Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 17133 del 11/04/2013


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Penale Sent. Sez. 6 Num. 17133 Anno 2013
Presidente: AGRO’ ANTONIO
Relatore: APRILE ERCOLE

SENTENZA

sul ricorso presentato da
Falsone Giuseppe, nato a Licata il 04/03/1984

avverso la sentenza del 14/02/2012 della Corte di appello di Palermo;

visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Ercole Aprile;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Roberto
Aniello, che ha concluso chiedendo l’inammissibilità del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Con la sentenza sopra indicata la Corte di appello di Palermo confermava la
pronuncia di primo grado del 02/12/2010 con la quale il Tribunale della stessa
città aveva condannato alla pena di giustizia Giuseppe Falsone in relazione al
reato di cui all’art. 372 cod. pen., per avere reso, il 28/09/2006, falsa
testimonianza nel corso del processo a carico di tal Marco Sanfilippo, pendente
dinanzi a quel medesimo Tribunale.

Data Udienza: 11/04/2013

Rilevava la Corte di appello come le emergenze processuali avessero
dimostrato la colpevolezza del Falsone in ordine al reato ascrittogli; e come
fossero infondati i due motivi dell’impugnazione con i quali era stata denunciata
la inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dal prevenuto durante quell’esame
perché lo stesso era stato sentito come testimone assistito ai sensi dell’art. 197
bis cod. proc. pen., ma senza che gli fossero previamente dati gli avvisi di cui
all’art. 64 comma 3 del codice di rito; ed era pure segnalata l’applicabilità
dell’art. 54 cod. pen., trattandosi di condotta non punibile perché l’imputato era
suoi confronti.
2. Avverso tale sentenza ha presentato ricorso Giuseppe Falsone, con atto
sottoscritto personalmente, il quale, con due distinti motivi, ha dedotto la
violazione di legge in relazione agli artt. 197 bis cod. proc. peri. e 54 cod. pen.,
sostanzialmente riproponendo gli argomenti già esposti con l’atto di appello.
CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Ritiene la Corte che il ricorso vada rigettato.
2. Il primo motivo del ricorso è infondato.
L’art. 197 bis cod. proc. pen. distingue, nei commi 1 e 2, la posizione
dell’imputato dello stesso reato da quella dell’imputato in reato connesso ai sensi
dell’art. 12 lett. c) o di reato collegato ai sensi dell’art. 371 comma 2 lett. b) cod.
proc. pen. Il primo, anche laddove (a seguito di separazione del procedimento
con riferimento ai coimputati) abbia assunto la veste di imputato in
procedimento connesso ai sensi dell’art. 12 lett. a) – in quanto concorrente nella
commissione reato o coautore in cooperazione – è incompatibile con l’ufficio di
testimone (art. 197 cod. proc. pen.), mentre può essere sentito come testimone
assistito solamente quando il procedimento nei suoi confronti sia stato definito
con una sentenza irrevocabile di proscioglimento, di condanna o di
patteggiamento, ovvero abbia visto il proprio procedimento archiviato (così Sez.
U, n. 12067/10 del 17/12/2009, De Simone e altro, Rv. 246376). Il secondo,
invece, proprio perché imputato di “altro” reato connesso o collegato e, dunque,
chiamato a rendere dichiarazioni sulla responsabilità altrui, può sempre
assumere la veste di testimone assistito, ma alle condizioni rispettivamente
previste dal comma 1 o dal comma 2 a seconda che si tratti o meno di imputato
“giudicato”, cioè che la sua posizione sia stata o meno definita con una delle
sentenze sopra elencate.
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stato costretto a modificare la sua precedente versione dal timore di ritorsioni nei

Dalla distinzione innanzi esposta consegue che l’odierno ricorrente, imputato
non dello stesso reato contestato alla persona sulla cui responsabilità avrebbe
dovuto rendere dichiarazioni, ma imputato di un procedimento connesso ai sensi
dell’art. 12 lett. c), ovvero di un reato collegato ex art. 371 comma 2 lett. b),
ben poteva essere sentito come testimone assistito: e poiché la sua posizione era
stata definita con una sentenza di patteggiamento divenuta irrevocabile, la
disposizione applicabile nei suoi riguardi era quella dettata dal comma 1 dell’art.
197 bis cod. proc. pen., che, a differenza di quanto stabilito dal comma 2 dello
codice. Egli, dunque, aveva diritto ad essere assistito da un difensore (cosa che è
avvenuta) ed era obbligato dire la verità: ciò fatti salvi i particolari casi che, a
mente del comma 4 dell’art. 197 bis, lo avrebbero autorizzato ad avvalersi della
facoltà di non rispondere per evitare di rendere dichiarazioni autoincriminanti,
ipotesi nella fattispecie, però, non configurabile dato che – come emerge dalla
motivazione della sentenza gravata – l’imputato aveva già reso, durante le
Indagini, dichiarazioni in merito alla vicenda ed aveva pure riconosciuto la
propria responsabilità (v. pagg. 2-3 sent. impugn).
Resta il dubbio, ingenerato da un passaggio della motivazione dell’ordinanza
della Corte costituzionale n. 191 del 2003 (della quale si dirà più avanti), se al
ricorrente, cui correttamente sia stata attribuita la veste soggettiva di imputato
già “giudicato” in procedimento connesso o di reato collegato, spettassero
comunque, prima che avesse inizio il suo esame, gli avvisi di cui al richiamato
art. 64. Sul punto questo Collegio non ha ragione di discostarsi dall’orientamento
oramai consolidato della giurisprudenza di questa Corte, per il quale è escluso
che vi sia un obbligo di siffatta natura, non dovendo gli avvisi neppure essere
dati agli imputati indicati nel comma 2 dell’art. 197 bis, e cioè agli imputati in
procedimenti connessi ex art. 12 lett. c) o collegati (così Sez. 5, n. 12976 del
23/02/2012, Monselles, Rv. 252317). Ed infatti, il tenore complessivo della
disposizione prevista dall’art. 197 bis cod. proc. pen. rende palese come la
finalità del legislatore della novella del 2001 sia stata quella di evitare che un
soggetto, chiamato a rendere dichiarazioni sull’altrui responsabilità penale, possa
correre il pericolo di rendere dichiarazioni per lui pregiudizievoli: in tal senso, la
dazione dell’avviso previsto dall’art. 64 comma 3 lett. c) – e cioè l’avviso che “se
renderà dichiarazioni su fatti che concernono la responsabilità di altri” potrebbe
assumere, “in relazione a tali fatti, l’ufficio di testimone, salve le incompatibilità
previste dall’art. 197 e le garanzie di cui all’art. 197 bis – ha una sua ragion
d’essere solo se riferita all’interrogatorio dell’indagato, eseguito dall’autorità
giudiziaria senza le regole del contraddittorio, e non anche alla fase del giudizio
dibattimentale nel corso del quale l’esame dell’imputato connesso o collegato,

