Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 1716 del 12/12/2012


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Penale Sent. Sez. 4 Num. 1716 Anno 2013
Presidente: SIRENA PIETRO ANTONIO
Relatore: ROMIS VINCENZO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
1) COLOMBO ANTONIO N. IL 17/06/1959
avverso la sentenza n. 4864/2011 CORTE APPELLO di MILANO, del
01/02/2012
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 12/12/2012 la re azione fatta dal
Consigliere Dott. VINCENZO ROMIS
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott.
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che ha concluso per

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Data Udienza: 12/12/2012

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RITENUTO IN FATTO
1. Colombo Antonio veniva tratto a giudizio per rispondere del reato di lesioni personali colpose in
danno di Barone Carlo Antonio, secondo la seguente contestazione: perché nella qualità di medico
curante di Barone Carlo Antonio presso la “Sezione Emodinamica ”

“EMO SRL”, operante

all’interno della Casa di Cura Columbus di Milano, e di medico chirurgo del medesimo presso la
Casa di Cura Columbus di Milano, con la condotta consistita nel sottoporre il paziente stesso ad un
intervento chirurgico di ricanalizzazione meccanica dell’occlusione trombotica del by-pass femoroperoniero sinistro a 5 mm. dalla femorale comune, aveva cagionato a Barone Carlo Antonio lesioni

quarantadue giorni (fino alla dimissione definitiva dagli ospedali e dalla casa di cura in cui era stato
sottopoto a riabilitazione) nonché postumi neurologici permanenti anatomo-funzionali che avevano
comportato l’indebolimento temporaneo della gamba sinistra, del linguaggio e della capacità di
movimento complessiva; commettendo il fatto con impudenza, imperizia e negligenza nell’osservanza
e nell’applicazione e nell’adozione delle regole generali dell’ arte medica e con colpa specifica
ravvisabile nella violazione di arte medica e medico-chirurgica consistita: nell’imprudenza nella scelta
dei provvedimenti attuati nel corso dell’intervento chirurgico sulla persona del Barone ed in particolare
nell’impiego relativamente prolungato di un fibrinolitico associato ad eparina, scelta imprudente
considerata l’incerta utilità di tale impiego a fronte di un’ipotesi di trombosi in corso nel paziente,
trombosi comunque non recentissima, e fibrinolitico associato ad eparina il cui effetto nel paziente
non bilanciava i rischi nel medesimo di complicanze emorragiche che in effetti poi si erano verificate
nella sede subaracnoidea e cerebellare del paziente; nell’imprudenza consistita nel continuare nei
confronti del Barone la terapia con fibrinolitico anche quando erano comparsi i segni, quanto meno
sospetti, delle complicanze erroneamente attribuite dal dott. Colombo alla glicemia divenuta elevata,
indicazione erronea per la persistenza nel tempo di tali segni ed in particolare per la permanenza nel
paziente della difficoltà di eloquio che era stata ridotta allorquando sulla sua persona erano stati
adeguati i dosaggi di insulina; nell’imprudenza e nell’imperizia ravvisabili nel trattamento iniziale
operato sulla persona del Barone e praticato quando i segni ostruttivi del by-pass posto nel suo arto
inferiore sinistro non erano recentissimi ed era incerta la causa dell’ostruzione e quindi risultava
dubbia l’utilità di un trattamento che esponeva il paziente a rischi di emorragia che di fatto si era poi
prodotta, con conseguenze ad esse addebitabili, verificate e da ammettersi come sicure (fatto
commesso in Milano il 26/3/2006 con permanenza per la persistenza delle lesioni sulla persona del
Barone Carlo Antonio).

2. Con sentenza pronunciata in data 29 ottobre 2010, il Tribunale di Milano, in composizione
monocratica, dichiarava l’imputato colpevole del reato a lui ascritto, quale sopra descritto, e
lo condannava, previa concessione delle attenuanti generiche, prevalenti sulle contestate
aggravanti, alla pena di mesi uno di reclusione ed al risarcimento dei danni nei confronti
della parte civile costituita, da liquidarsi in sede civile, determinando, a titolo di
provvisionale, la somma di euro 20.000,00.
Il Tribunale descriveva analiticamente la storia clinica di Antonio Barone dal settembre
1999, quando il paziente aveva subito un trapianto di rene e pancreas, fino al 2004,
procedeva poi all’esame dei fatti annotati nella cartella clinica durante il ricovero presso la
clinica Columbus il 22 marzo 2006, a seguito di daudicatio sinistra e della diagnosi di

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gravi da cui era derivata l’incapacità ad attendere alle ordinarie occupazioni per un periodo di

