Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 17174 del 23/01/2017


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Penale Sent. Sez. 1 Num. 17174 Anno 2018
Presidente: CORTESE ARTURO
Relatore: TARDIO ANGELA

SENTENZA

sul ricorso proposto da
Oliveri Cristoforo, nato a Lecco il 22/07/1968

avverso la sentenza del 22/09/2015 della Corte di appello di Milano

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Angela Tardio;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Roberto
Aniello, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 22 settembre 2015 la Corte di appello di Milano ha
confermato la sentenza resa in data 11 febbraio 2015 dal Giudice dell’udienza
preliminare del Tribunale di Como, che, all’esito del giudizio abbreviato, aveva
dichiarato Oliveri Cristoforo colpevole del reato di tentato omicidio pluriaggravato
ai danni del fratello Oliveri Marco e della cognata Citterio Cristiana Antonia,
ascrittogli per avere compiuto atti idonei, diretti in modo non equivoco a
cagionarne la morte, consistiti nel cospargerli di benzina, estrarre dalla tasca un

Data Udienza: 23/01/2017

accendino e attivarlo a distanza ravvicinata, senza riuscire nell’intento per la
reazione della cognata e il successivo intervento dei vicini di casa, e lo aveva
condannato alla pena di anni cinque e mesi sei di reclusione, ritenuta la
continuazione, essendo due le vittime dell’azione aggressiva, apprezzate le
aggravanti del fatto commesso anche in danno del fratello e del motivo futile,
ritenuta la recidiva contestata e operata la riduzione per il rito.

2. La Corte di appello, richiamata la ricostruzione dei fatti operata dal

decisione di condanna, dava conto dei motivi di appello, e, premessa la
mancanza di sostanziale contestazione dei fatti e della concreta condotta tenuta
dall’imputato, sì come ricostruiti, nonché delle ritenute circostanze aggravanti e
della recidiva, rilevava, a ragione della decisione, che:
– la riproposta deduzione difensiva che l’azione descritta nel capo di
imputazione integrava il reato di minaccia grave e non il reato di tentato omicidio
era stata già risolta con la sentenza impugnata con argomenti appropriati ed
esaustivi, del tutto condivisi, alla luce dei ripercorsi principi di diritto in tema di
valutazioni da farsi dal giudice per qualificare giuridicamente una condotta come
tentato omicidio o altro;
– doveva procedersi dal rilievo che la condotta contestata, che non aveva
provocato lesioni alle vittime, aveva costituito

l’escalation di una pregressa

condotta aggressiva, nel corso della quale entrambe le persone offese avevano
riportato lesioni, attestate dai certificati medici in atti; dette persone erano, poi,
state, in progressione, cosparse di liquido altamente infiammabile e l’imputato,
tenendo in mano un accendino funzionante a distanza ravvicinata, aveva
esplicitamente minacciato di azionarlo contro le persone offese già
completamente intrise di benzina; tale condotta di per sé, a prescindere dalla
uscita o meno della fiamma dall’accendino, aveva già integrato il tentativo
punibile, avuto anche riguardo alle frasi minacciose, esplicative della intenzione
dell’agente di ammazzare e coerenti con l’azione aggressiva, che avevano
accompagnato la condotta; la ricostruzione dei fatti resa dalla persona offesa
Citterio Cristina, testualmente riportata, era stata sostanzialmente confermata
dagli altri testimoni; il teste Cappellini, in particolare, aveva riferito di avere
udito l’imputato urlare «ti butto la benzina e ti do fuoco», mentre lo vedeva
agitare un accendino di metallo; !a persona offesa Oliveri Marco aveva ricordato
che il fratello, da distanza ravvicinata, aveva provato ad azionare l’accendino, e il
teste Cappalunga, pure vicino di casa, aveva dichiarato di avere visto l’imputato
estrarre un accendino dalla tasca dei pantaloni e di essere corso verso i tre,
bloccando l’imputato che continuava a litigare con il fratello e non aveva più in
mano l’accendino;
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Giudice di primo grado e ripercorse le considerazioni che avevano supportato la

- la condotta dell’imputato, già ritenuta sorretta in primo grado, dal dolo
quantomeno alternativo, era stata interrotta dalla reazione rapida e decisa dei
presenti, preclusiva del chiesto riconoscimento della desistenza volontaria;
– la pena inflitta era proporzionata ai fatti e, mentre non erano riconoscibili
le attenuanti generiche, doveva essere rettificato il calcolo interno per la
determinazione della pena riducendo a mesi due l’aumento per l’aggravante dei
futili motivi.

