisazione che è l’ipotesi attenuata di cui
all’art. 116 cod. pen. a non essere applicabile nel caso di omicidio
preterintenzionale.
Invero, presupposto di applicazione dell’art. 116 cod. pen. è la
commissione dolosa di un reato più grave da parte di un concorrente: la norma
estende, e attenua, ai concorrenti nel reato, meno grave, progettato ) la
responsabilità per il reato più grave, realizzato oltre la loro intenzione dall’autore
materiale.
Ma ove nessuno abbia voluto davvero il reato più grave e ricorra l’ipotesi (
primaria), con l’elemento soggettivo del dolo misto a colpa tipico, della
preterintenzione questa si estende a tutti ai sensi dell’art. 110 cod. pen.: in altri
termini, ai concorrenti si estende, senza attenuazioni, la responsabilità per
l’omicidio preterintenzionale, che di quella prevista ai sensi dell’art. 116 cod.
pen. ha la medesima natura.
All’esito del nuovo giudizio in ordine al titolo di responsabilità per
Pandelea in ordine al reato ascritto al capo 2, dovrà essere, nel caso di
qualificazione ai sensi dell’art. 584 cod. pen., conseguentemente rivista nello
stesso senso la posizione degli imputati De Vizio e De Capua, con esclusione
della diminuente di cui all’art. 116 cod. pen., che resterebbe, per costoro,
assorbita nella riconosciuta estensione della preterintenzione anche alla condotta
primaria.

5. Con riferimento al trattamento sanzionatorio, il ricorso del difensore di
De Capua Alfredo ha denunciato il difetto di motivazione in ordine al diniego delle
attenuanti generiche.
Il motivo deduce che il giudice di appello non avrebbe considerato il
contributo dichiarativo fornito da De Capua e il suo ruolo secondario nella
commissione del reato, evidenziando che la Corte di assise di appello aveva,

21

13.1.1997, Marchitelli, Rv. 207576; Sez. 5, 30.10.2013, n. 12413, rv. 262539) è

invece, riconosciuto le attenuanti generiche al De Vizio proprio per la
collaborazione prestata.
Il motivo è infondato e va respinto.
A fronte della sentenza di primo grado che aveva negato a tutti gli
imputati le attenuanti generiche, evidenziando la gravità del reato e il negativo
profilo soggettivo degli imputati, desumibile dalla condotta posta in essere e
dalla indifferenza dimostrata nei confronti della vittima, l’atto di appello del
difensore di De Capua Alfredo non aveva proposto uno specifico motivo di

generiche.
Si deve precisare che il controllo sulla motivazione va compiuto con
riferimento alle censure, specifiche, proposte con l’atto di appello; nel caso in
esame, invece, la difesa non aveva formulato uno specifico motivo di appello e
quindi, in questa sede, è consentito unicamente di verificare se vi sia stata
motivazione in ordine all’esercizio del potere officioso di concedere le bttenuanti,
meramente sollecitato dalla difesa ( Sez. 3, 12.7.2017, n. 47828, Rv. 271815).
La sentenza impugnata ha negato le attenuanti generiche sul rilievo della
gravità dei fatti, desumibile dalla condizione “debole” della persona offesa, dalla
preordinazione del reato, dall’agire in concorso, valutando che solo la
collaborazione prestata da De Vizio aveva caratteristiche tali da rendere
concedibili le attenuanti generiche.
L’onere motivazionale sul punto risulta dunque adeguatamente assolto.

6. Va dunque pronunciato annullamento della sentenza impugnata nei
confronti degli imputati ricorrenti, limitatamente alla qualificazione giuridica del
delitto di omicidio con rinvio per nuovo giudizio sul capo ad altra sezione della
Corte di assise di appello di Napoli.
Nel resto i ricorsi vanno respinti.
Va dichiarata la irrevocabilità della sentenza impugnata in relazione alla
condanna per i reati posti in continuazione e alle pene per essi inflitte.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata limitatamente alla qualificazione giuridica del
delitto di omicidio con rinvio per nuovo giudizio sul capo ad altra sezione della
corte di assise di appello di Napoli. Rigetta nel resto i ricorsi. Visto l’art. 624,
comma 2, cod. proc. pen., dichiara irrevocabile la sentenza impugnata in
relazione alla condanna per i reati posti in continuazione e alle pene per essi
inflitte.

22

gravame, limitandosi a proporre la richiesta di concessione di attenuanti

Così deciso il 6 marzo 2018.

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