occlusione trombotica del by-pass venoso femoro-peroniero sinistro a 5 mm dall’origine
delta femorale comune.
Il Tribunale riteneva che la decisione del dr. Colombo di persistere nell’adozione della
procedura di infusione di Actilyse, per 20 ore – nonostante l’esito negativo del tentativo di
disostruzione del by-pass, mentre Antonio Barone era in terapia con plurimi preparati ad
azione antiplastrinica s ed ancora dopo la comparsa di nausea, vomito, cefalea, rallentamento
motorio, difficoltà nell’eloquio, stato confusionale, ematuria – fosse stata, per un verso,
emorragia cerebrale, diagnosticata soltanto il 26 marzo 2006, presso altro Ospedale ove il
paziente era stato ricoverato a seguito della perdita di coscienza: qualificava, pertanto,
altamente imprudente la scelta operativa del curante, così come l’omesso monitoraggio del
malato nel corso della terapia fibrinolitica e la mancata sottoposizione ad idonei controlli
dopo la comparsa degli ulteriori sintomi descritti, a seguito dei quali Antonio Barone aveva
riportato le menomazioni descritte nel capo di imputazione. Il giudicante poneva a
fondamento della propria decisione elementi di prova desunti dalle deposizioni dei testi,
dalla documentazione acquisita ritualmente (cartella clinica ed infermieristica), dalle relazioni
dei periti del Tribunale, valutate anche alla luce degli accertamenti svolti dai consulenti
incaricati dal P.M. e del chiarimenti resi dai consulenti nel corso del dibattimento.
3. Proponeva rituale gravame il difensore dell’imputato e la Corte d’Appello di Milano
confermava l’impugnata decisione, e, in risposta alle censure dedotte dalla difesa
dell’imputato, dava conto del proprio convincimento richiamando l’ampia motivazione del
primo giudice perchè ritenuta del tutto condivisibile e svolgendo argomentazioni che possono
così riassumersi: A) le condizioni cliniche del Barone erano ben note al dottor Colombo, che
lo aveva in cura da anni; si trattava di soggetto diabetico, pluritrapiantato (rene e
pancreas), sottoposto a costante terapia antiaggregante, già operato ad entrambe le
carotidi, con un sistema circolatorio complessivamente compromesso; al momento del
ricovero, l’ecodoppler aveva attestato una totale occlusione del by-pass venoso
femoro-peroniero sinistro a 5 mm dall’origine della femorale comune; la situazione, non era
urgente, ma richiedeva una valutazione attenta, soprattutto dopo aver inizialmente tentato,
correttamente, ma senza alcun successo, una disostruzione meccanica del by-pass; dovevano
essere soppesati tutti i rischi e le diverse opzioni possibili, modificando la scelta del corso del
ricovero (esame Prestipino ud. 26 giugno 2008, p.9); sebbene il primo tentativo di
disostruzione meccanica, con infusione di Actilyse potesse ritenersi indicato, nondimeno il
fallimento totale di tale tentativo, praticato il pomeriggio del 22 marzo 2006, doveva far
ritenere al dottor Colomb che il trombo non fosse sensibile al trombolitico, in quanto ormai
completamente organizzato, con conseguente prevedibile inutilità del successivo tentativo di
scioglierlo, al di là della possibile epoca di formazione; la scelta di praticare un trattamento
fibrinolitico per 20 ore non poteva in alcun modo considerarsi come un momento di
attendismo ragionato, utile per programmare ulteriori interventi terapeutici, trattandosi al

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inidonea a risolvere la patologia in atto, e, per altro verso, causa dell’insorgenza della

contrario di scelta attiva che comportava un certo margine di rischio risultando
scientificamente documentati gli effetti sistemici, con possibilità di serio sanguinamento,
prodotti dal il fibrinolitico; come osservato dal primo giudice, la terapia praticata dal dottor
Colombo poteva apparire giustificata solo nel caso di prevedibile utilità, e, nel caso di
specie, non poteva essere ritenuta condivisibile in quanto inidonea a migliorare le condizioni
cliniche del paziente e fonte di ulteriori rischi concreti; il rischio di emorragia per il Barone
era particolarmente elevato, trattandosi di un soggetto diabetico, sottoposto a cronica
era ben noto al dottor Colombo, da tempo suo medico curante; B) le condivisibili conclusioni
cui era pervenuto il primo giudice trovavano riscontro anche nelle linee guida della Siset,
Società italiana per Io studio dell’emostasi e delle trombosi, che, pur prevedendo l’impiego
dell’Actilyse nelle trombosi venose profonde, raccomandavano tuttavia che “al momento
attuale si esclude il trattamento trombolitico della 71/P (trombosi venosa profonda)
nell’anziano, limitando questo trattamento a pazienti giovani che presentino estesa trombosi
venosa profonda prossimale e senza alcuna evidenza di fattori di rischio emorragico”; di tal
che, risultava superata anche l’ulteriore osservazione svolta dalla difesa appellante, peraltro
in termini generici, secondo cui non sarebbe stato dimostrato che la sospensione della
doppia aggregazione e la somministrazione di farmaci avrebbe sortito esito positivo e non
avrebbe, invece, provocato fenomeni trombotici con danni anche maggiori a livello cardiaco,
cerebrale o anche agli stessi arti; C) quanto al profilo di colpa contestato all’imputato con
riferimento all’omesso compimento degli accertamenti necessari, a seguito della
sintomatologia manifestata dal Barone nella notte successiva all’inizio del trattamento,
apparivano infondate le deduzioni difensive posto che: i sintomi si erano protratti per tutto il
tempo successivo all’inizio della terapia fino alle dimissioni; la valutazione non unitaria, ma
parcellizzata, dei singoli sintomi, quale modalità di approccio alla grave problematica, doveva
considerarsi evidentemente errata, ed il fatto che non fosse stato colto il significato dei
sintomi manifestati dal paziente, trovava conferma nella somministrazione di farmaci atti a
curare i sintomi, (Toradol e Contramal per la cefalea, Plasil per nausea e vomito): come
evidenziato compiutamente dai periti del Tribunale in termini chiari a p. 21 della relazione,
nonché dai consulenti del pubblico ministero, e quindi dal giudicante nella sentenza gravata,
si trattava di sintomi precisi e concordanti di un’emorragia in atto con conseguente
necessità di una urgente indagine radiografica tramite TAC: l’omissione di tale accertamento
configurava una grave negligenza da parte del sanitario; ed invero il pronto rafforzamento
della terapia ipotensivizzante avrebbe evitato la prosecuzione nel tempo del fenomeno
emorragico e dunque scongiurato il terminale aggravamento dello stesso con produzione di
ematoma intracerebellare bilaterale (perizia p. 25 ed esame 6 maggio 2009); D) in
mancanza di specifiche contestazioni in ordine alla valenza scientifica dei dati che il primo
giudice aveva desunto dalle relazioni dei periti e dei consulenti del P.M, non poteva
accedersi alla richiesta di rinnovazione della indagine medico-legale, palesandosi