mezzo del suo difensore avv. Daniela Danieli, chiedendone l’annullamento sulla
base di unico motivo, con il quale denuncia errata applicazione della legge
penale, ex art. 606, comma 1, lett. b) , cod. proc. pen., in relazione agli artt. 56
e 575 cod. pen.
Secondo il ricorrente, le azioni da lui poste in essere sono tipiche della mera
intimidazione, evidenziando la minaccia proferita al fratello e l’omessa
accensione dell’accendino per innescare il fuoco la sua intenzione di intimorire
concretamente le parti offese, e non di volerne provocare la morte sulla base di
un giudizio probabilistico.
Peraltro, la destinazione dell’azione in contesto dimostrativo è comprovata
dal fatto che l’utilizzo effettivo dell’accendino con la finalità di appiccare il fuoco
avrebbe coinvolto egli stesso nel fuoco, essendosi i suoi vestiti impregnati della
benzina versata sul fratello e sulla cognata.
Sul piano oggettivo doveva essere esclusa l’idoneità dell’azione a provocare
la morte delle persone offese, mentre si era erroneamente anticipato il momento
di realizzazione del tentativo, attesa l’assenza di fiamma o di scintille e
considerato il solo versamento di liquido infiammabile.
In ogni caso, anche la presunta fiamma vista dalla parte offesa Citterio è
rimasta accesa, secondo le dichiarazioni della stessa, per un attimo prima di
spegnersi quasi subito, e nessuno ha parlato di un suo movimento per porre la
fiamma in contatto con il liquido infiammabile.
Vi erano stati, quindi, solo atti prodromici che non avevano raggiunto la
soglia del tentativo.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso, proposto sulla base di censure manifestamente infondate
ovvero generiche o non consentite, deve essere dichiarato inammissibile con
ogni conseguenza di legge.

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3. Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’imputato, per

2. Si premette in diritto che, per aversi il reato tentato, l’art. 56 cod. pen.
richiede la commissione di atti idonei, diretti in modo non equivoco a
commettere un reato. È, quindi, elemento strutturale oggettivo del tentativo,
insieme alla direzione non equivoca degli atti, l’idoneità degli stessi, dovendosi
intendere per tali quelli dotati di una effettiva e concreta potenzialità lesiva per il
bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice, alla luce di una valutazione
prognostica compiuta ex post (e quindi postuma), con riferimento alla situazione
così come presentatasi al colpevole al momento dell’azione in base alle

condizionata dagli effetti realmente raggiunti (tra le altre, Sez. 1, n. 3185 del
10/02/2000, Stabile, Rv. 215511; Sez. 1, n. 39293 del 23/09/2008, Di Salvo,
Rv. 241339; Sez. 1, n. 32851 del 10/06/2013, Ciancio Cateno, Rv. 256991
Sez. 2, n. 44148 del 07/07/2014, Guglielmino, Rv. 260855), e, quindi, tenendosi
conto con giudizio ex ante, nella prospettiva del bene protetto, delle circostanze
in cui ha operato l’agente e delle modalità dell’azione (tra le altre, Sez. 6, n.
27323 del 20/05/2008, R, Rv. 240736; Sez. 1, n. 19511 del 15/01/2010, Basco,
Rv. 247197; Sez. 1, n. 27918 del 04/03/2010, Resa, Rv. 248305).
2.1. Questa Corte ha anche ripetutamente affermato che, al fine della
qualificazione del fatto quale tentato omicidio, invece che quale lesione personale
o altro, si deve avere riguardo al diverso atteggiamento psicologico dell’agente e
alla diversa potenzialità dell’azione lesiva, richiedendosi nel primo un quid pluris
che tende ed è idoneo a causare un evento più grave di quello realizzato in
danno dello stesso bene giuridico o di uno superiore, riguardante lo stesso
soggetto passivo, che non si realizza per ragioni estranee alla volontà dell’agente
(tra le altre, Sez. 1, n. 35174 del 23/06/2009, M., Rv. 245204; Sez. 1, n. 37516
del 22/09/2010, Bisotti, Rv. 248550; Sez. 1, n. 51056 del 27/11/2013, Tripodi,
Rv. 257881).
Con riferimento particolare all’elemento psicologico del dolo, riguardo al
reato di tentato omicidio, è costante l’orientamento alla cui stregua la figura di
reato prevista dall’art. 56 cod. pen., che ha come suo presupposto il compimento
di atti finalizzati («diretti in modo non equivoco») alla commissione di un delitto,
non ricomprende quelle condotte rispetto alle quali un evento delittuoso si
prospetta come accadimento possibile o probabile non preso in diretta
considerazione dall’agente, che accetta il rischio del suo verificarsi (c.d. dolo
eventuale) (tra le altre, Sez. 1, n. 25114 del 31/03/2010, Vismara, Rv. 247707;
Sez. 6, n. 14342 del 20/03/2012, R., Rv. 252565), ricomprendendo invece gli
atti rispetto ai quali l’evento specificamente richiesto per la realizzazione della
fattispecie delittuosa di riferimento si pone come inequivoco epilogo della
direzione della condotta, accettato dall’agente che prevede e vuole, con scelta
sostanzialmente equipollente, l’uno o l’altro degli eventi causalmente ricollegabili
4