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stesso articolo, non richiama né comporta l’operatività dell’art. 64 del medesimo

che in precedenza ha già reso dichiarazioni sulla responsabilità di altri, avviene
con il rispetto di quelle regole.
In questa ottica, non è affatto casuale che, al contrario di quanto stabilito
dall’art. 197 bis, l’art. 210 comma 6 cod. proc. pen. prescriva espressamente la
necessità che sia dato il considerato avviso di cui all’art. 64 comma 3 lett. c),
dunque anche l’avviso della facoltà di non rispondere, ai soggetti da esaminare
che rivestono quella qualifica, e cioè agli imputati in procedimento connesso ex
art. 12 lett. c) o di reato collegato ex art. 371 comma 2 lett. b) che in
processo in cui quell’esame è stato ammesso.
Anche alla luce della dicotomia appena tratteggiata, fissata dal codice di rito
con gli artt. 197 bis e 210, si può coerentemente spiegare la pronuncia della
Consulta del 2003 innanzi richiamata, con la quale, nel dichiarare la manifesta
infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 64 cod. proc.
pen., nella parte in cui non prevede che gli avvisi ivi prescritti debbano essere
dati all’imputato anche in sede di esame dibattimentale, i Giudici delle leggi
avevano sostenuto la possibilità di diverse letture del sistema, tali da vanificare
la premessa su cui la questione sollevata si era radicata, potendosi
legittimamente far leva su di una interpretazione che consente di rendere
applicabile la disciplina degli avvisi anche all’istituto dell’esame. Principio,
questo, non a caso enunciato con riferimento ad una fattispecie – ben diversa da
quella oggetto del ricorso portato all’odierna attenzione di questo Collegio, in cui
l’imputato in procedimento connesso o di reato collegato aveva visto definita la
sua posizione con sentenza irrevocabile ed era stato citato come teste in altro
processo – in cui il problema del dare o meno gli avvisi ex art. 64 si era posto
per un imputato che doveva essere esaminato nel corso del giudizio
dibattimentale a suo carico, per il quale si era prospettata, per la prima volta, la
possibilità che potesse rendere dichiarazioni concernenti la responsabilità di altri
e, dunque, la necessità che gli fossero dati quegli avvisi, dato che, in futuro, egli
avrebbe potuto vedere modificata la sua veste in quella di testimone assistito.
3. Anche il secondo motivo del ricorso è manifestamente infondato.
La Corte di appello di Palermo – con motivazione adeguata e congrua – ha
chiarito come fosse del tutto priva di concreti elementi fattuali l’affermazione
difensiva secondo cui l’imputato avrebbe agito in stato di necessità perché nel
timore di subire ritorsioni da parte di colui che avrebbe dovuto accusare, avendo
Io stesso tenuto, nel corso del suo esame dibattimentale, un atteggiamento di
costante chiusura nei confronti del pubblico ministero che gli stava rivolgendo le
domande, senza mai neppure far trasparire una paura e neppure una sia pur
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precedenza non abbiano reso dichiarazioni sulla responsabilità dell’imputato del

3173”.

minima preoccupazione, per le eventuali conseguenze pregiudizievoli che
sarebbero astrattamente potute derivare dalle sue indicazioni accusatorie.
Ciò in conformità al consolidato orientamento di questa Corte per il quale non
rileva, quale elemento dello stato di necessità a giustificazione della condotta di
favoreggiamento personale, il generico timore di future rappresaglie contro la
propria persona da parte del favorito (così Sez. 6, n. 13134 del 16/03/2011,
Esposito, Rv. 249891; Sez. 6, n. 34595 del 07/05/2009, Lo Scrudato, Rv.

4. Al rigetto del ricorso consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. peri., la
condanna del ricorrente al pagamento in favore dell’erario delle spese del
presente procedimento.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 11/04/2013

244759).

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