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terapia antiaggregante, con una generale compromissione del sistema cardiovascolare, come

evidentemente ingiustificata la doglianza relativa alla insufficiente preparazione tecnica dei
periti nominati, per non poter vantare una specializzazione in neurologia: tanto i consulenti
del P.M., quanto i periti nominati dal Tribunale, vantavano specializzazioni in chirurgia
vascolare e angiologia e medicina legale, ed in tale qualità erano stati certamente in grado di
effettuare diagnosi differenziali, indicare gli strumenti di indagine più appropriati e gli
approcci terapeutici che i sanitari avrebbero dovuto attuare presso la Columbus, in attesa di
ulteriori consulenze specialistiche e dell’eventuale trasferimento del paziente presso diverse
sentenza delle Sezioni Unite in data 11 settembre 2002 e con quelle successive che quei
principi avevano poi costantemente ribadito, appariva certamente sussistente il nesso di
causalità tra la condotta del dott. Colombo e l’evento, avuto riguardo a quanto evidenziato
dal primo giudice in base alle indicazioni fornite dai periti ed alle conclusioni dagli stessi
rassegnate, adottando un procedimento di valutazione sostanzialmente sovrapponibile a
quello seguito dai consulenti del P.M.; ed invero: 1) sulla base dell’evidenza scientifica,
adeguatamente documentata e sorretta da valutazioni tecniche di comune esperienza, la
corretta e tempestiva valutazione del fallimento del tentativo di disostruzione meccanica con
infusione di Actilyse, seguito da un efficace monitoraggio, avrebbe consentito di evitare,
ovvero diagnosticare al suo esordio, il sanguinamento cerebrale, nella
stillicidio; 2)

forma di lento

la sottoposizione ad indagine radiografica, dopo la manifestazione

contemporanea dei sintomi di cefalea, nausea, vomito, rallentamento psichico, avrebbe
comunque consentito l’accertamento dell’emorragia in tempi ancora utili a contenere le
conseguenti menomazioni; 3) i periti del Tribunale, a p. 21 della propria relazione, avevano
ritenuto provato che “in epoca immediatamente successiva alla procedura angiografica del
23 marzo 2006, e dunque in calce ad un carico di preparati farmacologici ad effetto
antipiastrinico e fibrinolitico, il paziente ha cominciato a sanguinare a livello endocranico, in
forma di lento stillicidio”; 4) in ordine alla condotta del medico fin qui descritta, non si
poneva alcuna esigenza di verifica contro-fattuale, trattandosi di mere omissioni sul piano
del controllo e della diagnosi, rilevate sulla base di fondamentali regole dell’arte medica;
5) alla tempestiva diagnosi della problematica neurologica sarebbe dovuta seguire la
sospensione immediata della terapia antiaggregante, l’intensificazione della terapia
ipotensivizzante e l’attuazione di uno stretto follow up ospedaliero, fino alla completa
soluzione del quadro emorragico ovvero fino al trasferimento ospedaliero, in caso di
aggravamento (così come avevano spiegato nella relazione i periti del Tribunale a p. 24-25
ed i periti all’udienza del 6 maggio 2010); 6) come riferito dai periti, la regola è che,
intervenendo per tempo con tali misure, una emorragia post-fibrinolitica tende ad
arrestarsi; 7) i periti del Tribunale, pur utilizzando un linguaggio prudenziale, avevano
affermato che la sindrome a carico del Barone era riconducibile in via di elevata probabilità
alla dimostrata conclamazione di un franco ematoma cerebellare bilaterale (come
evidenziato da TC nel tardo pomeriggio del 26 marzo 2006) ed avevano concluso precisando

(Dio (A/k)

strutture; E) sulla scorta dei principi enunciati nella giurisprudenza di legittimità con la

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che un operato del sanitario assolutamente conforme ai corretti precetti di perizia, prudenza
e diligenza avrebbe scongiurato lo scadimento dell’emorragia intracranica del paziente e,
dunque, avrebbe evitato l’insorgenza della sindrome neurologica da cui era derivata la
permanente menomazione dell’organo dell’equilibrio statico e dinamico: formulando dette
osservazioni sulla base, non soltanto di dati statistici, ben& di una attenta considerazione, su
base scientifica, degli effetti propri dei farmaci prescritti e delle scelte alternative, come
dimostrato dall’effetto positivo seguito alla sospensione del trattamento farmacologico
combinato, dopo la sincope, a seguito del ricovero del paziente presso altri nosocomi; 8) i
periti, infine, non avevano collegato l’esistenza di ulteriori rischi alla sospensione della
terapia antiaggregante ed alla intensificazione di quella ipotensivizzante, nel quadro
delineato: di tal che doveva desumersi che nel caso concreto eventuali rischi fossero
comunque da ritenere notevolmente e decisamente inferiori a quelli derivanti dall’impiego
prolungato del fibrinolitico; 9) in base ai dati tecnici forniti dai periti incaricati dal Tribunale,
valutati alla luce dei criteri giuridici, doveva convenirsi sull’esattezza delle conclusioni
formulate dai periti medesimi, potendo attribuirsi alle stesse un elevato grado di probabilità,
prossima alla certezza, con conseguente responsabilità penale del sanitario imputato; 10) il
riferimento agli studi Interact e Atach effettuati dall’appellante non apparivano significativi
con riferimento alle peculiarità del caso concreto, ed in ogni caso la tempestiva diagnosi
dell’emorragia, con una semplice TAC, avrebbe consentito l’attuazione dei rimedi atti a
contenere le conseguenze menomanti in tempi utili; F) risultava congrua la pena irrogata dal
Tribunale, essendo stata la pena base determinata in mesi uno e giorni 15 di reclusione,
dunque in misura prossima al minimo edittale; avuto riguardo ai criteri indicati nell’art. 133
c.p. – e tenuto conto in particolare della posizione di garanzia del medico e dell’entità delle
conseguenze derivate alla parte lesa – non si ravvisavano margini per un giudizio di
prevalenza delle attenuanti generiche sulle contestate aggravanti, né per la conversione
della sanzione, di entità comunque sicuramente contenuta, essendo stati concessi,
opportunamente, i benefici della sospensione della pena e della non menzione della condanna.
4. Ricorre per cassazione il dott. Colombo, a mezzo del difensore, formulando plurimi motivi di

Il

doglianza con diffuse argomentazioni – e con il richiamo a specifici atti del processo – che
possono sintetizzarsi come segue: 1° MOTIVO – Avrebbe errato la Corte di merito nel ritenere
che l’insuccesso del tentativo di disostruzione meccanica avrebbe confermato che il trombo
non era recente e, quindi, non sensibile al trattamento fibrinolitico: risulterebbe tra l’altro
pacifico in letteratura che ad un tentativo di disostruzione meccanica dello stant occluso debba
sempre seguire, in caso di insuccesso, il trattamento fibrinolitico; nel caso in esame ciò
sarebbe stato ancor più opportuno avuto riguardo alle condizioni cliniche del paziente;
2° MOTIVO – la cadenza temporale degli eventi – secondo la descrizione riportata nella
cartella clinica – dimostrerebbe che il dott. Colombo non avrebbe trascurato i sintomi accusati
dal paziente, posto che: la nausea ed il vomito avvertiti dal paziente il 23 marzo 2006, dopo il
tentativo di ricanalizzazione meccanica, e la terapia medica in infusione, sarebbero sintomi