condizioni umanamente prevedibili del caso particolare, che non può essere

alla sua condotta cosciente e volontaria (c.d. dolo diretto alternativo), o
specificamente voluto come mezzo necessario per raggiungere uno scopo finale o
perseguito come scopo finale (c.d. dolo diretto intenzionale) (tra le altre, Sez. U,
n. 748 del 12/10/1993, dep. 1994, Cassata, Rv. 195804; Sez. 1, n. 10431 del
30/10/1997, Angelini, Rv. 208932; Sez. 1, n. 27620 del 24/05/2007, Mastrovito,
Rv. 237022; Sez. 1, n. 12594 del 29/01/2008, Li, Rv. 240275; Sez. 1, n. 11521
del 25/02/2009, D’Alessandro, Rv. 243487; Sez. 1, n. 9663 del 03/10/2013,
dep. 2014, Nardelli, Rv. 259465).

deve essere, in particolare, desunta attraverso un procedimento inferenziale,
analogo a quello utilizzabile nel procedimento indiziario, da fatti esterni o certi,
aventi un sicuro valore sintomatico, e in particolare da quei dati della condotta
che, per la loro non equivoca potenzialità offensiva, siano i più idonei a
esprimere il fine perseguito dall’agente secondo

l’id quod plerumque accidit,

quali esemplificativamente il comportamento antecedente e susseguente al
reato, la natura del mezzo usato, le parti del corpo della vittima attinte e la
reiterazione dei colpi (tra le altre, Sez. 1, n. 39293 del 23/09/2008, citata; Sez.
1, n. 37516 del 22/09/2010, citata; Sez. 1, n. 30466 del 07/07/2011, Milettaro,
Rv. 251014; Sez. 1, n. 35006 del 18/04/2013, Polisì, Rv. 257208).
2.2. Questa Corte ha da tempo anche sottolineato (Sez. 1, n. 450 del
18/03/1968, Orsini, Rv. 108721) e poi riaffermato (tra le altre, Sez. 1, n. 52043
del 10/06/2014, Vaghi, Rv. 261702) che, in tema di tentato omicidio, la scarsa
entità delle lesioni cagionate alla vittima e la inesistenza di lesioni non sono
circostanze idonee a escludere di per sé l’intenzione omicida, in quanto possono
essere rapportabili anche a circostanze indipendenti dalla volontà dell’agente,
come un imprevisto movimento della vittima, un errato calcolo della distanza o
una mira non precisa

3. La Corte di merito, in coerenza con tali condivisi principi, ha dato
esaustivo conto delle ragioni giustificative della conferma delle valutazioni svolte
dal Giudice di primo grado, che aveva già posto in debito risalto gli elementi
probatori acquisiti e ritenuto dimostrata l’imputazione ascritta e pertinente la
qualificazione giuridica del fatto.
3.1. Facendo richiami non incongrui ai dati fattuali esaminati, tratti dalla
svolta ricostruzione della vicenda e della concreta condotta dell’imputato,
ripercorsa con illustrazione specifica, nella parte espositiva, degli apporti
dichiarativi delle persone offese e dei testi, la Corte di appello, nel dare
preliminarmente atto dell’assenza di contestazioni, confrontandosi con le
questioni devolute, in ordine a detta ricostruzione che ha condiviso, ha ritenuto,
con ragionevole apprezzamento

ex ante,
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che fossero dimostrativi della