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comuni dopo la somministrazione di mezzo di contrasto e antibiotici, anche perchè in quella
fase il paziente mostrava iperglicemia cui spesso si associano nausea e vomito; era stato
registrato un miglioramento delle condizioni del paziente essendo regredita la nausea, e la
stessa cefalea lamentata dal paziente non poteva avere significato univoco nel senso di un
sanguinamento parenchimale e soprattutto sub-aracnoideo, posto che presentava le
caratteristiche dell’emicrania ed i familiari del Barone avevano riferito che tale disturbo era
stato avvertito dal loro congiunto anche in occasione di rialzi significativi dei valori glicemici;
e solo nel pomeriggio del 26 marzo, quando il Barone si trovava al suo domicilio per propria
scelta, al di fuori quindi della possibilità di intervento dei sanitari della Columbus, erano
comparse manifestazioni cliniche tali da rendere necessario il ricovero immediato;
30 MOTIVO – La Corte distrettuale avrebbe omesso di dare risposta alle deduzioni difensive
circa la somministrazione della doppia terapia antiaggregante, con riferimento all’emorragia
cerebrale; detta terapia, oltre ad essere ritenuta necessaria dai protocolli internazionali per
almeno 24 ore dal trattamento trombolitico, nel caso di specie appariva giustificata anche
dalle condizioni critiche del circolo sistemico del paziente; inoltre la sospensione della terapia
antiaggregante avrebbe dato gli effetti previsti solo a distanza di 5 giorni dopo la sospensione,
per cui tale sospensione avrebbe avuto solo un effetto “formale e non effettivamente in grado
di modificare la storia naturale dell’evento avverso” (pag. 12 del ricorso); 4° MOTIVO – Vizio
di motivazione relativamente al diniego della rinnovazione dell’istruttoria finalizzata
all’espletamento di un supplemento di perizia: ed invero nel collegio peritale nominato in
primo grado non era stato inserito uno specialista in neurologia, pur dovendo individuarsi in
una emorragia cerebrale l’evento lesivo patito dalla parte lesa; la memoria difensiva, con
argomenti finalizzati a contestare le conclusioni cui erano pervenuti i periti, non sarebbe stata
per nulla vagliata dai giudici di merito; 5° e 6° MOTIVO – Vizio di motivazione in ordine alla
ricostruzione dell’evento emorragico ed al nesso di causalità: in particolare, i periti non
sarebbero stati in grado di ricostruire con certezza la fisiopatologia descritta in atti e
sarebbero giunti ad una definizione di probabilità e non di certezza, anche perché per la

inoltre il 26 marzo alle ore 10 era stata proposta una visita neurologica rifiutata dal paziente,

ricostruzione tecnica erano partiti da un presupposto di interpretazione fattuale,
probabilistico; non sarebbe stata fornita la prova del nesso eziologico tra la presunta condotta
omissiva e l’evento emorragico, tenuto conto dei princìpi enunciati in materia dalla
giurisprudenza di legittimità anche a Sezioni Unite; 7 0 MOTIVO – Vizio di motivazione in
ordine al diniego della sanzione sostitutiva di quella detentiva, avendo il giudice di seconde
cure ancorato detta statuizione alla misura contenuta della pena inflitta ed al riconoscimento
dei benefici di legge da parte del primo giudice, trascurando altri parametri, pur rilevanti ai fini
dell’applicabilità dell’art. 58 della legge n. 689/81 (si rileva un refuso a pag. 24 del ricorso
laddove è stato indicato il 1989 quale anno di tale legge).
5. E’ stata poi depositata una memoria difensiva nell’interesse del dott. Colombo con motivi
aggiunti che possono riassumersi come segue: la Corte territoriale avrebbe travisato le

od)

osservazioni dei periti circa l’individuazione del momento iniziale del fenomeno emorragico,
avendo affermato che i periti avrebbero dato per provato che il sanguinamento a livello
endocranico sarebbe iniziato in epoca immediatamente successiva alla procedura
angiografica del 23 marzo 2006, mentre gli stessi periti a pag. 21 della relazione avevano
precisato al riguardo che si trattava di “indicazioni probabilistiche e non (…..) conclusioni
certe ed assolute”: sarebbe stata dunque creata una certezza probatoria in realtà
inesistente, in relazione ad un punto cruciale della vicenda, a fronte della prospettazione
allorquando il Barone era al suo domicilio dopo aver anche rifiutato la visita specialistica
propostagli dal medico della clinica Columbus; ad avviso della Corte d’Appello il
sanguinamento sarebbe stato causato dalla seconda somministrazione di Actilyse per 20
ore: avendo tuttavia la stessa Corte considerato corretto il primo tentativo di disostruzione
meccanica con infusione di Actilyse, i giudici di seconda istanza sarebbero incorsi in errore
non avendo spiegato perché l’inizio del sanguinamento sarebbe seguito al secondo
trattamento con Actilyse e non al primo (ritenuto corretto); in tale ultimo caso il dott.
Colombo avrebbe dovuto rispondere non già della causazione dello spandimento ematico ma
al più della successiva omissione di diagnosi e terapia, con conseguente ridimensionamento
della responsabilità e del trattamento sanzionatorio; inoltre già nel 2004 (come segnalato
alla Corte d’Appello con i motivi di appello a pag. 10) il Barone era stato sottoposto a
trattamento con Actilyse (in occasione di una precedente occlusione) con effetti positivi e
senza sanguinamento, e la Corte distrettuale avrebbe errato nell’ignorare detto precedente;
sono state infine reiterate le doglianze in punto di trattamento sanzionatorio.
CONSIDERATO IN DIRITTO

6. La Corte d’Appello ha ritenuto di poter ravvisare connotazioni di colpa nella condotta del
dott. Colombo, sotto il duplice profilo della imperizia e della negligenza, laddove lo stesso
continuò il trattamento fibrinolitico pur in presenza di una sintomatologia tale da poter far
ipotizzare un processo emorragico in atto, omettendo di effettuare esami diagnostici di

semplice esecuzione, ed in particolare una TAC che avrebbe potuto dissipare qualsiasi
dubbio in proposito.
Orbene, il percorso motivazionale seguito dalla Corte territoriale a tale specifico
riguardo – quale sopra ricordato nella parte narrativa e da intendersi qui integralmente
richiamato onde evitare superflue ripetizioni – risulta immune da vizi di illogicità ed in
sintonia con i principi enunciati in materia nella giurisprudenza di legittimità. Mette conto
sottolineare, invero, che l’obbligo di garanzia non presenta particolari problemi con
riferimento ai trattamenti medico chirurgici: è sufficiente infatti che si sia instaurato un
rapporto sul piano terapeutico tra paziente e medico per attribuire a quest’ultimo la
posizione di garanzia, vale a dire quella funzione di garante della vita e della salute del
paziente che lo rende responsabile delle condotte colpose che abbiano cagionato una lesione
di questi beni. E’ altresì pacifico – alla luce del consolidato indirizzo affermatosi in materia

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difensiva secondo cui il fenomeno emorragico sarebbe iniziato invece il 26 marzo

nella giurisprudenza di questa Corte – che versa in colpa il medico che, di fronte ad una
sintomatologia idonea a porre una diagnosi differenziale, mantenga ferma l’erronea
posizione diagnostica iniziale: “in tema di responsabilità professionale medica, nel caso in
cui il sanitario si trovi di fronte ad una sintomatologia idonea a porre una diagnosi
differenziale, la condotta è colposa quando non vi si proceda, mantenendosi nell’erronea
posizione diagnostica iniziale. E ciò vale non soltanto per le situazioni in cui la necessità
della diagnosi differenziale sia già in atto, ma anche quando è prospettabile che vi si debba
significatività del perdurare del quadro già esistente” (Sez. 4, n. 4452 del 29/11/2005 Ud. dep. 03/02/2006 – Rv. 233238); “versa in colpa – per imperizia, nell’accertamento della
malattia, e negligenza, per l’omissione delle indagini necessarie, sia al fine di dissipare dubbi
circa la esatta diagnosi del male portato dal paziente, sia per individuare la terapia di
urgenza più confacente al caso – il medico il quale, in presenza di sintomatologia idonea a
porre una diagnosi differenziale, rimanga arroccato su diagnosi inesatta, benché posta in
forte dubbio dalla sintomatologia, dalla anamnesi e dalle altre notizie, comunque,
pervenutegli, omettendo così di porre in essere la terapia più profittevole per la salute del
paziente” ( Sez. 4, n. 11651/1988 – ud. 08/11/1988, dep. 29/11/1988 – Rv. 179815).
Da parte del dott. Colombo vi fu, dunque, certamente la violazione di una regola cautelare,
in relazione alla posizione di garanzia da lui assunta nei confronti del paziente.
Né possono assumere rilievo a favore dell’imputato, i pregressi episodi relativi al
trattamento fibrinolitico al quale il Barone era stato sottoposto con successo: già il Tribunale
(pag. 14 della sentenza di primo grado) aveva infatti evidenziato la diversità delle condizioni
del paziente nelle occasioni di interesse: mentre infatti in relazione agli episodi del giugno
2003 e luglio 2004 il Barone presentava un’ottima pervietà del

graft venoso femoro

peroniero, nella circostanza oggetto della contestazione mossa al dott. Colombo, che qui
rileva, l’occlusione trombotica del by-pass era totale ed il tentativo di ricanalizzazione
meccanica con infusione locale di Actilyse, effettuato il pomeriggio del 22 marzo 2006, era
fallito.
7. Risultano invece fondate le doglianze del ricorrente relative alla ritenuta sussistenza del
nesso causale.
Giova sottolineare che nella concreta fattispecie sono stati addebitati al dott. Colombo profili
di condotta (colposa), commissiva ed omissiva con riferimento alla terapia praticata al
paziente (prolungamento del trattamento fibronilitico, quale condotta commissiva; omessa
sospensione del trattamento stesso, quale condotta omissiva), ed esclusivamente omissiva
in relazione al mancato espletamento di accertamenti diagnostici, ai fini di una diagnosi
differenziale, con particolare riferimento ad una TAC.
7.1. Prima di passare all’esame della specifica questione relativa al nesso di causalità, ed al
vaglio delle censure dedotte dal ricorrente in proposito, appare opportuno soffermarsi
innanzi tutto sul tema generale dell’onere motivazionale, con particolare rifermento agli

ricorrere nell’immediato futuro a seguito di una prevedibile modificazione del quadro o della

obblighi di motivazione del giudice di secondo grado, in relazione ai motivi dell’appello
proposto dall’imputato, nel caso di conferma della sentenza di condanna pronunciata in
primo grado. E’ certamente ius receptum che, quando le sentenze di primo e secondo grado
concordino nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle
rispettive decisioni, la struttura motivazionale della sentenza di appello può integrarsi con
quella precedente per formare un unico corpo argomentativo, sicché risulta possibile, sulla
base della motivazione della sentenza di primo grado, colmare eventuali lacune della
d’appello il quale – nell’ipotesi in cui le soluzioni adottate dal giudice di primo grado siano
state censurate dall’appellante con specifiche argomentazioni – confermi la decisione del
primo giudice aggiungendo la propria adesione senza però dare compiutamente conto degli
specifici motivi d’impugnazione, così sostanzialmente eludendo le questioni poste
dall’appellante. In tal caso non potrebbe invero nemmeno parlarsi di motivazione per
relationem, trattandosi all’evidenza della violazione dell’obbligo di motivare, previsto a pena
di nullità dall’art. 125 c.p.p., comma 3, e direttamente imposto dall’art. 111 Cost., comma
6, che fonda l’essenza della giurisdizione e della sua legittimazione sull’obbligo di “rendere
ragione” della decisione, ossia sulla natura cognitiva e non potestativa del giudizio.
Più specificamente, l’ambito della necessaria autonoma motivazione del giudice d’appello
risulta correlato alla qualità e alla consistenza delle censure rivolte dall’appellante. Se questi
si limita alla mera riproposizione di questioni di fatto già adeguatamente esaminate e
correttamente risolte dal primo giudice, oppure di questioni generiche, superflue o
palesemente inconsistenti, il giudice dell’impugnazione ben può trascurare di esaminare
argomenti superflui, non pertinenti, generici o manifestamente infondati. Quando, invece, le
soluzioni adottate dal Giudice di primo grado siano state specificamente censurate
dall’appellante, sussiste, come detto, il vizio di motivazione – in quanto tale sindacabile ex
art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) – se il giudice del gravame non si fa carico di argomentare
sulla fallacia o inadeguatezza o non consistenza dei motivi di impugnazione. Nè può ritenersi
precluso al giudice di legittimità l’esame dei motivi di appello, al fine di accertare la
congruità e la completezza dell’apparato argomentativo adottato dal giudice di secondo
grado con riferimento alle doglianze mosse alla decisione impugnata, rientrando nei compiti
attribuiti dalla legge alla Corte di Cassazione la disamina della specificità o meno delle
censure formulate con l’atto di appello quale necessario presupposto dell’ammissibilità del
ricorso proposto davanti alla stessa Corte.
7.2. Ciò precisato in punto di onere motivazionale, appare ora indispensabile, ai fini di un
corretto inquadramento della problematica relativa all’accertamento del nesso di causalità,
soffermarsi sull’evoluzione della giurisprudenza di legittimità (ricordata anche nella sentenza
impugnata e nel ricorso) in materia di colpa professionale medica (con particolare
riferimento alla condotta omissiva del sanitario).
In epoca meno recente è stato talora affermato che a far ritenere la sussistenza del