La prova del dolo, in assenza di esplicite ammissioni da parte dell’imputato,

sussistenza del tentato omicidio e della responsabilità dell’imputato (sì come
sintetizzato sub 2 del «ritenuto in fatto»), in continuità argomentativa con
l’analisi già svolta, la circostanza fattuale che, in esito a pregresse condotte
aggressive dell’imputato e lesive delle persone offese attestate da certificati
medici, il primo aveva cosparso il corpo delle seconde di liquido altamente
infiammabile e aveva in mano a distanza ravvicinata un accendino funzionante; il
dato che tale condotta era stata accompagnata, nella progressione dell’azione
aggressiva, antecedente e successiva all’utilizzo della tanica per cospargere di

minacciose, il cui contenuto -testualmente ripreso- era coerente con l’azione
aggressiva in corso ed esplicito della intenzione dello stesso imputato, riferite
dalla persona offesa Citterio e dal teste Cappellini; la circostanza che l’accendino
era stato estratto dalla tasca da parte dell’imputato, gridando la frase «adesso ti
brucio» e provando ad azionarlo (secondo le dichiarazioni della persona offesa
Oliveri) ovvero riuscendo in una occasione ad azionandolo (secondo le
dichiarazioni della persona offesa Citterio), e comunque tenendolo, per concorde
emergenza, a distanza ravvicinata rispetto alle persone offese; la circostanza che
la presenza dell’accendino metallico nella mani dell’imputato e/o la pronuncia
delle frasi minacciose pertinenti al ricorso al fuoco, correlato all’uso della
benzina, era stata rilevata anche dai testi Cappellini e Cappalunga, vicini di casa,
il cui intervento rapido e deciso, unitamente alla reazione delle vittime, aveva
interrotto l’azione.
La Corte, valorizzando tali precisi e univoci indicatori fattuali, ha, quindi,
conclusivamente rimarcato che le evidenze disponibili confermavano la
sussistenza, sul piano soggettivo, della volontà omicida, e che i ripresi passaggi
argomentativi della sentenza erano corretti in diritto e persuasivi nel merito
anche in punto di idoneità e univocità della condotta a cagionare l’evento e di
mancata consumazione della stessa per cause non riconducibili alla volontà
dell’imputato, senza prescindere dall’analisi delle ragioni prospettate nell’atto di
appello, giudicate soccombenti a fronte degli argomenti spesi dal primo Giudice e
ripercorsi e approfonditi nel giudizio di appello.
3.2. Tali valutazioni, esenti da vizi giuridici e coerenti nella impostazione e
nello sviluppo logico, resistono alle doglianze difensive.
Il ricorrente, infatti, mentre del tutto infondatamente si duole della incorsa
violazione della normativa di riferimento e genericamente censura la operata
riconduzione del fatto nella fattispecie del tentato omicidio reclamandone la
qualificazione come mera intimidazione ovvero come atto dimostrativo, oppone sotto l’aspetto della contestazione della congruenza logica della decisione e della
completezza della valutazione delle risultanze probatorie- deduzioni e
osservazioni, che -in sovrapposizione argomentativa rispetto ai passaggi motivi
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benzina le persone offese, dalla ripetuta pronuncia da parte dell’imputato di frasi

della sentenza e senza correlazione specifica e critica con le risposte ricevute ad
analoghe deduzioni già sostenute e discusse in sede di merito- svolgono
sostanziali censure sul significato e sulla interpretazione di elementi di fatto posti
a fondamento del discorso giustificativo della decisione quanto alla ricostruzione
degli elementi, oggettivo e soggettivo, del tentato omicidio, reclamandone una
rivisitazione nel merito (con il riferimento, in particolare, al gesto, mancato, di
«porre in contatto la fiamma con il liquido infiammabile», a fronte dell’accertata
distanza ravvicinata dell’imputato alle persone offese, da lui stesso cosparse di

parametri di ricostruzione e valutazione, non consentita ai sensi dell’art. 606,
comma 3, cod. proc. pen.

4. Alla inammissibilità del ricorso, che si dichiara, segue la condanna del
ricorrente al pagamento delle spese processuali e, in mancanza di elementi atti a
escludere la colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al
versamento della somma, ritenuta congrua, di millecinquecento euro alla cassa
delle ammende, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e al versamento della somma di millecinquecento euro alla
cassa delle ammende.
Così deciso il 23/01/2017
Il Consigliere estensore
Angela Tardio

liquido fortemente predisposto a infiammarsi), con l’adozione di alternativi

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