1,01

sentenza di appello. Deve tuttavia ritenersi che incorra nel vizio di motivazione il giudice

rapporto causale, “quando è in gioco la vita umana anche solo poche probabilità di
successo…. sono sufficienti” (Sez. 4, n. 4320/83); in altra occasione si è specificato che,
pur nel contesto di una “probabilità anche limitata”, deve trattarsi di “serie ed apprezzabili
possibilità di successo” (considerandosi rilevante, alla stregua di tale parametro, una
possibilità di successo del 30 °lo: Sez. 4, n. 371/92); altra volta, ancora, non aveva mancato
la Suprema Corte di affermare che “in tema di responsabilità per colpa professionale del
medico, se può essere consentito il ricorso ad un giudizio di probabilità in ordine alla
necessario che l’esistenza del nesso causale venga riscontrata con sufficiente grado di
certezza, se non assoluta.. .almeno con un grado tale da fondare su basi solide
un’affermazione di responsabilità, non essendo sufficiente a tal fine un giudizio di mera
verosimiglianza” (Sez. 4, n. 10437/93). In tempi meno remoti la prevalente giurisprudenza
di questa Corte ha costantemente posto l’accento sulle “serie e rilevanti (o apprezzabili)
possibilità di successo”, sull’ “alto grado di possibilità”, ed espressioni simili (così, Sez. 4, n.
1126/2000: nella circostanza è stata apprezzata, a tali fini, una percentuale del 75% di
probabilità di sopravvivenza della vittima, ove fossero intervenute una diagnosi corretta e
cure tempestive).
Alla fine dell’anno 2000 la Suprema Corte in due occasioni (Sez. 4, 28 settembre 2000,
Musto, e Sez. 4, 29 novembre 2000, Baltrocchi) ha poi sostanzialmente rivisto ex novo la
tematica in questione procedendo ad ulteriori puntualizzazioni. In tali occasioni è stato
invero rilevato che “il problema del significato da attribuire alla espressione «con alto
grado di probabilità>>….non può essere risolto se non attribuendo all’espressione il valore,
il significato, appunto, che le attribuisce la scienza e, prima ancora, la logica cui la scienza si
ispira, e che non può non attribuirgli il diritto”; ed è stato quindi affermato che “per la
scienza” non v’è alcun dubbio che dire «alto grado di probabilità», «altissima
percentuale», «numero sufficientemente alto di casi», voglia dire che, in tanto il
giudice può affermare che una azione o omissione sono state causa di un evento, in quanto
possa effettuare il giudizio controfattuale avvalendosi di una legge o proposizione scientifica
che «enuncia una connessione tra eventi in una percentuale vicina a cento»….”, questa
in sostanza realizzando quella “probabilità vicina alla certezza”. Successivamente (Sez. 4,
23/1/2002, dep. 10/6/2002, Orlando) è stata sottolineata la distinzione tra la probabilità
statistica e la probabilità logica, ed è stato evidenziato come una percentuale statistica pur
alta possa non avere alcun valore eziologico effettivo quando risulti che, in realtà, un certo
evento è stato cagionato da una diversa condizione; e come, al contrario, una percentuale
statistica medio-bassa potrebbe invece risultare positivamente suffragata in concreto dalla
verifica della insussistenza di altre possibili cause esclusive dell’evento, di cui si sia potuto
escludere l’interferenza.
E’ stato dunque richiesto l’intervento delle Sezioni Unite in presenza del radicale contrasto
che nel tempo si era determinato all’interno della giurisprudenza di legittimità tra due

if

o

prognosi sugli effetti che avrebbe potuto avere, se tenuta, la condotta dovuta…, è

contrapposti indirizzi interpretativi in ordine alla ricostruzione del nesso causale tra condotta
omissiva ed evento, con particolare riguardo alla materia della responsabilità professionale
del medico-chirurgo: secondo talune decisioni (che avevano dato vita all’orientamento
delineatosi più recentemente) sarebbe necessaria la prova che un diverso comportamento
dell’agente avrebbe impedito l’evento con un elevato grado di probabilità “prossimo alla
certezza”, e cioè in una percentuale di casi “quasi prossima a cento”; secondo altre decisioni
sarebbero invece sufficienti “serie ed apprezzabili probabilità di successo” per l’impedimento
Le Sezioni Unite si sono quindi pronunciate con la sentenza n. 30328 del 10/07/2002
Ud. (dep. 11/09/2002 – imp. Franzese), con la quale sono stati individuati i criteri da
seguire perchè possa dirsi sussistente il nesso causale tra la condotta omissiva e l’evento,
e sono stati enunciati taluni principi che appare opportuno qui sinteticamente ricordare: 1) il
nesso causale può essere ravvisato quando, alla stregua del giudizio controfattuale condotto
sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica – universale o
statistica – si accerti che, ipotizzandosi come realizzata dal medico la condotta doverosa
impeditiva dell’evento “hic et nunc”, questo non si sarebbe verificato, ovvero si sarebbe
verificato ma in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva; 2) non è
consentito dedurre automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge
statistica la conferma, o meno, dell’ipotesi accusatoria sull’esistenza del nesso causale,
poichè il giudice deve verificarne la validità nel caso concreto, sulla base delle circostanze
del fatto e dell’evidenza disponibile, così che, all’esito del ragionamento probatorio che abbia
altresì escluso l’interferenza di fattori alternativi, risulti giustificata e processualmente certa
la conclusione che la condotta omissiva del medico è stata condizione necessaria dell’evento
lesivo con

“alto o elevato grado di credibilità razionale”

o

“probabilità logica”;

3) l’insufficienza, la contraddittorietà e l’incertezza del riscontro probatorio sulla
ricostruzione del nesso causale, quindi il ragionevole dubbio, in base all’evidenza disponibile,
sulla reale efficacia condizionante della condotta omissiva del medico rispetto ad altri fattori
interagenti nella produzione dell’evento lesivo, comportano la neutralizzazione dell’ipotesi
prospettata dall’accusa e l’esito assolutorio del giudizio; 4) alla Corte di Cassazione, quale
giudice di legittimità, è assegnato il compito di controllare retrospettivamente la razionalità
delle argomentazioni giustificative – la cd. giustificazione esterna – della decisione, inerenti
ai dati empirici assunti dal giudice di merito come elementi di prova, alle inferenze
formulate in base ad essi ed ai criteri che sostengono le conclusioni: non la decisione,
dunque, bensì il contesto giustificativo di essa, come esplicitato dal giudice di merito nel
ragionamento probatorio che fonda il giudizio di conferma dell’ipotesi sullo specifico fatto da
provare.
Può dunque affermarsi che le Sezioni Unite hanno ripudiato qualsiasi interpretazione che
faccia leva, ai fini della individuazione del nesso causale quale elemento costitutivo del
reato, esclusivamente o prevalentemente su dati statistici ovvero su criteri valutativi a

U1,1

dell’evento.

struttura probabilistica, in tal modo mostrando di propendere, tra i due contrapposti indirizzi
interpretativi sopra ricordati, maggiormente verso quello delineatosi in tempi più recenti.
L’articolato percorso motivazionale seguito nella sentenza Franzese, induce a ritenere che
le Sezioni Unite, nel sottolineare la necessità dell’individuazione del nesso di causalità (quale
“condicio sine qua non” di cui agli artt. 40 e 41 del codice penale) in termini di certezza,
abbiano inteso riferirsi non alla certezza oggettiva (storica e scientifica), risultante da
elementi probatori di per sè altrettanto inconfutabili sul piano della oggettività, bensì alla
degli strumenti di cui il giudice dispone per le sue valutazioni probatorie: “certezza”, che
deve essere pertanto raggiunta dal giudice valorizzando tutte le circostanze del caso
concreto sottoposto al suo esame, secondo un procedimento logico – praticamente analogo
a quello seguito allorquando si tratta di valutare la prova indiziaria, la cui disciplina è dettata
dal secondo comma dell’art. 192 del codice di procedura penale – che consenta di poter
ricollegare un evento ad una condotta omissiva “al di là di ogni ragionevole dubbio” (vale a
dire, con ‘pito o elevato grado di credibilità razionale’

o ‘probabilità logica’. Invero, non

pare che possa diversamente intendersi il pensiero che le Sezioni Unite hanno voluto
esprimere allorquando hanno testualmente affermato che deve risultare «giustificata e
processualmente certa

la conclusione che la condotta omissiva del medico è stata

condizione necessaria dell’evento lesivo con ‘alto o elevato grado di credibilità razionale’ o
‘probabilità logica’».
8. Ciò posto, non resta ora che verificare se, nel caso che ne occupa, l’iter argomentativo
seguito dai giudici di seconda istanza – posto a fondamento della ritenuta sussistenza del
nesso di causalità tra la condotta del dottor Colombo e l’evento – sia in sintonia con i
principi, di cui sopra, affermati dalle Sezioni Unite.
La risposta è negativa.
La motivazione fornita al riguardo dalla Corte d’Appello di Milano con la sentenza
impugnata – all’esame retrospettivo demandato a questa Corte circa la logicità e razionalità
delle argomentazioni giustificative addotte dai giudici di seconda istanza a fondamento della

“certezza processuale” che, in quanto tale, non può essere individuata se non con l’utilizzo

propria statuizione a fronte delle specifiche deduzioni formulate con i motivi di appello – si
presenta infatti intrinsecamente contraddittoria e non in sintonia con i principi, ormai
consolidati, enunciati condivisibilmente in materia nella giurisprudenza di legittimità.
La Corte territoriale dopo aver premesso che i periti si erano pronunciati con “linguaggio
prudenziale”, ha poi affermato che le indicazioni dai medesimi fornite erano state espresse
in termini di “elevata probabilità”, per poi conclusivamente precisare che a dette conclusioni
era possibile attribuire un elevato grado di probabilità, prossima alla certezza; orbene:
1) risultano valorizzate indicazioni peritali, circa la ricostruzione del nesso di causalità,
formulate in termini di probabilità, e quindi secondo quei criteri probabilistici ripudiati dalle
Sezioni Unite con la sentenza prima ricordata; 2) appaiono evidenti le connotazioni di
illogicità nel passaggio argomentativo che ha preso avvio da un presupposto di “linguaggio

ut.fn

prudenziale” e di probabilità, sia pure “elevata”, per giungere – pur in base a tale
presupposto chiaramente ispirato a criteri probabilistici – ad una conclusione di elevato
grado di probabilità “prossima alla certezza”: di tal che, tale conclusione sembrerebbe
scaturire non tanto dalle indicazioni quali letteralmente espresse (in base a criterio
probabilistico) dai periti, quanto, piuttosto, dall’interpretazione e valutazione della Corte
distrettuale di quelle stesse indicazioni, tali da indurre la Corte stessa ad utilizzare una più
incisiva espressione lessicale idonea ad evocare il principio enunciato dalle Sezioni Unite.
rischio di emorragie”, la determinazione dell’emorragia, nel caso in esame, sarebbe
causalmente da correlare, “con sufficiente fondatezza”, ai farmaci in questione “dato il
momento di insorgenza”: così lasciando intendere – con lo specifico riferimento al “momento
di insorgenza” – che sarebbe stato individuato il preciso momento cronologico in cui era
iniziato il fenomeno emorragico. Ebbene, anche in proposito ci si trova in presenza di una
palese contraddittorietà, posto che i periti, come sopra ricordato, si erano espressi invece
secondo un criterio probabilistico in relazione al momento genetico del fenomeno
emorragico, la cui rilevanza è di intuitiva evidenza proprio con riferimento agli addebiti di
natura omissiva contestati all’imputato; tema sul quale la difesa di quest’ultimo, con i motivi
di appello, si era particolarmente e diffusamente soffermata, anche con il richiamo a
specifici atti processuali ed a dati clinici. Dalla perizia in atti – cui è consentito a questa Corte
accedere perché specificamente indicata con il ricorso, e tenuto conto della natura della
doglianza dedotta – si rileva invero che: 1) a pag. 21 i periti, dopo aver completato la sintesi
descrittiva della vicenda clinica, avevano evidenziato come risultasse “nevralgico presentare
l’interpretazione fisiopatologica di quanto conclamato a danno del signor Barone nel periodo
compreso tra l’avvio della degenza c/o Clinica Columbus ed il tardo pomeriggio del 26 marzo
2006”: così dimostrando, dunque, di ritenere di fondamentale importanza l’individuazione
della “catena fisiopatologica dispiegatasi a danno del signor Barone nel lasso temporale di
mirato interesse”; 2) ancora a pag. 21, i periti avevano sottolineato l’assenza di elementi
tecnici “perentoriamente dimostrativi di detta catena fisiopatologica”, avvertendo che le loro
argomentazioni avrebbero dovuto essere intese quali “indicazioni probabilistiche”; 3) a pag.
24 – in riferimento ai rimedi che sarebbe stato possibile adottare ove fosse stata
diagnosticata “una modesta emorragia endocranica a mezzo TC” – i periti avevano poi
utilizzato il termine “probabilmente”, ed al riguardo, con apposita nota a piè di pagina (nota
44), avevano ritenuto opportuno richiamare quanto già precisato “in apertura della sezione
di interpretazione fisiopatologica degli eventi occorsi a carico del signor Barone” (così si
legge letteralmente), laddove era stato fatto esplicito riferimento, appunto, ad un criterio
probabilistico. Dalla stessa perizia si rileva dunque che i periti non erano stati in grado di
individuare con certezza (nel senso di “alto o elevato grado di credibilità razionale” o
“probabilità logica”, prossima alla certezza) la “catena fisiopatologica” dagli stessi
considerata elemento nevralgico.

Secondo i giudici di appello, essendo “assodato che trombolitici ed eparina comportano

Orbene, l’individuazione del momento iniziale dell’emorragia costituisce un elemento
fattuale ancor più significativo ove si consideri che allorquando, nel pomeriggio del 26
marzo, si verificò la perdita di coscienza per il Barone, questi era nel proprio domicilio, dopo
aver lasciato in mattinata la clinica Columbus per sua volontà rifiutando la visita neurologica
proposta dai sanitari. Sul punto la motivazione della sentenza impugnata mostra una
evidente distonia rispetto ai princìpi enunciati in materia dalla giurisprudenza di legittimità;
ed invero, il punto fermo che le Sezioni Unite, con la decisione sopra richiamata, hanno
dall’indirizzo interpretativo in precedenza di volta in volta seguito, il necessario presupposto
fattuale di partenza, ai fini dell’accertamento della penale responsabilità del medico per
colpa omissiva – è che, nella ricostruzione del nesso eziologico, non può assolutamente
prescindersi dall’individuazione di tutti gli elementi concernenti la causa dell’evento: solo
conoscendo in tutti i suoi aspetti fattuali e scientifici il momento iniziale e la successiva
evoluzione della malattia, è poi possibile analizzare la condotta (omissiva) colposa
addebitata al sanitario per effettuare il giudizio controfattuale e verificare se, ipotizzandosi
come realizzata la condotta dovuta, l’evento lesivo sarebbe stato evitato “al di là di ogni
ragionevole dubbio” (nel rispetto della generale regola di giudizio, ispirata a criteri di civiltà
giuridica, stabilita nell’art. 533, primo comma, del codice di rito).
L’accoglimento della censura relativa al nesso di causalità assorbe il quarto motivo di
ricorso – concernente il diniego di un supplemento di perizia – nonché le doglianze aventi ad
oggetto il trattamento sanzionatorio: per completezza argomentativa appare opportuno
tuttavia evidenziare, a tale ultimo proposito, che, contrariamente a quanto affermato dalla
Corte territoriale nel respingere anche le richieste subordinate avanzate dalla difesa
dell’imputato con i motivi di appello, già il primo giudice aveva concesso all’imputato le
attenuanti generiche (con valutazione di prevalenza rispetto alle aggravanti), come peraltro
risulta precisato nella parte descrittiva della stessa sentenza della Corte d’Appello (pag. 1,
nell’incipit dello “Svolgimento di processo”).

Alla stregua di tutte le suesposte considerazioni, l’impugnata sentenza deve essere
annullata, con rinvio, per nuovo esame – se del caso, ed ove ritenuto necessario, anche
previo un eventuale supplemento di perizia – alla Corte d’Appello di Milano, altra Sezione,
che terrà conto dei princìpi di diritto e dei rilievi motivazionali di cui sopra, demandando alla
stessa anche il regolamento delle spese tra le parti per il presente giudizio.
P. Q. M.

Annulla la sentenza impugnata, con rinvio ad altra Sezione della Corte d’Appello di Milano
cui demanda anche il regolamento delle spese tra le parti per il presente giudizio.
Roma, 12 dicembre 2012

Il Presidente

Il Co igliere estensore

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inteso ribadire come fondamentale – e che peraltro ha rappresentato sempre, a prescindere

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

IV Sezione Penale

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